È opinione diffusa che, all’interno del contesto europeo, la giurisprudenza francese sia probabilmente la più vivace sulle problematiche che riguardano la Rete.
All’interno del mare magnum di pronunce che si sono susseguite negli ultimi mesi, meritano di essere segnalati due casi relativi, rispettivamente, alla liceità dei metatag (argomento sul quale le corti si sono espresse raramente) ed alla responsabilità di YouTube per violazioni del diritto d’autore.
Il primo caso è stato deciso dal Tribunal di Grande Instance di Parigi il 29 ottobre scorso.
Il giudizio è stato introdotto dalla società Free – un ISP detentore di circa il 25% del mercato francese e titolare del nome di dominio free.fr – che ha agito contro la società Osmozis, che aveva registrato, in epoca successiva alla registrazione effettuata dalla Free, il dominio freewifi.fr
A giudizio di parte attrice, tale registrazione costituirebbe una violazione del proprio marchio di impresa, anche in considerazione della similarità del settore merceologico nel quale operano le due società.
La corte ha condannato la Osmozis, riconoscendo il carattere notorio del marchio e ritenendo che la contraffazione sia determinata dal probabile rischio di confusione nel pubblico.
La decisione precisa, però, che alla medesima soluzione non si sarebbe potuti giungere nel caso di un marchio non notorio, a fronte, come nel caso di specie, del mero inserimento di un segno distintivo all’interno del nome di dominio.
Difatti, a giudizio dei giudici transalpini “dès lors que la fonction même de marque n’est pas remplie, or, il apparaît qu’en l’espèce, le nom de domaine litigieux est utilisé en tant que chemin d’accès technique au site de la société Osmozis et n’est jamais repris sur le site lui-même, qu’il ne peut dans ces conditions remplir la fonction de marque”.
La decisione, invece, nega che l’utilizzo di un marchio all’interno dei metatag possa costituire una condotta illecita. Nella decisione si legge, infatti, che “les méta tags sont des informations situées au sein d’un document et utilisées par les moteurs de recherche lors du référencement de la page web, ce sont donc des balises non affichées donc non visibles par les internautes, qui permettent d’avoir des informations, à aucun moment, elles ne peuvent remplir la fonction de marque qui doit être perceptible par le public à qui elle s’adresse pour garantir l’origine d’un produit”.
Il secondo caso, invece, è stato deciso dal Tribunal di Grand Instance di Créteil (una cittadina alle porta di Parigi) il 14 dicembre e ha visto la condanna di YouTube, colpevole di aver distribuito materiale coperto dal diritto d’autore e di proprietà dell’INA (Institut National de l’Audiovisuel).
La decisione riconosce espressamente che l’attività esercitata da YouTube possa rientrare nella nozione di hosting, ma ritiene che la società convenuta sia responsabile dal momento che, pur essendole stato comunicato che alcuni contenuti diffusi erano di proprietà dell’INA, non li ha rimossi.
La questione, quindi, sembra appuntarsi su due aspetti controversi della direttiva sul commercio elettronico (e, di conseguenza, delle singole legislazioni nazionali): cosa siano esattamente i contenuti manifestamente illeciti e, soprattutto, quali siano le procedure di notice and take-down da adottare e ritenute efficaci dai singoli tribunali nazionali.
In Italia, com’è noto, non è infatti sufficiente che il titolare di un diritto comunichi la presunta illiceità di un contenuto distribuito; tuttavia, molti ISP e molti altri player del mercato prevedono, nelle loro condizioni generali di contratto, la possibilità di rimozione delle informazioni e dei contenuti “caricati” dagli utenti.
L’aspetto della decisione che appare forse più significativo non è però la condanna – pur pesante, trattandosi di 150.000 euro – per contraffazione, quanto l’ordine impartito a YouTube di installare un sistema di filtraggio.
Anche in questo caso, siamo al cospetto di un profilo controverso e oggetto di forti discussioni: è legittimo l’ordine di installare un sistema di filtraggio oppure, surrettiziamente, si sta provando ad introdurre un modello di monitoraggio generale, vietato dalla direttiva sul commercio elettronico?
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