1. Il principio
La Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi di un tema di non semplice soluzione e che costituisce un buon esempio delle nuove questioni aperte con l’avvento e la massiccia diffusione di Internet, anche come veicolo della libertà di manifestazione del pensiero. Stiamo parlando della possibilità di attribuire al gestore del sito web o della piattaforma una qualche forma di responsabilità per i contenuti prodotti da terzi ed ospitati nella pagina web.
La sentenza che qui segnaliamo, emessa dalla V sezione della Cassazione, sembrerebbe ritenere che il gestore di un sito web risponda per i contributi diffamatori pubblicati da altri, anche se firmati dall’autore, qualora sia a conoscenza dalla pubblicazione. Per di più, parrebbe sufficiente ad emettere una condanna in concorso con l’autore materiale del fatto, una presunzione di conoscenza derivante dal fatto che il gestore dello spazio sia stato avvisato con una e-mail da un privato – in questo caso lo stesso autore – della diffusione.
2. La vicenda
Non è semplice dalla motivazione della sentenza capire tutte le sfaccettature del fatto utili ad apprezzare le ragioni della decisione. Proviamo qui a sintetizzarle. Nell’agosto del 2009 un lettore pubblicava su un sito specializzato in notizie relative al gioco del calcio un commento offensivo nei confronti di un soggetto che stava per ricoprire una carica importante a livello nazionale. Più precisamente, tra l’altro, lo apostrofava come «emerito farabutto» e «pregiudicato doc», allegando il certificato penale della persona in questione. A quanto si è inteso, i commenti sul sito in questione erano liberi, cioè i lettori potevano introdurli senza alcun preventivo filtro da parte della redazione. Non molti giorni dopo, l’autore delle frasi “incriminate” inviava questa volta per e-mail al “direttore” del sito il certificato penale già accluso al commento.
Mentre in primo grado veniva esclusa la responsabilità del titolare del blog, la Corte d’Appello, riformando la sentenza, lo condannava per concorso nel delitto di diffamazione a mezzo internet (art. 595 co. 3 c.p.), riconoscendo altresì alla parte civile un risarcimento non irrilevante. La condotta rimproverata sembra unicamente quella di non avere provveduto alla cancellazione del contenuto oggetto di querela, nonostante la conoscenza del suo tenore, o almeno di non averlo fatto fino a quando l’autorità giudiziaria non ne disponeva il sequestro preventivo.
La tesi del ricorrente che chiedeva l’annullamento della sentenza si basava su due argomenti. Da un lato egli affermava di non avere affatto contribuito alla pubblicazione poiché, come accennato, quello in esame sembrerebbe essere un blog non monitorato. In secondo luogo, l’imputato sottolineava di aver preso coscienza del messaggio pubblicato soltanto al momento della notifica della misura cautelare reale.
La Cassazione, come anticipato, conferma la condanna del responsabile del sito per concorso nella diffamazione commessa dall’autore del messaggio. La rimproverabilità in capo al primo deriverebbe dal fatto che egli ha «mantenuto consapevolmente l’articolo sul sito, consentendo che lo stesso esercitasse l’efficacia diffamatoria» fino al momento in cui non è stato oscurato in virtù del provvedimento di sequestro. È interessante notare come lo sforzo della motivazione sia tutto incentrato sulla dimostrazione della consapevolezza circa la presenza del contenuto diffamatorio sulla piattaforma. A questo proposito la Corte sembra porre l’attenzione e sottolineare soprattutto, quando non esclusivamente, due dati: il Collegio ricorda come l’imputato abbia da un lato ricevuto una e-mail dall’autore del commento “incriminato” con allegato il certificato penale che quest’ultimo aveva diffuso, dall’altro pubblicato un articolo, questa volta a propria firma, in cui faceva espresso riferimento al “post” del lettore.
Dal tenore della motivazione pare che la conferma della condanna del gestore sia derivata dalla sua mera coscienza del fatto che il testo fosse online.
La circostanza che la Corte si concentri sull’aspetto appena descritto potrebbe far intendere che, secondo i Supremi giudici, sia ormai consolidato – e non abbia quindi bisogno di una spiegazione ad hoc – il principio in base al quale il titolare di un sito web, se non cancella un contributo diffamatorio inserito da altri, risponde del reato di cui all’art. 595 c.p.
3. Qualche timida perplessità
Quella appena sintetizzata non pare una conclusione convincente e per più di una ragione.
In primo luogo, perché un simile “precedente” non sembra essere coerente con le regole in materia di concorso di persone nel reato che, pur ampie, non pare riescano ad abbracciare anche una condotta come quella dell’amministratore della pagina web in relazione a quella dell’autore del post. Cercando di declinare tali regole nel caso concreto, certamente al titolare di un blog può essere contestato il delitto di diffamazione per un testo di terzi, se ne viene appurato un contributo morale o materiale alla esecuzione del fatto, cioè la lesione della reputazione del querelante, prima o al momento della diffusione del messaggio offensivo.
Volendo entrare ancora più nel dettaglio, ciò può accadere quando il “dominus” della pagina abbia ispirato o istigato o rafforzato il proposito criminoso dell’agente materiale, come nel caso in cui abbia commissionato un articolo con l’esplicito scopo di screditare la persona offesa, oppure abbia convinto l’autore titubante o l’abbia rassicurato circa la correttezza del suo agire, in modo tale da incidere sulla sua decisione e sul tenore del messaggio. Una responsabilità può essere attribuita anche quando il sito sia monitorato e le parole dei lettori siano pubblicate soltanto dopo il vaglio e l’autorizzazione dell’amministratore. In quest’ultimo caso, non sembrano esservi molti dubbi sul fatto che il moderatore dello spazio di discussione abbia concorso nell’eventuale reato: senza la sua condotta attiva, infatti, il massaggio non sarebbe mai stato divulgato e, di conseguenza, l’offesa recata.
La Cassazione, lo si ribadisce, non si dilunga, né per la verità nemmeno accenna, a circostanze che possano far giungere a ritenere davvero sussistenti i presupposti per un concorso, del primo o del secondo tipo. La Corte appunta la propria decisione sul fatto che il titolare del sito non si sia attivato per cancellare il messaggio offensivo, pur essendo a conoscenza della sua presenza online e ciò in quanto con tale comportamento egli avrebbe consentito la ulteriore diffusione del contenuto lesivo.
Va detto, tuttavia, che il comportamento omissivo, posto in essere dopo l’esecuzione di un’attività illecita già integralmente realizzata, non sembra consentire di contestare il concorso nel delitto consumato.
Nel caso specifico, poi, tenuto conto della natura istantanea della diffamazione, che si realizza con la lettura da parte di due persone, il mero consentire che gli effetti lesivi si procrastinino, a causa della persistenza in rete del commento, non si ritiene possa essere qualificato come una partecipazione penalmente rilevante. Per la verità, poi, nel caso di propalazione a un pubblico indefinito, il momento consumativo del reato è stato ritenuto, per convenzione, quello della diffusione, senza che sia necessaria la dimostrazione concreta della percezione da parte di una pluralità di soggetti, sicché la condotta del gestore sembra “contare” ancora meno.
Vi è un’altra ragione per cui la decisione in commento non ci pare condivisibile. La condotta contestata al gestore è di natura omissiva e si sostanzia nel non essere intervenuto, in presenza di un contenuto illecito, a eliminarlo dalla piattaforma. Più precisamente i Giudici paiono avere ascritto all’imputato il delitto di diffamazione combinando l’art. 595 c.p. con l’art. 40, comma 2, c.p. in base al quale, come noto, non impedire un evento illecito che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Ci troviamo quindi di fronte a un reato omissivo improprio, contestabile però soltanto se esiste, come accennato, una posizione di garanzia (l’obbligo giuridico di impedire l’evento). Le posizioni di garanzia nel nostro ordinamento possono avere soltanto tre fonti: la legge, un contratto o il pregresso esercizio di un’attività pericolosa.
Il titolare di uno spazio web non risulta essere destinatario di alcuna posizione di garanzia rispetto ai contenuti della “sua” pagina derivante dalla legge: al semplice blogger non è certo applicabile, per giurisprudenza ormai costante, l’art. 57 c.p., che prevede una responsabilità per omesso controllo del direttore di un periodico cartaceo per i reati commessi sul periodico da lui diretto. Egli, infatti, da una parte non ha alcun dovere, in vista della pubblicazione, di controllare i contenuti al fine di impedirne la diffusione di illeciti. Né, in seguito alla pubblicazione, sempre il titolare ha alcun dovere di cancellare quelli diffamatori o, meglio, con una precisazione che spiegheremo di qui a un momento, quelli di cui la persona offesa lamenta la diffamatorietà.
La maggior parte delle pagine web, poi, chiarisce bene, tra le regole generali di utilizzo dello spazio, che i titolari del dominio non rispondono dei contenuti prodotti da terzi. E, infine, pare obiettivamente arduo affermare che la diffusione di fatti e opinioni, tutelata dall’art. 21 della Costituzione, sia catalogabile fra le attività pericolose.
La mancanza di una posizione di garanzia ha come ovvia conseguenza l’impossibilità di contestare una diffamazione in forma omissiva impropria per la mera mancata cancellazione di testi, quand’anche fossero ritenuti penalmente rilevanti, in assenza di una richiesta in tal senso della pubblica autorità.
Quest’ultimo accenno alla pubblica autorità va chiarito, come va chiarito il riferimento al fatto che il gestore non ha l’obbligo di cancellare testi a richiesta del privato. L’unica disposizione all’interno dell’ordinamento che ha disciplinato la responsabilità dell’host provider – figura assimilabile all’amministratore di una pagina web, per quanto qui interessa – per i contenuti prodotti da terzi è l’art. 17, d.lgs. 70/2003 che, quindi, in assenza di altre, è divenuta quella di riferimento. La disposizione prevede che, appunto, il soggetto fornitore dello spazio in rete non risponde di quanto ivi introdotto da altri purché non ne conosca la illiceità e non rifiuti di eliminare i contenuti quando ciò viene chiesto dalla pubblica autorità.
Nel caso in esame non era accaduto nulla di simile: non sembra che dalla motivazione emergano elementi che inducano a ritenere con certezza che l’imputato fosse a conoscenza della pubblicazione e, in ogni caso, non pare che il gestore avesse coscienza del carattere illecito del testo. E ciò se non altro perché qui, come accade spesso nelle diffamazioni, in astratto l’espressione poteva risultare offensiva, ma la concreta illiceità del messaggio “si giocava” soprattutto sulla verità del fatto narrato o posto alla base della critica. Questo tipo di analisi, di solito, non è né semplice né immediata.
Per concludere, la soluzione della Corte risponde a una comprensibile richiesta di giustizia. In assenza di un legislatore, ormai per antonomasia latitante, la Cassazione è indotta a supplire alle carenze normative, introducendo regole finalizzate a disciplinare un fenomeno con spiccati tratti di novità, come è la manifestazione del pensiero in rete.
Il risultato però non soddisfa. La responsabilità posta in capo al gestore del sito somiglia molto a una responsabilità oggettiva “per posizione”, inammissibile in un sistema penale costituzionalmente ben orientato. Inoltre, se un indirizzo di questo tenore prendesse piede, i titolari dei siti sarebbero indotti a operare una drastica censura per evitare di incorrere in guai giudiziari, circostanza che rischia di impoverire la rete delle opinioni controcorrente, col risultato di rendere il web peggiore di come potrebbe essere e diverso da come abbiamo imparato a conoscerlo.
Astraendosi dal caso concreto, poi, l’odierna tendenza della giurisprudenza a generare regole, come si diceva comprensibile nel contesto odierno, diventa rischiosa se supera i confini posti dal sistema. Continuiamo a pensare che un vuoto legislativo possa anche essere riempito dall’opera del potere giudiziario, se ciò accade stando nei limiti tracciati per l’esercizio di tale potere.