Si è ripetuto spesso come il Covid-19 abbia generato in poche settimane un’accelerazione nello sviluppo della domanda di connettività e di servizi digitali abilitati dalle reti di telecomunicazione che avrebbe altrimenti richiesto anni. Se non fosse stato possibile continuare a lavorare, studiare ma anche semplicemente comunicare grazie ad Internet, il periodo di lockdown avrebbe avuto un impatto ancora peggiore sull’economia e sulla società di quello che già è stato. Allo stesso tempo, questo shock della domanda digitale ha risaltato le differenze di accesso a Internet come mai era accaduto prima. Da diversi decenni si discute di digital divide e si mettono in campo iniziative più o meno efficaci per contrastarlo in giro per il mondo, Italia inclusa. Ma mai come in questa occasione si è avuta una rappresentazione così evidente delle conseguenze delle differenti possibilità di accesso a Internet. Alle famiglie che non ne potevano disporre è stato negato di colpo il diritto allo studio dei componenti più giovani, per molte il diritto al lavoro ma anche, almeno in parte, quello a intrattenere relazioni sociali o allo svago, presupposti fondamentali di una società moderna. Non stupisce che, secondo una recente indagine demoscopica del Pew Research Center, il 53% degli americani abbia dichiarato che Internet è stato essenziale per loro in questo periodo (contro il 34% che lo giudica importante ma non essenziale, il 10% non troppo importante e solo il 3% per nulla importante). Al di là delle percentuali che possono essere giudicate più o meno alte, qui emergono i due profili principali della questione. Stabilire se Internet sia un servizio essenziale, alla stregua delle utility domestiche (elettricità, gas e acqua), e cosa significa eventualmente, se non garantire, quantomeno facilitare l’accesso a Internet (semplicemente una connessione a velocità adeguata oppure anche il complesso dei mezzi digitali, cioè l’hardware e il software, per poter davvero fruire delle opportunità offerte dalla rete?). Domanda tutt’altro che peregrina visto che, secondo lo stesso sondaggio, la maggioranza degli americani si oppone a un coinvolgimento attivo dello stato nel garantire a tutti i cittadini l’accesso alla banda ultralarga ma al contempo è favorevole a che vengano resi disponibili device elettronici ai minori (in particolare a quanti vivono in famiglie a basso reddito) per consentire loro di avere accesso alla didattica a distanza.
In quale misura Internet è paragonabile alle altre utenze domestiche?
Prima del Covid-19, si poteva forse argomentare contro una piena equivalenza di Internet a utenze domestiche giudicate essenziali come l’elettricità, il gas e l’acqua. Per due ordini di ragioni. In primo luogo, l’assenza o la scarsa qualità di una linea fissa residenziale è potenzialmente sostituibile non solo con un’utenza mobile[1] ma anche e per certi versi soprattutto con una connessione sul proprio luogo di lavoro o di studio. Laddove evidentemente questo non può avvenire per le altre utenze domestiche, se non con grave disagio. Il corollario della precedente osservazione, basata su una distinzione fisica tra ambiente domestico e luogo di lavoro o apprendimento, è che l’uso di Internet a casa sia spesso associato con attività che possono essere giudicate futili o quantomeno non meritevoli di un supporto pubblico, dallo streaming tv ai giochi online, dai social media alle chat con gli amici.
Se il Covid-19 ha radicalmente messo in discussione entrambi gli assunti, occorre chiedersi se una volta che sparirà la pandemia si ritornerà o meno al punto di partenza.
In realtà, ci sembra di poter dire che anche in questo caso l’emergenza sia stata un acceleratore di trend già in atto. Lo smart working incominciava a diffondersi[2] ed è probabile se non quasi certo che, una volta dimostrato anche ai più refrattari datori di lavoro che si può lavorare bene anche a distanza, spesso con benefici reciproci, si tornerà negli uffici con minore frequenza rispetto a prima (per inciso, con un impatto positivo sulla produttività, sull’ambiente e sulla congestione da traffico urbano). Per quanto riguarda l’istruzione, certamente si riprenderà la vita scolastica e universitaria che, salvo casi particolari (studenti lavoratori o distanti geograficamente), non può non concepirsi senza una sede fisica. Tuttavia, è del tutto auspicabile che la relazione fisica sia arricchita dalla possibilità di accedere alle opportunità che offre Internet (pensiamo ai video educativi o a progetti collaborativi a distanza, dalle cose più banali come dei team di studio a quelle più complesse, come degli scambi con l’estero virtuali).
In quest’ottica, immaginare un uso di Internet futile o accessorio a casa diventerebbe come indagare se l’elettricità serva a guardare una partita di calcio in televisione piuttosto che a illuminare la scrivania sulla quale si fatica sui libri di studio o sulle carte di lavoro la sera.
La multidimensionalità dell’accesso a Internet
Il dibattito sul diritto di accesso a Internet è stato tradizionalmente dominato dalla necessità di coprire quanto più possibile il territorio e le relative unità immobiliari con una capacità di connessione di qualità adeguata o quantomeno sufficiente. Uno sforzo peraltro reso difficile dal fatto che, a differenza delle altre utenze domestiche, gli standard di telecomunicazione evolvono nel tempo e dunque la frontiera da raggiungere continua ad espandersi, costringendo le istituzioni pubbliche e gli operatori di telecomunicazione a un inseguimento dispendioso (che, come sappiamo, deve fare i conti, almeno in Italia, anche con un sistema autorizzativo e più in generale un impianto normativo e burocratico non certo investment-friendly). Tuttavia, proprio l’esperienza del Covid-19 ha reso evidente come un approccio basato solo sulla possibilità teorica di connettersi a Internet rischia di essere limitante. Altrettanta importanza rivestono due altri fattori, cioè la possibilità economica di accedere a Internet e la capacità cognitiva e informativa di fruirne nel modo migliore. Su quest’ultimo aspetto osservo soltanto l’importanza del learning by doing, reso possibile dall’uso abituale degli strumenti digitali, che certamente non potrà livellare il knowledge gap esistente tra diversi individui ma quantomeno potrà consentire una riduzione del divario di competenze digitali[3], peraltro molto basse in Italia, come si evince anche dal Digital Economy and Society Index (DESI) 2020, pubblicato a giugno dalla Commissione europea, che vede l’Italia addirittura ultima nell’indicatore relativo al capitale umano con neppure un terzo dello score massimo raggiunto (laddove Finlandia, Svezia e Estonia, ai primi tre posti del ranking parziale, superano i due terzi, e Paesi come Malta e Bulgaria hanno visto migliorare il proprio punteggio in un anno rispettivamente di 7 e 5 punti).
Certamente, il dibattito, non solo in Italia ma anche a livello internazionale, è stato fin qui molto più incentrato sulle due dimensioni dell’accesso tecnico a Internet e delle competenze digitali, molto meno su quello dell’accesso economico. Oltre ai due fattori evocati nel paragrafo precedente (sostituibilità e accessorietà del consumo), una spiegazione ulteriore potrebbe risiedere nel fatto che i prezzi delle tlc, sia fisse che mobili, contrariamente a quelli delle altre utility, sono diminuiti negli ultimi 15-20 anni, dunque diminuendo progressivamente la salienza del problema. Eppure, nel bilancio familiare delle famiglie la spesa relativa ai servizi di comunicazione non è così trascurabile. Specie se rapportata agli altri servizi residenziali, per i quali sono previste forme di agevolazione per le famiglie in stato di disagio economico[4]. Secondo l’ultima indagine ISTAT sulla spesa per i consumi delle famiglie, nel 2019 le famiglie italiane hanno speso mensilmente, in media, 59,3 euro per i servizi di comunicazione (fissa e mobile)[5], 57,8 euro per il gas, 51,2 euro per l’elettricità. Per il servizio idrico, secondo ARERA, le spese nel 2018 sono ammontate complessivamente a 306,3 euro (equivalenti a 25,5 euro al mese[6]).
Alla luce di questi dati, credo sia importante soffermarsi su due questioni.
In primo luogo, mentre per elettricità, gas e acqua sono previsti strumenti specifici permanenti rivolti ai consumatori in stato di disagio economico e sociale[7], per quanto riguarda i servizi di comunicazione non si è finora pensato a nulla di comparabile, nonostante si stia parlando di voci di costo non troppo dissimili tra loro. Naturalmente, solo una parte della spesa in servizi di comunicazione è finalizzata direttamente o indirettamente al consumo di dati[8] ma si tratta di una percentuale crescente e, secondo un parere unanime degli osservatori, assolutamente da incoraggiare.
In secondo luogo, a fronte del fatto che non tutti ritengano essenziali i servizi di comunicazione e questa percentuale salga in generale tra le fasce più disagiate della popolazione, che sono anche quelle che con minore probabilità usano Internet per esigenze di lavoro (alle quali naturalmente aggiungere le fasce di popolazione più anziana) ma purtroppo anche quelle che hanno minori competenze, in generale, e skill digitali, in particolare, occorre chiedersi se l’accesso a Internet non debba essere visto come un bene meritorio, cioè un bene che la società ritiene giusto venga prodotto (o in questo caso consumato) a prescindere dalle preferenze (unite alle diverse possibilità) individuali.
La povertà delle misure di contrasto alla povertà digitale in Italia
Nella delibera n. 258/18/CONS, recante “Condizioni economiche agevolate dei servizi soggetti agli obblighi di servizio universale”, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) prendeva atto dei rilievi espressi dagli operatori in merito a una possibile misura che rendesse disponibile agli utenti che versino in condizioni di disagio economico un’offerta per il servizio Internet a banda larga, ove tecnicamente disponibile e a condizioni di mercato, limitandosi a invitare l’operatore incaricato del servizio universale (TIM) a consentire alle suddette categorie di poter accedere “almeno a un’offerta flat per la connessione ad Internet a banda larga a condizioni di mercato”. Inoltre, la stessa AGCOM auspicava che anche altri operatori potessero formulare, “ai titolari di condizioni economiche agevolate per i servizi inclusi nel servizio universale, offerte ad hoc per il servizio di accesso a Internet a banda larga”. Al momento non sussiste dunque alcun obbligo da parte degli operatori telefonici, incluso l’esercente del servizio universale.
Nel frattempo, dopo diversi anni di dibattito, vedrà finalmente la luce il “Piano voucher”, approvato lo scorso maggio dal COBUL (Comitato per la Banda Ultralarga), che, tenendo conto dell’emergenza Covid-19, intende andare incontro alle aumentate esigenze di connettività derivanti dalla crisi. Nella sua interezza, il piano ha un valore pari a 1,146 miliardi di euro, di cui poco più della metà (607 milioni di euro) destinati alle famiglie. Se per tutte le famiglie (senza limiti ISEE), vengono previsti 200 euro per la connettività ad almeno 30 Mbps, per le famiglie con ISEE inferiore a 20.000 Euro il voucher sale a 500 euro (di cui 200 per la connettività e 300 per Tablet o PC). Per i voucher riguardanti la connettività, la pre-condizione è che si tratti di nuove attivazioni o di connessioni che implichino un salto di velocità significativo (da meno di 30 a 30-100 Mbps o da 30-100 a 100-1000 Mbps).
Il Piano voucher è certamente un passo in avanti significativo in un Paese dove, a fronte di un importante recupero del gap dell’offerta di connessioni Internet a banda larga e ultralarga, il divario della domanda con il resto d’Europa non accenna a diminuire, come dimostra il DESI 2020. Tuttavia, se paragonato agli strumenti in campo in altri settori e in un’ottica di medio-lungo periodo, rischia di risultare del tutto insufficiente.
La sua natura incrementale e una tantum non consentono infatti di definirlo come uno strumento efficace contro la povertà digitale, che, secondo una delle rare definizioni presenti in letteratura[9], caratterizza gli utenti esclusi da un effettivo consumo digitale per tre ordini di cause: restrizioni all’offerta, mancanza di competenze ICT e/o reddito insufficiente. In realtà, misure come bonus o voucher, purché continue nel tempo ed efficaci, potrebbero aggredire contemporaneamente tutti e tre i profili che possono caratterizzare una condizione di povertà digitale. Un supporto economico ai consumi consente infatti di aumentare la domanda di digitale, dunque incentivando gli operatori a proporre offerte anche nei casi in cui non lo avrebbero fatto in normali condizioni di mercato e contemporaneamente aumentando le competenze ICT degli utenti, secondo il modello cumulativo e ricorsivo di appropriazione tecnologica descritto in letteratura[10]. In base al quale, la disponibilità di un accesso di qualità elevata ad Internet influisce sull’acquisizione di competenze digitali e, unitamente a queste ultime, a processi di appropriazione tecnologica positiva che genereranno nuovi bisogni di innovazione, in un circolo virtuoso che si autoalimenta.
Beni meritori ed esternalità positive: un razionale ulteriore per uno strumento permanente di contrasto alla povertà digitale
Il dibattito sui beni meritori ha diviso la letteratura economica e in particolare la scienza delle finanze fin dall’introduzione del termine, coniato da Richard Musgrave nel 1959[11].
Immaginare infatti che ci siano beni o servizi cui la collettività attribuisca valore tale per lo sviluppo morale e sociale della collettività stessa da finanziarli, bypassando le preferenze effettivamente espresse dai soggetti beneficiari, contraddice o comunque rappresenta un’importante eccezione alla tesi della sovranità del consumatore, alla base dell’intera teoria microeconomica. Peraltro non giustificata da evidenti fallimenti del mercato, come nel caso del monopolio o dei beni pubblici. Anche perché, a seconda dell’ampiezza con la quale viene applicata, potrebbe portare a una serie di distorsioni di mercato e a un approccio paternalistico non compatibile con un modello pienamente liberaldemocratico.
Detto questo, molti sussidi ai più poveri sono motivati dall’assunzione che trasferimenti monetari universali (es. reddito di cittadinanza) non siano sufficienti a garantire livelli minimi o comunque adeguati di consumo per far fronte a bisogni fondamentali dell’individuo. Tanto più se a fare le spese di eventuali scelte subottimali di consumo potrebbero essere anche minori o altri congiunti che non ne sono responsabili. Così si spiegano strumenti pubblici di sostegno all’abitazione, al cibo e a beni di prima necessità, all’istruzione, alla sanità, alla cultura e appunto ai servizi energetici e ambientali. In alcuni casi universali, in altri riservati a nuclei familiari sotto una determinata soglia di reddito.
Gli strumenti possono essere i più disparati, da trasferimenti in natura (es. case popolari) a bonus fiscali o parafiscali fino ai voucher, che nel limitare la libertà di scelta individuale lasciano tuttavia ai cittadini-consumatori il massimo delle opzioni possibili nelle modalità di consumo di un determinato bene o servizio, sulla base delle proprie preferenze. Con l’ulteriore vantaggio di favorire, lato offerta, una fornitura concorrenziale del bene o servizio stesso, con un guadagno in termini di efficienza.
Naturalmente, tutti i sistemi pubblici di sostegno alla domanda di determinati beni o servizi hanno dei pro e dei contro. Nel caso di meccanismi come i voucher, i pericoli principali sono essenzialmente quattro: un effetto sostitutivo anziché addizionale sui consumi; una monetizzazione dei voucher con la creazione di un mercato secondario illegale; l’effetto stigma per chi ne fa richiesta e li spende nel proprio contesto sociale; un’offerta non sufficientemente concorrenziale sulla quale la maggiore domanda potrebbe produrre un aumento dei prezzi, vanificando in parte l’impatto della misura[12].
Nel caso delle connessioni a Internet e dei consumi digitali, alcuni di questi rischi non ci sono o non appaiono significativi, altri potrebbero essere mitigati con la dovuta attenzione.
Rimane naturalmente argomento importante di discussione anche il tema del finanziamento di misure permanenti (che nel caso dei bonus elettrico, gas e idrico viene risolto facendolo gravare sugli altri consumatori, senza alcun onere per la finanza pubblica).
Tuttavia, tornando in conclusione al paragone iniziale tra le varie tipologie di consumo di servizi residenziali, ci sembra doveroso, anche per aumentare il livello di cogenza del dibattito di policy, di chiarire una differenza fondamentale tra i bonus elettrico, gas e idrico, da un lato, e un meccanismo strutturale che incentivi la domanda digitale dei percettori di redditi più bassi.
Se da un lato ridurre il costo dell’energia o dell’acqua, attraverso forme di sostegno alla domanda o di efficienza energetica, genera quello che nell’economia dell’energia è noto come “effetto rimbalzo”, che risulta in un incremento del livello dei consumi e dunque nella produzione di un’esternalità ambientale negativa, il sostegno alla domanda per alleviare forme di povertà digitale crea un’esternalità ampiamente positiva, sia per gli effetti di rete che produce ma soprattutto per l’acquisizione e il consolidamento di quelle competenze digitali fondamentali per traghettare l’economia e più in generale la società verso il futuro. Un ottimo motivo per perseguire finalmente questi concomitanti obiettivi positivi in strumenti di policy strutturali, efficienti e calibrati su una visione multidimensionale dell’accesso a Internet.
[1] Anche se per il futuro è prevedibile una crescente integrazione tra fisso e mobile, specie nel traffico dati, e dunque rispetto alla questione dell’accesso a Internet le due tipologie di comunicazione dovrebbero risultare sempre più come servizi complementari più che sostituti.
[2] Secondo l’edizione 2019 dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel 2019 i cosiddetti “smart worker” – definiti come lavoratori dipendenti che godono di flessibilità e autonomia nella scelta dell’orario e del luogo di lavoro, disponendo di strumenti digitali per lavorare in mobilità – erano circa 570mila, in crescita del 20% rispetto al 2018.
[3] Secondo il modello di appropriazione tecnologica, sviluppato in S. Bentivegna e G. Boccia Artieri, Le teorie delle comunicazioni di massa e la sfida digitale, Laterza, 2019.
[4] Con la delibera 5 aprile 2018, 227/2018/R/idr, l’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente (ARERA) ha definito le modalità applicative del bonus sociale idrico per gli utenti domestici residenti in condizioni di disagio economico sociale, consentendone l’erogazione a partire dall’1 luglio 2018 e affiancandolo ai bonus elettrico e gas, istituiti rispettivamente dalle leggi n. 266/05 e 185/08.
[5] Oltre alla telefonia fissa e mobile e ai relativi apparecchi telefonici, la voce ricomprende anche le spese postali, pari a una spesa media mensile di 1,05 euro.
[6] L’indagine Istat riporta una spesa media mensile delle famiglie per la fornitura di acqua pari a 14,6 euro nel 2019, dato tuttavia sottostimato perché per molte utenze il servizio idrico è compreso nelle spese condominiali. Un problema simile potrebbe verificarsi anche per il gas naturale, rispetto agli impianti di riscaldamento centralizzato.
[7] In particolare i decreti hanno individuato quale strumento per circoscrivere la platea dei cittadini a cui consentire l’accesso al bonus l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (di seguito: ISEE), prevedendo due soglie differenziate per
2 Per i bonus elettrico e gas, per circoscrivere la platea dei beneficiari, si è utilizzato fin dall’attuazione iniziale l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE), prevedendo due soglie differenziate per numerosità della famiglia anagrafica (inizialmente ISEE non superiore a 7.500 euro, poi innalzato a 8.107,5 euro a partire dal 1 gennaio 2017 ed esteso fino a 20.000 euro per i nuclei famigliari con almeno quattro figli a carico); hanno stabilito che il bonus deve essere adeguato al numero di componenti della famiglia anagrafica e attualmente deve essere tale da garantire indicativamente una riduzione pari al 30% della spesa lorda per l’elettrico (fino al 31 dicembre 2016 era il 20% della spesa netta) e per il gas al 15% della spesa media al netto delle imposte sostenuta dall’utente tipo. Come riporta la Relazione annuale 2019 di ARERA, nel 2018 sono stati erogati rispettivamente 771.566 e 519.375 bonus elettrici e gas per situazioni di disagio economico. Da sottolineare come la percentuale sia significativamente inferiore alla metà degli aventi diritto, circostanza che ha portato molti osservatori ad auspicare un’erogazione automatica del bonus, a prescindere dalla compilazione dell’effettiva richiesta.
[8] L’indagine Istat riporta una sottovoce “servizi di fornitura accesso a Internet”, pari a una spesa mensile di 4,29 euro, che tuttavia va certamente sommata ad altri servizi in bundle che comprendono la fornitura di Internet, relativi sia alla telefonia fissa che mobile e a pacchetti integrati tra le due.
[9] R. Barrantes Cáceres, Digital poverty: concept and measurement, with an application to Peru, Kellogg Institute, WP no. 337, 2007.
[10] S. Bentivegna e G. Boccia Artieri, op.cit., Laterza, 2019
[11] R. Musgrave, The Theory of Public Finance, McGraw Hill, 1959. Il termine in inglese è merit goods.
[12] Per un approfondimento del tema, cfr. L. Beltrametti, Vouchers. Presupposti, usi e abusi, il Mulino, 2004.