La condanna per diffamazione inflitta dai tribunali nazionali a un giornalista che critica utilizzando un linguaggio provocatorio un politico è una violazione del diritto alla libertà di espressione riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo se i giudici nazionali non considerano il contesto generale del dibattito su questioni di interesse pubblico, senza necessità di richiedere una base fattuale sufficiente.
Il linguaggio provocatorio utilizzato dal giornalista rientra nel diritto alla libertà di espressione e, se impiegato verso politici che scelgono volontariamente di entrare nell’arena pubblica, deve essere tollerato e protetto nei casi in cui non costituisca un attacco personale e gratuito.
Sommario: 1.Premessa. – 2. La ricostruzione delle vicende all’origine della pronuncia di Strasburgo. – 3. I parametri per accertare la necessarietà dell’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione in una società democratica. – 4. Segue: la valutazione dell’interesse pubblico, i giudizi di valore e l’utilizzo di un linguaggio provocatorio. – 5. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
La definizione precisa dei contorni entro i quali gli Stati possono invocare una misura limitativa della libertà di stampa, fondando detta limitazione sulla necessità del provvedimento in una società democratica, si arricchisce di un nuovo intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo con riferimento, in particolare, al rapporto tra politici e giornalisti che, sempre più di frequente, sono destinatari di azioni per diffamazione e connesse condanne sul piano nazionale. Malgrado gli stessi politici debbano dimostrare una maggiore tolleranza alle critiche, è oggi possibile constatare un incremento delle azioni per diffamazione con richieste di risarcimenti spesso milionarie in grado di compromettere la libertà di stampa, al pari dei casi di violenza fisica perché, come sottolineato dall’Unesco, «misuse of defamations laws can have a chilling (not to mention silencing) effect on freedom of expression».
Con la sentenza depositata il 24 settembre, e divenuta ormai definitiva, resa nei casi Antunes Emídio e Soares Gomes da Cruz contro Portogallo (ricorsi n. 75637/13 e n. 8114/14), la Corte di Strasburgo ha ampliato l’esercizio del diritto di opinione e di critica da parte dei giornalisti – garantiti anche nei casi in cui utilizzino un linguaggio provocatorio – allorquando i destinatari degli articoli “irriverenti” siano politici che scendono volontariamente nell’“arena pubblica”. Oltre che per i profili relativi al rafforzamento della libertà di stampa dei giornalisti, che permettono di assegnare alla Corte europea un ruolo di fondamentale importanza nella tutela della libertà di stampa, oggi in controtendenza rispetto ad alcune legislazioni limitative di tale diritto, finanche in Paesi europei, situazione che ha portato a ritenere che “press freedom in Europe is more fragile now than at any time since the end of the Cold War”, la sentenza si segnala per l’individuazione di un più ampio margine di intervento della Corte europea rispetto alle valutazioni effettuate dai giudici nazionali con un richiamo preciso da parte di Strasburgo in ordine alla necessità di considerare non unicamente l’articolo, ma anche il contesto nel quale l’opinione del giornalista si sviluppa, in considerazione del fatto che la libertà di stampa è funzionale a realizzare la libertà di opinione attiva e passiva di ogni individuo. Inoltre, come vedremo, dalla pronuncia, che unisce due diversi ricorsi, affiora un differente trattamento nei casi in cui la condanna per diffamazione sia indirizzata a un giornalista e quelli in cui sia colpito un normale cittadino, con un rafforzamento del diritto ad esprimere giudizi di valore a vantaggio dei giornalisti rispetto ad altri soggetti.
- La ricostruzione delle vicende all’origine della pronuncia di Strasburgo
Il primo ricorso è stato presentato da un giornalista di un settimanale regionale portoghese che aveva pubblicato un articolo dal titolo “Only chickens were left” che conteneva aspre critiche nei confronti della classe politica portoghese e, in particolare, verso l’allora Segretario di Stato all’agricoltura, alle foreste e allo sviluppo rurale. Quest’ultimo era stato definito “…the most idiotic politician I know” e, a seguito della pubblicazione dell’articolo, l’uomo aveva denunciato il giornalista per diffamazione, ottenendo una condanna a versargli una multa di 2.500 euro e un indennizzo di 2.785 euro al politico perché i giudici nazionali avevano ritenuto che il giudizio di valore non avesse un fondamento nella condotta del politico e non contenesse una critica oggettiva, motivi in base ai quali l’affermazione era andata al di là di una critica ammissibile. Il verdetto era stato confermato anche nelle altre fasi di giudizio.
La seconda vicenda aveva al centro la pubblicazione di una lettera su un quotidiano, scritta da un medico e manager di una clinica portoghese, che accusava il sindaco di essere “dishonest” e “coward”, contestando la mancata convocazione alle riunioni per l’accreditamento delle strutture nell’ambito dei servizi comunali, situazione che aveva portato l’esclusione della sua clinica dalle strutture individuate dal Comune per la fornitura di servizi alla collettività. Anche in questo caso era arrivata la condanna, con una multa pecuniaria da versare al Comune pari a 18mila euro e un indennizzo al sindaco di 4.500 euro, malgrado i giudici di appello avessero richiamato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un segno evidente che, nonostante la maggiore consapevolezza circa gli obblighi di applicazione della Convenzione sul piano interno, permangono difficoltà sull’effettiva e corretta applicazione anche perché le norme internazionali devono essere attuate tenendo conto della giurisprudenza degli organi di garanzia internazionali, talvolta non valutata nella sua corretta portata.
- I parametri per accertare la necessarietà dell’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione in una società democratica
Anche in questa vicenda, l’aspetto controverso ha riguardato il difficile raggiungimento di un giusto equilibrio tra diritto alla libertà di espressione (in un caso di un giornalista e nell’altro di un normale individuo) e protezione della reputazione dei politici, collegata soprattutto all’analisi dei limiti imposti dalle autorità nazionali in forza della necessarietà della misura restrittiva in una società democratica. L’articolo 10 della Convenzione europea assicura a ogni persona la libertà di espressione prevedendo, però, che tale libertà, «comportando doveri e responsabilità», possa essere sottoposta «a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e dei reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario». Le ingerenze, quindi, che limitano l’esercizio del diritto possono essere considerate ammissibili in base alla Convenzione solo se previste dalla legge, se perseguono un fine legittimo, specificato nel paragrafo 2 dell’articolo 10 e se necessarie in una società democratica. Nel caso in esame, le parti convergono sul fatto che i primi due requisiti sono stati soddisfatti perché la limitazione era prevista nel codice penale portoghese e l’oggetto della tutela era la reputazione del politico nazionale in un caso, del sindaco nell’altra vicenda. La questione controversa è la necessità della misura in una società democratica, formula che si presta a problemi interpretativi e che la stessa Corte europea ha provveduto, tassello dopo tassello, a precisare. A nostro avviso, con la pronuncia che qui si commenta, relativa non all’informazione su un fatto, ma alla critica politica, la Corte ha evidenziato l’esigenza di considerare un ulteriore elemento per assicurare il diritto convenzionale, ossia che la valutazione della necessarietà della misura sia variabile in base all’elemento soggettivo e, quindi, considerando l’individuo che esercita la libertà di opinione. Questo aspetto affiora con precisione proprio nella sentenza in esame perché, nel riunire due vicende con oggetto simile ossia la critica verso politici, su questioni di interesse generale, la Corte, come vedremo, lascia maggiore libertà al giornalista rispetto a altri individui, per i quali richiede, a fondamento della critica, una base fattuale.
La pronuncia tratta, infatti, due questioni differenti: nel primo caso, come detto, l’esercizio della libertà di espressione da parte dei giornalisti che accanto a un diritto hanno anche il dovere di informare su questioni di interesse generale e, nell’altro caso, l’esercizio di detta libertà da parte di un medico e, quindi, di un normale cittadino, diverso dai giornalisti.
Ed invero, lo schema seguito dalla Corte, come vedremo, è, nel suo impianto essenziale, identico perché Strasburgo procede a valutare l’interesse pubblico dell’argomento sotteso al commento, la circostanza che si tratti di una dichiarazione di fatto o di un giudizio di valore, lo stile utilizzato, la valutazione sull’individuo che si ritiene colpito dall’articolo e la sanzione inflitta. Tuttavia, nel caso di giudizi di valore – che erano quelli rilevanti in entrambi i casi – ci sembra che la Corte proceda a imporre limiti maggiori per il privato cittadino rispetto a una più ampia libertà concessa al giornalista. Pertanto, per garantire la corretta applicazione dell’articolo 10, i giudici nazionali devono considerare il dato oggettivo ossia l’articolo/notizia e il dato soggettivo sotto un duplice profilo ossia autore dell’articolo e destinatario.
- Segue: la valutazione dell’interesse pubblico, i giudizi di valore e l’utilizzo di un linguaggio provocatorio
L’articolo al centro della sentenza Antunes Emídio e Soares Gomes da Cruz contro Portogallo affrontava questioni di interesse generale riguardando l’attività di diversi uomini politici nella gestione della collettività. Giova ricordare che sin dalla sentenza Lingens contro Austria dell’8 giugno 1986, la Corte europea ha stabilito che i politici devono avere maggiore tolleranza nel recepire critiche della stampa, finanche evitando il ricorso a misure di tutela di carattere penale, in ragione della posizione dominante da loro rivestita che, non di rado, si manifesta anche, secondo noi, con il godimento di immunità di cui gli altri soggetti non usufruiscono.
Pertanto, anche se nell’esprimere la propria opinione il giornalista aveva utilizzato un linguaggio colorito definendo il politico “idiotic”, le autorità giurisdizionali portoghesi, applicando l’articolo 10 della Convenzione come interpretato da Strasburgo, avrebbero dovuto garantire la libertà del reporter evitando un’ingerenza non giustificata. Ed invero, proprio su questo punto si può evidenziare una divergente interpretazione tra giudici nazionali, che pure hanno richiamato la giurisprudenza della Corte europea e la stessa Corte di Strasburgo. Per i primi, infatti, si era verificata una violazione della reputazione del politico, mentre per la Corte europea l’ingerenza dello Stato non era necessaria in una società democratica tenendo conto del fatto che si trattava di un giudizio di valore (per di più proprio nei confronti di un politico), come tale non suscettibile di prova, senza che l’indicato giudizio costituisse «a personal attack on R.B., but should rather be read in the context of the political situation and the article itself».
La Corte fa così un ulteriore passo avanti perché non solo distingue tra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore, tra cronaca e critica che, contenendo un giudizio di valore e non una dichiarazione di fatto, assicura una maggiore libertà al giornalista non tenuto a provare quanto affermato (su questo aspetto rinviamo al paragrafo 5), ma introduce un obbligo di valutazione, per assicurare il pieno rispetto della Convenzione, di elementi esterni rispetto al mero articolo quali il contesto della situazione politica – che diventa anche un parametro per accertare l’interesse generale a ricevere informazioni – e la stessa persona destinataria delle critiche. Se quest’ultimo aspetto costituisce una conferma di quanto affermato in passato da Strasburgo, la valutazione sulla base del contesto non solo dell’articolo, ma anche della situazione politica generale costituisce una novità che va ad allargare la libertà di stampa e le possibilità di valutazioni critiche, anche provocatorie ed esagerate, nei confronti dei politici. Inoltre, nella valutazione, la Corte non richiede un collegamento del giudizio di valore espresso con una base fattuale, lasciando ampia libertà al giornalista a differenza, come vedremo analizzando il secondo caso al centro della sentenza della Corte del 24 settembre 2019, di quanto avviene per altri individui.
Ed invero, nel rapporto stampa-politica, Strasburgo, nel corso degli anni, ha “eroso” la protezione della reputazione dei politici a vantaggio della stampa considerando diversi elementi e procedendo a individuare parametri ad hoc nel caso di coinvolgimento di politici. Prima di tutto, tra questi vi è la valutazione circa l’esistenza di un interesse pubblico e generale della notizia o del contenuto dell’articolo. È così evidente che un’analisi politica effettuata dal giornalista, che svolge una funzione di intermediazione a favore della collettività, esercitando la libertà di opinione e di trasmissione di idee, è di primaria importanza in una democrazia compiuta perché funzionale anche al libero e consapevole esercizio del diritto di voto. Se certo ciascuno è libero di formarsi con diversi mezzi la propria opinione, è anche vero che il giornalista è in grado sia di fornire informazioni sia di compiere un’analisi politica approfondita che un singolo individuo potrebbe non essere in grado di formulare. In pratica, non è solo la notizia in sé da proteggere, ma anche l’analisi politica che ovviamente contiene un giudizio di valore che non può essere oggetto di prova e, come risulta della pronuncia in esame, neanche di una base fattuale sufficiente (in modo diverso, come vedremo, dai casi che coinvolgono altri individui). È così garantita la peculiare situazione dei giornalisti che godono di una protezione rafforzata proprio perché non esprimono solo la propria opinione, esercitando la libertà di espressione, ma permettono anche l’esercizio del diritto della collettività a ricevere informazioni, espressamente garantito, nella sua forma passiva, dallo stesso articolo 10 della Convenzione.
Applicando tale principio, non solo i giudici nazionali devono procedere a una diversa valutazione del diritto alla libertà di espressione a seconda dei casi in cui si sia in presenza di una dichiarazione di fatto o di un giudizio di valore (risultato raggiunto in molti Paesi), ma anche il legislatore deve intervenire per assicurare una diversa disciplina, in linea con quanto già affermato, tra le altre, con la sentenza Ukrainian Media Group contro Ucraina (ricorso n. 72713/01) del 29 marzo 2005, nella quale la Corte ha considerato che la legge ucraina, che non conteneva una differenza di trattamento tra i casi di diffamazione relativi a giudizi di valore e quelli relativi a dichiarazioni di fatto, fosse contraria alla Convenzione. L’assenza di considerazione di questa differenza, infatti, comportava che “…the publications contained criticism of the two politicians in strong, polemical, sarcastic language” finissero per non godere di alcuna protezione. Così la Corte aveva concluso per la violazione della Convenzione precisando che “No doubt the plaintiffs were offended thereby, and may have even been shocked. However, in choosing their profession, they laid themselves open to robust criticism and scrutiny; such is the burden which must be accepted by politicians in a democratic society” (par. 67).
A questo elemento, che già assicura una maggiore tutela del giornalista che esprime giudizi su un politico su questioni di interesse generale, la Corte europea ha aggiunto un ulteriore elemento relativo all’onere della prova perché i giudici internazionali hanno rilevato che non si può chiedere al giornalista di provare le proprie opinioni, mentre si può chiedere al politico la prova del danno ricevuto dalla valutazione considerata diffamatoria. In questo senso, si può ricordare la sentenza Dyuldin e Kislov contro Russia del 31 luglio 2007 (ricorso n. 25968/02), con la quale la Corte ha rilevato che i tribunali nazionali non possono chiedere a un giornalista di provare quanto sostenuto in un giudizio di valore ritenuto offensivo, ma devono piuttosto chiedere alla parte che si ritiene diffamata di mostrare la lesione subita in connessione al giudizio di valore.
Al contempo, l’eventuale lesione va rapportata e bilanciata con la necessità di informare la collettività e con l’interesse pubblico a ricevere le informazioni che – come precisato dalla Corte nella sentenza del 24 settembre – devono godere di un “high level of protection by the domestic courts”, tenute a considerare il testo facendo riferimento al momento in cui è stato scritto (nel caso di specie nel 2011, anno della crisi del debito sovrano e della richiesta di aiuto del Governo portoghese all’Unione europea, alla Banca centrale europea e al Fondo monetario internazionale). Proprio il particolare contesto politico giustificava l’utilizzo di un linguaggio provocatorio e finanche del termine “idiotic”, che non costituiva un attacco personale perché – come detto – doveva essere letto “in the context of the political situation and the article itself”.
Chiarita l’esistenza di un interesse pubblico a ricevere informazioni su una questione di interesse generale e dell’impossibilità di richiedere una prova di un giudizio di valore, la Corte è passata ad analizzare la possibilità di giustificare un’ingerenza con riguardo al linguaggio scelto dal giornalista. Sul punto, è opportuno ricordare che nel diritto alla libertà di espressione di cui all’articolo 10 è inclusa anche la possibilità di scegliere lo stile con il quale esprimersi. Tale facoltà ha ampia portata in particolare a vantaggio del giornalista che beneficia di una maggiore libertà proprio in ragione della sua attività che consiste anche nel richiamare l’attenzione della collettività (che giustifica l’impiego di uno stile incisivo), per di più in tempi rapidi, su questioni di interesse generale. Proprio la sentenza Antunes Emídio e Soares Gomes da Cruz contro Portogallo del 24 settembre 2019 evidenzia questa scelta della Corte e permette di comparare due diverse situazioni. Con riferimento ai giornalisti, la Corte ha precisato che non spetta né ai giudici nazionali né ad essa stessa sostituirsi alle scelte stilistiche del giornalista che devono richiamare l’attenzione del pubblico anche ricorrendo a un certo grado di provocazione. Già in precedenza, con la sentenza Lopes Gomes da Silva contro Portogallo, ricorso n. 37698/97, depositata il 28 settembre 2000, la Corte aveva ritenuto contraria alla Convenzione la condanna del giornalista il quale aveva definito “zotico” e “grossolano” un politico. Anche in quell’occasione, poiché non si trattava di un attacco personale, la sanzione nei confronti del giornalista non era giustificata in base alla Convenzione. Così, con la sentenza Oberschlick contro Austria (n. 2) del 1° luglio 1997 (ricorso n. 20834/92), era stata esclusa la diffamazione verso un politico di destra austriaco definito in un articolo “un idiota” proprio perché il destinatario era un politico e il giornalista aveva diritto ad usare un linguaggio provocatorio; nella sentenza del 13 novembre 2003, nel caso Scharsach and New Verlagsgesellschaft mbH contro Austria (ricorso n. 39394/98), la Corte aveva accertato la violazione del diritto alla libertà di espressione di un giornalista condannato dai tribunali interni per diffamazione per aver usato l’espressione “closet Nazi” nei confronti di un politico. A ciò si aggiunga che, come chiarito nella sentenza Riolo contro Italia del 17 luglio 2008 (ricorso n. 42211/07), le autorità nazionali non possono estrapolare la singola frase dall’articolo, ma devono procedere a una valutazione globale. Nella sentenza, infatti, la Corte, malgrado il giornalista avesse definito un politico “goffo emulo locale”, ha ritenuto che «la libertà giornalistica può comprendere il possibile ricorso ad una certa dose di provocazione».
Questo ha poi portato la Corte di Strasburgo a concludere, nella sentenza dell’8 ottobre 2009 nel caso Brunet-Lecomte e Tanant contro Francia (ricorso n. 12662/06), che «la marge d’appréciation dont disposaient les autorités pour juger de la ‘nécessité’ de la mesure litigieuse était particulièrement restreinte» nei casi in cui il destinatario della frase fosse un politico. Come osservato dalla Commissione Venezia del Consiglio d’Europa, nel parere n. 715/203 del 9 dicembre 2013 sulla legislazione italiana in materia di diffamazione, «Public authorities must respect the right of journalists to disseminate information on questions of general interest, including through recourse to a degree of exaggeration or provocation provided that the act in accordance with responsible journalism».
Il grado di esagerazione e provocazione concesso al giornalista, inoltre, è rapportato al soggetto al quale le affermazioni sono rivolte, con un ampiamento del livello nei casi in cui il destinatario sia un politico che sceglie liberamente di apparire nell’“arena pubblica” e che è consapevole di essere sotto i riflettori e di avere obblighi maggiori di trasparenza rispetto ai privati e ad altri personaggi pubblici. Di conseguenza, da un lato il politico deve dimostrare una maggiore tolleranza (anche, ad esempio, nel caso della satira che per sua natura è funzionale a provocare) e, dall’altro lato, l’ingerenza dello Stato, seppure per i motivi specificati nel secondo comma dell’articolo 10, è sensibilmente ridotta proprio perché – come precisato dalla Corte – il margine di apprezzamento è particolarmente ristretto.
Su questa posizione sono assestati anche gli organi di garanzia di altri sistemi regionali a tutela dei diritti umani che hanno richiamato proprio la giurisprudenza della Corte europea.
Ad esempio, la Corte africana sui diritti dell’uomo e dei popoli con la sentenza del 5 dicembre 2014, Lohé Issa Konaté contro Burkina Faso (ricorso n. 004/2013), richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sui limiti all’ingerenza degli Stati in materia di libertà di espressione esercitata da un giornalista, ha stabilito che è necessario considerare le funzioni della persona la cui reputazione deve essere protetta evidenziando «..that its assessment of the need for the limitation must necessarily vary depending on whether the person is a public figure or not» e che «…freedom of expression in a democratic society must be the subject of a lesser degree of interference when it occurs in the context of public debate relating to public figures». Nello stesso senso anche la Commissione e la Corte interamericana dei diritti dell’uomo che, sin dalla pronuncia Herrera-Ulloa contro Costa Rica (n. 107), del 2 luglio 2004, hanno sottolineato che gli uomini pubblici e i politici devono essere pronti a ricevere critiche più aspre rispetto a quelle rivolte a privati e devono avere una soglia di tolleranza più alta rispetto ai privati perché «they have voluntarily exposed themselves to a stricter scrutiny and because they have an enormous capacity to call information into question through its convening power».
In modo analogo si è espresso il Comitato Onu dei diritti dell’uomo, nelle constatazioni rese il 31 ottobre 2005, nel caso Bodrožić contro Serbia e Montenegro, rilevando che lo Stato in causa aveva violato l’art. 19 del Patto, che assicura la libertà di espressione, condannando un giornalista il quale aveva pubblicato un articolo critico nei confronti di un uomo politico accusandolo di aver dato supporto a Slobodan Milošević, perché «in circumstances of public debate in a democratic society, especially in the media, concerning figures in the political domain, the value placed by the Covenant upon uninhibited expression is particularly high».
Accanto a quanto affermato dagli organi internazionali di garanzia, è rilevante anche che i giudici interni, seppure tra alti e bassi, procedano a considerare e attuare quanto stabilito dalla Corte europea nei casi di critiche espresse dai giornalisti verso politici. A titolo di esempio, per limitarci all’Italia, si consideri la sentenza n. 19694 della Corte di Cassazione, V sezione penale, depositata l’8 maggio 2019, con la quale la Suprema Corte ha annullato la pronuncia dei giudici di merito i quali avevano condannato per diffamazione un giornalista che aveva espresso una critica politica molto dura nei confronti di un ex sindaco. La Cassazione ha ribaltato il verdetto della Corte di appello di Trieste sottolineando che «il rispetto della verità del fatto assume rilievo limitato, necessariamente affievolito rispetto alla diversa incidenza sul versante del diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica». La Suprema Corte, richiamando la giurisprudenza di Strasburgo con riguardo ai giudizi di valore ha sottolineato la possibilità per il giornalista di ricorrere a toni forti e sferzanti nell’ambito della polemica politica, evidenziando che perché si configuri un’offesa alla reputazione «non è sufficiente l’astratta idoneità delle parole a offendere, ma è necessario che esse siano a ciò destinate, in quanto adoperate appunto nel loro significato offensivo».
- Osservazioni conclusive
Alla luce dell’analisi svolta, si può ritenere che la sentenza Antunes Emídio e Soares Gomes da Cruz contro Portogallo contribuisca a chiarire la corretta interpretazione dell’articolo 10 della Convenzione europea con specifico riferimento ai giornalisti, permettendo di tracciare una sempre più chiara linea di demarcazione tra tutela della libertà esercitata dai giornalisti o da altri soggetti. La Corte, infatti, ha sottolineato che nella valutazione dell’ingerenza nella libertà di stampa, accanto all’interesse pubblico dell’articolo e della libertà offerta nei giudizi di valore, deve essere considerato l’articolo nel contesto generale della situazione politica, permettendo così una maggiore libertà al giornalista e una minore possibilità di ingerenza delle autorità nazionali. Tuttavia, l’aspetto più interessante è costituito dalla circostanza che, nello scegliere di riunire due ricorsi e pronunciare un’unica sentenza, la Corte europea ha permesso di cogliere con maggiore evidenza le differenze tra libertà di espressione dei giornalisti e quella di altri individui. Per i primi, infatti, con particolare riguardo ai giudizi di valore, la Corte non fa riferimento alla necessità di una base fattuale con riguardo ai giudizi espressi, anche attraverso un linguaggio provocatorio, mentre nel caso del medico che aveva criticato un politico, pur ribandendo l’ampia libertà in un giudizio di valore che non si presta, per sua natura, all’esistenza di una prova, la Corte ha richiesto l’esistenza di una base fattuale che mostri una “sufficiently close connection” con l’opinione espressa. Ed invero, mettendo a confronto i due casi e le affermazioni della Corte nella stessa sentenza del 24 settembre, nel ricorso del medico, i giudici internazionali hanno effettuato un controllo sulla “factual basis” al fine di verificarne la sufficienza rispetto all’opinione espressa, precisando che la proporzionalità dell’ingerenza può dipendere dall’esistenza di una base fattuale collegata alla dichiarazione contestata e che, in assenza di tale base, il “value judgment may prove excessive”. Nel caso in esame, la Corte conclude che le espressioni utilizzate dal medico “had a sufficiently close connection with J.C.’s conduct”.
Per la vicenda del giornalista, invece, la base fattuale non è stata richiesta, a differenza, ad esempio, della sentenza I Avgi Publishing e Karis contro Grecia nella quale i giudici internazionali avevano sottolineato che «…l’expression litigieuse n’était pas dépourvue de base factuelle», e l’analisi è stata collegata al contesto generale e non solo a quello espositivo. In questo modo, la Corte fornisce un’ampia tutela del giornalista non solo nella sua attività di diffusione di informazioni di interesse generale, ma anche nella sua funzione di trasmissione di idee e di opinioni che, se frenata, avrebbe un effetto dissuasivo sulla libertà di stampa, ma anche, più in generale, sulla democrazia.
Pertanto, ci sembra che si delinei, pur nel generale limitato spazio alle ingerenze concesse allo Stato, un’ulteriore differenza perché i giornalisti non devono dimostrare l’esistenza di una base fattuale nei giudizi di valore, potendo utilizzare un linguaggio provocatorio – che serve anche a esprimere un giudizio valutativo – che va considerato non solo con riguardo all’articolo, ma anche al contesto politico generale (richiedendo, però, che non vi siano gratuiti attacchi personali verso il politico), mentre gli altri individui sono tenuti a provare l’esistenza di una base fattuale sufficiente. Con ciò, a nostro avviso, si verifica un più forte limite all’ingerenza ammissibile in base alla Convenzione, naturalmente con riferimento a questioni di interesse generale e non a dichiarazioni che hanno l’unico obiettivo di offendere o denigrare. La Corte, inoltre, conferma che l’utilizzo di un’espressione provocatoria o esagerata non può essere considerato centrale tanto più che lo stile è parte della comunicazione e deve essere protetto in modo analogo al contenuto dell’articolo.
Va sottolineato, altresì, che, in entrambi i ricorsi, la Corte, ritenendo il bilanciamento effettuato dai giudici nazionali non conforme ai criteri di Strasburgo, ha ritenuto che vi fossero «strong reasons to substitute the Court’s view for that of the domestic courts», “condannando” così lo Stato in causa per violazione dell’articolo 10 e a versare, per i danni patrimoniali subiti dai ricorrenti, oltre 5.000 euro nel primo caso e 22.500 euro nel secondo.