Ad una prima lettura della sentenza emergono sicuramente delle criticità nell’approccio adottato dai giudici al delicato tema della responsibilità degli ISP, correlate più alla nitida definizione dei profili informatici che all’analisi di quelli giuridici correlati.
In generale però la pronuncia segna una maggior conoscenza del tema ed in parte si allontana dal precedente dell’ordinanza del Tribunale di Roma sul caso RTI/YouTube, oggetto di diverse critiche.
Tre i profili che denotano un salto di qualità.
In primo luogo si riconosce l’importanza della categoria dell’ “esigibilità” con riguardo ai controlli posti in essere dall’ISP. In particolare i giudici riconoscono l’impossibilità per il prestatore di servizi “di poter procedere ad una verifica preventiva del materiale immesso quotidianamente dagli utenti, non potendosi ritenere tale verifica quale comportamento effettivamente esigibile per la (attuale) complessità tecnica che un controllo del genere richiederebbe anche in relazione ai possibili conflitti di forme di controllo automatico – che sembrano le sole apparentemente attuabili a fronte della mole di materiale da esaminare – con forme di libera manifestazione del pensiero o di utilizzazione di contenuti protetti dal diritto d’autore per i quali possa fondatamente richiamarsi una delle ipotesi di utilizzazione libera”.
In secondo luogo si sottolinea giustamente come rispetto agli eventuali controlli generalizzati esigibili quelli automatizzati mediante software “sembrano le sole [forme di controllo]apparentemente attuabili a fronte della mole di materiale da esaminare”. Sul punto si poteva essere più netti senza eccedere nella forma dubitativa.
Altra cosa sono invece i controlli a seguito di segnalazione dell’illecito.
In terzo luogo, proprio con riguardo alle segnalazioni di illeciti, la pronuncia attribuisce correttamente rilievo all’inerzia dell’intermediario che non si attivi a seguito della segnalazione. Escluso infatti il monitoraggio attivo, ai sensi dell’art. 17 d. lgs. 70/2003, sull’intermediario incombe l’onere di agire prontamente qualora venga a conoscenza di illeciti, collaborando con le autorità giudiziarie ed amministrative nell’individuazione dei responsabili e nell’inibizione di tali attività (nel caso di specie v’era stata una diffida).
A tal riguardo occorre definire correttamente quale sia il livello di conoscenza dell’illecito oltre cui l’intermediario debba attivarsi. In proposito non pare sufficiente la generica indicazione dell’opera creativa protetta per pretenderne la rimozione totale dei contenuti presenti in qualsiasi forma su una piattaforma UGC. Sulla base di tale indicazione è però esigibile uno screening automatizzato che muova dai meta-dati testuali presenti sulla piattaforma, così come è possibile altresì una diversa analisi automatizzata mediante software volta ad individuare i contenuti ripresi da trasmissioni televisive in cui compaia il logo dell’emittente o di un dato programma (prendendo in esame il fermo immagine del filmato, il software dovrebbe individuare automaticamente l’area del logo e quindi confrontare quest’ultimo con il modello standard).
Sulla base di queste considerazioni risulta condivisibile l’osservazione della corte secondo cui: “va peraltro rilevato che la mancata specifica individuazione dei filmati contestati non risultava elemento atto ad impedire alla convenuta ogni (dovuta) attività di verifica e controllo, tenuto conto che essa avrebbe potuto agevolmente essere svolta proprio utilizzando gli stessi strumenti informatici posti a disposizione dei visitatori della Sezione Video per la ricerca di contenuti tramite le parole-chiave riproducenti i titoli delle menzionate trasmissioni. I risultati sarebbero stati verosimilmente gli stessi di quelli proposti dall’attrice con la sua consulenza tecnica – che non ha comportato l’esame analitico di tutto il materiale video”. Ma questo non significa in ogni caso l’importazione del notice and take down. È bene infatti ricordare che questo modello statunitense di reazione agli illeciti non è stato fatto proprio dal legislatore italiano che, ai sensi dell’art. 17, c. 3, d. lgs. 70/2003, prevede solamente un onere di attivazione dell’ISP, posto che “il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi […] se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l’accesso, non ha provveduto ad informarne l’autorità competente”.
Su questi aspetti, in ragione dell’encomia del presente contributo, sia consentito rinviare alle considerazioni più analitiche espresse altrove: cfr. Mantelero, La responsabilità degli intermediari di rete nella giurisprudenza italiana alla luce del modello statunitense e di quello comunitario, in Contratto e Impresa Europa, 2010, pp. 529-547; Id., La responsabilità on-line: il controllo nella prospettiva dell’impresa, in Dir. informaz. informatica, 2010, pp. 405-421, Atti incontro di studi Il futuro della responsabilità sulla Rete (Roma, 21 maggio 2010).
Almeno per quanto riguarda i contenuti generati dagli utenti, permangono invece notevoli perplessità nel vedere riaffiorare (v. già il caso Google/Vivi Down) la discutibile categoria dell’ “host attivo”, ignota tanto al legislatore comunitario quanto a quello nazionale. Analogamente non sembra condivisibile la conclusione secondo cui dalla messa a disposizione di un servizio di segnalazione degli abusi e dal fatto che l’ISP si sia riservato di rimuovere eventuali contenuti illeciti possa farsi derivare la volontaria assunzione di un onere di controllo ed un impegno alla verifica dei contenuti a seguito di segnalazione, semmai quest’ultimo impegno deriva proprio dalle norme sopra richiamate ed opera nei limiti posti dalle stesse.
3 Comments
Ciao Alessandro,
splendido articolo (l’avevo inizialmente bucato, perché ero in vacanza quando è stato pubblicato). Mi sembra molto corretto il rilievo sull’hosting attivo, categoria inesistente e, francamente, fuorviante, perché rimette una discrezionalità a mio avviso eccessiva nelle mani del giudice e, soprattutto, perché rischia di minare i principi fissati dalla direttiva sul commercio elettronico.
Quanto alle “notifiche”, la legge italiana non le prevede e presuppone l’ordine di un’autorità giudiziaria. Purtroppo, il requisito della conoscenza effettiva – su cui, forse lo ricorderai, avevo scritto ampiamente nel mio libro del 2002 – è una categoria inesistente nel nostro ordinamento ed è molto pericoloso che i giudici si sentano liberi di interpretare le disposizioni del d.lgs. 70/03 in maniera così libera (ne parlo in un commento che sarà pubblicato sul prossimo numero di Danno e responsabilità).
Io credo che il compito della dottrina, in questo settore e in questo particolare momento, sia quello di guidare la giurisprudenza. Giurisrpudenza che, onestamente, dovrebbe evitare i sensazionalismi e la ricerca forzata dell’attenzione mediatica e restare un po’ di più sul “pezzo”.
Un abbraccio
G.
Proprio questa funzione di guida è il punto critico. Come tu ricordi, richiamando il tuo notevole lavoro del 2002, è almeno una decina di anni che la dottrina riflette su questi temi e non sono mancate le osservazioni puntuali alle interpretazioni giurisprudenziali più (diciamo) “sensazionalistiche”. Guardando alla giurisprudenza ed al suo difficoltoso progredire, viene però da interrogarsi sul fatto che le corti siano davvero intenzionate, se non a farsi guidare, almeno a prestare attenzione ai rilievi mossi.
A.
Mi pace questo conflitto tra la dottrina “degli” avvocati e la giurisprudenza.
Finalmente anche gli avvocati possono tirar le orecchie al giudice… 😀
Bravi.