Più una società è democratica, nella sua cultura sostanziale oltre che nelle proprie leggi formali, più ampi sono i confini della libertà di espressione. Ciò vale soprattutto per il diritto di critica. Questo, a differenza del diritto di cronaca (che si concreta in una narrazione di fatti), consiste infatti nell’espressione di una giudizio o di una opinione che, in quanto tale, non può essere rigorosamente obiettiva.
Partendo da questo presupposto, la giurisprudenza nel tempo si è sforzata di trovare dei principi che soccorressero gli interpreti della legge a discernere i casi in cui le parole di un individuo sono lecite, anche se aspre o insultanti, oppure trascendono nell’ingiustificata lesione della reputazione altrui. I casi di scuola si sono verificati in ambito di contese politiche o sindacali, come fisiologico; la contrapposizione di diverse visioni della società in cui viviamo, accompagnata dall’importanza della posta in gioco, ha dato origine a numerosi contenziosi giudiziari (basterebbe ricordare quello che oppose De Gasperi e Guareschi e che portò quest’ultimo in carcere) che hanno aiutato la scienza giuridica a plasmare i confini della libertà di espressione.
Soprattutto nell’ultimo ventennio si sono però moltiplicati i campi ove si contrappongono rilevanti interessi in gioco e diverse vedute dei settori della società in cui questi si collocano. L’avvento dell’era multimediale ha indubbiamente agevolato questo percorso dato che oggi chiunque può esprimere una propria opinione su un social network condividendola con molte persone. Nel mondo dello sport, ad esempio, convivono oggi diversi e parimenti rilevanti diritti che non di rado vengono a scontrarsi originando agoni giudiziari particolarmente aggressivi ed eclatanti. Di qui la necessità, da parte degli interpreti, di individuare un discrimine che argini il “doping legale” (definizione efficace del presidente del CONI Petrucci); per quanto concerne, in particolare, il diritto di critica in ambito sportivo, sono rari i precedenti giurisprudenziali sinora formatisi nel nostro ordinamento ma tutti convergenti del ritenere applicabili i principi che delineano la libertà di espressione nell’ambito delle contese “tradizionali”. In particolare, una sentenza della Corte di Cassazione di più di dieci anni fa (sez. V penale n. 11664 del 9 ottobre 1995) ben spiega come possa essere aspramente criticato il conduttore di un programma sportivo di rilevanza nazionale ( il mitico “90 minuto”) perché non “può negarsi l’interesse pubblico ad apprezzamenti critici sulla conduzione di una trasmissioni televisiva ad alto indice di ascolto”. Nello specifico, la critica era veramente aspra dato che il conduttore della trasmissione era stato definito “più che un giornalista, un questore di Montecitorio, preoccupato di non scontentare alcun membro della commissione parlamentare di vigilanza…ottusamente aggrappato al gobbo…macchinetta che serve ad imbrogliare i telespettatori facendo loro credere che il conduttore non stia leggendo…in fondo non c’è da scervellarsi per fare un programma di calcio confuso, approssimato, lento, zeppo di errori tecnici, di inesattezze e ridicole pubblicità…d’altronde chi glielo fa fare di lavorare? Alla Rai, si sa, troppe idee finiscono per essere considerate un difetto”.
Secondo la Cassazione, tale critica è scriminata “dall’interesse sociale all’esercizio del diritto di critica essendo le notizie sportive seguite da un pubblico assai vasto” nonché dai connotati della medesima, “tradotta da una doviziosa serie di aggettivi legali per asindeto (programma confuso, approssimato, lento, zeppo di errori…)” dai quali emerge “chiaramente il nucleo ed il profilo essenziale della censura”. Non date quindi del cornuto all’arbitro se non riuscite a contestualizzare la vostra affermazione…