Suggest-ioni e inserzioni: a proposito di due recenti sentenze francesi

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Il caso Google Suggest

Dimenticati pandori e panettoni, due recenti sentenze francesi mantengono vivo il dibattito sulla responsabilità degli intermediari di internet.

La prima è della Corte d’Appello di Parigi del 14 dicembre 2011.
A partire dal settembre 2008, Google offre, anche in Francia, una funzionalità denominata “Google Suggest”, che consente agli utenti, che utilizzano il servizio, di comporre le prime lettere di una parola e visualizzare una elenco di possibili suggerimenti che possano completare la loro ricerca.
Nel caso di specie l’attore è la Società Lyonnaise de Garantie. Cercando il nome della società sul motore di ricerca Google, il servizio suggest proponeva l’abbinamento con la parola “truffatori”.
La società attrice chiedeva che fosse rimossa l’associazione col termine “truffatori” sulle pagina Google in Francia, Belgio, Regno Unito, Spagna, Italia e Canada, con una penale giornaliera pari a 5.000 euro per ogni giorno di ritardo. Chiedeva inoltre la condanna della società Google Inc., in solido col Sig. Eric C. (in qualità di direttore della pubblicazione), al risarcimento dei danni subiti e la pubblicazione della sentenza sulla home page di Google e su alcuni quotidiani nazionali francesi.
I convenuti eccepivano il funzionamento tecnico del sistema, che escluderebbe il dolo nella selezione dei termini da accostare alle parole ricercate, nonché l’inapplicabilità della legge francese ad una società stabilita negli Stati Uniti.
Nel merito, i giudici parigini sono dell’avviso che la legge applicabile sia quella francese, atteso che gli effetti dall’azione dannosa si sono prodotti in Francia.
La Corte ha ritenuto che non possa essere invocato l’art. 10 della Convenzione europea, in materia di libertà di manifestazione del pensiero, dal momento che i commenti nei quali erano mosse accuse alla società attrice erano per lo più anonimi.
Per i giudici parigini, inoltre, non sarebbe possibile appellarsi alla natura automatica del servizio. Il motore di ricerca, osserva la sentenza, può limitare l’accesso a pornografia e comunicazioni razziali: per questo motivo, quindi, è in grado di intervenire anche nei confronti delle associazioni di parole che risultino diffamatorie o ingiuriose.
Google – si legge nella sentenza – avrebbe potuto inserire anche il termine “truffatore” tra quelli, che potrebbero essere offensivi per un gran numero di soggetti, esclusi dalle ricerche: il motore di ricerca, del resto, aveva già operato una simile soluzione a seguito di una precedente decisione del dicembre 2009. È evidente, conclude la decisione, che sia possibile un intervento umano e che, quindi, possa essere dichiarata una responsabilità della società e del soggetto legale rappresentante della stessa.

Il caso Shopping

La seconda decisione, del Tribunal de Grande Instance di Parigi, è del 15 dicembre 2011 e vede contrapposti il sito Shopping, di proprietà di eBay, e la società Weston.
La società Shopping Epinions International gestisce il sito www.shopping.com, che consente agli utenti di effettuare delle comparazioni tra i prezzi di prodotti concorrenti o succedanei e di visitare le inserzioni pubblicate da altri utenti.
Nel novembre 2009 la società J.M. Weston appurava, per mezzo di un consulente tecnico di ufficio, che sul sito internet della Shopping, scrivendo la parola “weston” nella stringa di ricerca, appariva l’immagine di un mocassino di pelle per uomo. Cliccando sull’immagine di tale mocassino, si era reindirizzati verso un’inserzione, nella quale si proponeva l’acquisto di un paio di scarpe Ypson Paris, affermando “Se ami le Weston, queste sono per te”.
La Weston citava allora in giudizio la Shopping e la Pinto’s per l’utilizzo illecito del proprio marchio e per concorrenza sleale.
A giudizio del Tribunale parigino, la Shopping non può godere delle limitazioni di responsabilità previste dalla direttiva sul commercio elettronico – e dalla legge francese di recepimento – per i prestatori intermediari, dovendo, al contrario, essere considerato un editore.
Difatti, i gestori del sito manterrebbero comunque, da un punto di vista tecnico, un potere di verifica sugli annunci che figurano nel sito: il contenuto degli annunci degli utenti di Shopping, prima di essere pubblicati, potrebbe essere oggetto di un controllo preventivo. Inoltre, la società Shopping, nelle condizioni generali di contratto, si sarebbe riservata il diritto di selezionare, adattare e/o modificare i contenuti pubblicati sul sito, anche da parte degli utenti stessi.
Per tali ragioni, dunque, alla società dovrebbero essere applicate le regole di responsabilità ordinaria (e, nel caso di specie quelle relative alla responsabilità editoriale) e non quelle previste per gli altri prestatori intermediari di internet.
I giudici, in applicazione dei principi fissati dalla decisione del 23 marzo 2010 della Corte di Giustizia, rigettano, invece, l’accusa di contraffazione, dal momento che il marchio Weston non sarebbe utilizzato nell’ambito della comunicazione pubblicitaria o commerciale del sito stesso. La contraffazione, seppur limitatamente a questo aspetto, sussisterebbe però per l’utilizzazione del marchio in questione nelle parole chiave e nei metatag utilizzati dal sito Shopping per promuovere le proprie attività sui motori di ricerca Google e Yahoo.

Brevi osservazioni

Entrambe le sentenze non mi convincono appieno.
In merito al servizio di Google ho già scritto altrove, in occasione della sentenza di primo grado.
A mio avviso, non può trattarsi di diffamazione, per almeno due ragioni.
Accostare un termine ad un soggetto, senza che vi sia una frase di senso compiuto, non può essere diffamatorio. Immaginiamo che Pinco Pallino, personaggio pubblico, sia inquisito per violenza sessuale. Successivamente, il Sig. Pallino viene assolto. Tuttavia, molte persone, volendo conoscerne la storia, inseriscono, nelle stringhe del motore di ricerca, anche le parole “violenza sessuale”.
In cosa consisterebbe la diffamazione? Non vale in questo caso l’exceptio veritatis? Non è forse vero, infatti, che il Sig. Pallino è stato inquisito per violenza sessuale e dopo assolto? Altro discorso sarebbe se si discorresse di diritto all’oblio, ma qui in discussione v’è una presunta diffamazione.
Altro dubbio. Suggest è una funzione utile, questo mi sembra innegabile. Eppure, negli ultimi mesi – a seguito delle condanne in Francia, Italia e in altri Paesi – gli uffici di Google sono stati quotidianamente sommersi da richieste finalizzate a rimuovere associazioni di parole ritenute diffamatorie.
Se l’orientamento delle Corti resterà immutato, mi sembra piuttosto probabile che Google possa ragionare sulla possibilità di rinunciare al servizio suggest. L’analisi economica (così come il buon senso) insegna che se un’attività non porta utili, ma determina, seppure indirettamente, dei costi, allora è meglio rinunciarvi. Siamo sicuri che, per l’architettura della rete internet, sia un bene rinunciare al servizio in questione? A voi la risposta.
Anche la soluzione del caso Shopping mi lascia non poco perplesso.
Tutte le società che gestiscono siti internet all’interno dei quali è possibile per gli utenti pubblicare dei contenuti inseriscono una clausola, all’interno delle condizioni generali di contratto, nella quale si avvalgono della possibilità di rimuovere o di modificare i contenuti stessi.
Si tratta di una scelta, per certi versi, necessaria. Difatti, se il titolare di un diritto (di proprietà intellettuale o di altra natura, si pensi ancora alla diffamazione) chiede al gestore del sito (rectius: piattaforma) di rimuovere un contenuto, quest’ultimo – secondo parte della giurisprudenza straniera – sarebbe tenuto a farlo, essendo a conoscenza dell’illiceità del contenuto stesso. In Italia, per fortuna, la soluzione è differente, com’è a tutti noto (soprattutto a quelli che da anni – e da ultimo col disegno di legge Cementero-Versace – si battono per cambiare la legge).
Ora, qualora il gestore rimuova il contenuto e questo contenuto si riveli successivamente essere lecito, è presumibile che l’utente – che si è visto privato della possibilità di diffondere il contenuto – citi il gestore per violazione degli obblighi contrattualmente assunti con l’adesione al servizio.
Non comprendere questo aspetto e ritenere che la possibilità di intervenire sui contenuti degli utenti equipari il prestatore intermediario ad un editore significa travisare del tutto i ruoli dei soggetti che operano su internet e fare un passo indietro di dieci anni.
In definitiva, un 2011 che si chiude con più di un’ombra sui giudici francesi. Speriamo che il 2012 possa riportare di nuovo il sereno.

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