Il Canada lascia, l’Europa raddoppia. Per una curiosa coincidenza, nelle stesse ore in cui la Commissione Europea formalizzava a Google i propri addebiti relativi al sistema operativo Android, che si affiancano a quelli già enunciati nel 2015 a proposito del servizio di ricerca, il Canadian Competition Bureau decideva di archiviare l’istruttoria aperta contro l’azienda californiana. Il provvedimento del regolatore canadese segue quelli dello stesso tenore annunciati, negli anni scorsi, dagli omologhi americani e sudcoreani. Pare lecito, dunque, interrogarsi sulla fondatezza del diverso orientamento manifestato dalle istituzioni comunitarie.
La Commissione imputa a Google l’abuso di una posizione dominante nel settore dei sistemi operativi mobili. Come noto, i quattro quinti degli smartphone venduti nel mondo girano su Android. Che Google goda di un sostanziale monopolio nel mercato dei terminali mobili – come talora si ripete pigramente – è, di per sé, una conclusione opinabile: in primo luogo, perché quantificare le quote di mercato in termini di unità vendute anziché di ricavi generati restituisce un’immagine piuttosto fuorviante dello scenario competitivo; in secondo luogo, per le implicazioni del peculiare modello di business perseguito dall’azienda californiana.
Il mestiere di Google non è quello di produrre e vendere telefonini: il suo contributo al settore consiste nella messa a punto e nel costante aggiornamento del sistema operativo Android – tralasciamo l’eccezione della linea Nexus, peraltro assemblata da produttori indipendenti, che Google commercializza a mo’ di vetrina delle potenzialità di un dispositivo Android in purezza. Dico “in purezza” perché, più che un sistema operativo, Android è una galassia di sistemi operativi. Non solo il software è diffuso in formato open source, a disposizione di chiunque desideri manipolarlo, modificarlo o sezionarlo per crearne versioni non ufficiali (è, per esempio, la strada scelta da Amazon per il Kindle Fire), ma anche le versioni – per così dire – ufficiali, pur conformandosi a una serie di linee guida volte ad assicurare il pieno supporto di tutte le applicazioni progettate per Android, possono essere ampiamente personalizzate.
Difficile scorgere in queste modalità di utilizzo di Android il potenziale per abusi – tanto che neppure i solerti funzionari della Direzione generale per la concorrenza vi hanno dedicato particolare attenzione. I produttori di dispositivi, tuttavia, possono anche scegliere di equipaggiare i propri smartphone di una suite di applicazioni prodotte da Google, proponendo ai consumatori una specie d’interpretazione autentica di Android. È su questi accordi che l’indagine della Commissione si sofferma.
Per reiterare: si parla di una libera scelta dei produttori, che hanno la facoltà di utilizzare il sistema operativo gratuitamente e liberamente, senza includervi applicazioni come il Play Store e l’app della ricerca Google. Se, però, desiderano precaricare anche una sola app, Google richiede l’installazione del pacchetto completo. Il ragionamento economico sottostante è intuitivo. Se la strategia commerciale di Google si regge sulla (monetizzazione della) ricerca e sull’intermediazione della vendita di contenuti e applicazioni, consentire ai produttori di operare una cernita minerebbe la sostenibilità del sistema. Quello stesso sistema, del resto, assorbe i costi legati allo sviluppo dei prodotti che Google offre senza un ritorno immediato – tra questi, appunto, il sistema operativo Android.
Basta il vincolo fin qui descritto a determinare il preteso effetto anticoncorrenziale? È importante notare che gli accordi non prevedono diritti d’esclusiva: nulla vieta ai produttori di dispositivi di caricare applicazioni (proprie o di terze parti) che svolgano le medesime funzioni – ed è quello che tipicamente avviene. Ancora più importante, e totalmente trascurato dall’analisi della Commissione, è il ruolo del vero protagonista della vicenda: il consumatore. L’assetto preordinato dai produttori è destinato a durare solo fino all’apertura della scatola. A partire da quel momento, la facoltà di rimuovere applicazioni sgradite, installarne di nuove o modificare le impostazioni originarie è pressoché illimitata. Al contempo, la possibilità di contare su una configurazione di partenza riconoscibile riduce i costi di apprendimento e migliora l’esperienza di utilizzo.
Sin dall’inizio del proprio mandato, il commissario Vestager ha fatto di Google un bersaglio privilegiato, giungendo al punto di capovolgere le determinazioni del proprio predecessore Almunia e riaprire un caso che poteva sembrare ormai chiuso. I simboli hanno cittadinanza in politica – e la politica della concorrenza non fa eccezione. Proprio per la visibilità del caso, però, una decisione frettolosa avrebbe un impatto profondamente deleterio tanto sulla tutela della competizione in Europa, quanto sullo sviluppo di quel mercato digitale che Bruxelles spergiura di voler coltivare. L’analisi delle decisioni adottate da altri regolatori in casi simili potrebbe fornire utili spunti agli uffici della Commissione.
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