[i]. 1. Il primo luglio scorso si è tenuto presso l’Università di Exeter un workshop intitolato “Public Service Broadcasting in Europe in the Digital Age”. Oggetto principale del seminario è stata la Comunicazione della Commissione, relativa all’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato al servizio pubblico di emittenza radiotelevisiva, adottata nel 2009[ii].
Con tale atto la Commissione europea ha aggiornato il precedente orientamento in materia (la Comunicazione del 2001) alla luce delle più recenti trasformazioni tecnologiche e normative. In particolare prendendo in considerazione la possibilità di diversificare l’offerta di servizio pubblico su una pluralità di piattaforme.
L’occasione è stata, dunque, propizia per valutare – dopo quasi due anni dall’adozione della Comunicazione – se, ed in che modo, gli Stati membri dell’Unione Europea si sono adeguati alle nuove linee guida della Commissione.
2. Per comprendere appieno le novità introdotte dalla Comunicazione 2009 bisogna compiere un passo indietro.
Come già detto, essa sostituisce la precedente Comunicazione adottata nel 2001.
L’oggetto è in parte il medesimo. Oggi come allora, la Commissione definisce – sulla base della consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia – le procedure ed i requisiti che devono essere soddisfatti affinché il finanziamento pubblico dell’operatore incaricato del servizio pubblico radiotelevisivo – sia esso diretto oppure indiretto (es. canone RAI) – non venga considerato un aiuto di stato illegittimo ai sensi degli artt. 106 e 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TSUE).
Il servizio pubblico radiotelevisivo è – come noto – una specie del più ampio genere dei servizi di interesse economico generale. Per questi, come è noto, la stella polare è la giurisprudenza Altmark che definisce i quattro criteri cumulativi che rendono legittima la compensazione delle imprese che svolgono servizi pubblici.
In primo luogo, l’impresa beneficiaria deve essere chiaramente incaricata dell’adempimento di obblighi di servizio pubblico e tali obblighi devono essere definiti con chiarezza. In secondo luogo, la compensazione deve essere calcolata sulla base di parametri previamente definiti con obiettività e trasparenza. In terzo luogo, la compensazione non deve eccedere quanto necessario per coprire i costi dall’adempimento degli obblighi di servizio pubblico. Infine, se l’impresa cui affidare gli obblighi di servizio pubblico non è stata scelta mediante una procedura di appalto pubblico, la compensazione deve essere determinata sulla base all’analisi dei costi che avrebbe dovuto sostenere per adempiere tali obblighi una normale impresa, gestita con efficienza e adeguatamente attrezzata in modo da essere in grado di soddisfare le necessarie esigenze del servizio pubblico.
La citata giurisprudenza – in materia di servizi di interesse economo generale – può essere parzialmente derogata per il servizio pubblico radiotelevisivo sulla base del riconoscimento a tale settore di uno speciale status nel cd. Protocollo di Amsterdam (oggi Protocollo n. 29 del Trattato).
Secondo il citato Protocollo, il finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo può, infatti, avvenire «nella misura in cui tale finanziamento sia accordato agli organismi di radiodiffusione ai fini dell’adempimento della missione di servizio pubblico (…) e (…) non perturbi le condizioni degli scambi e della concorrenza nella Comunità in misura contraria all’interesse comune, tenendo conto nel contempo dell’adempimento della missione di servizio pubblico».
Come si può notare si tratta di una definizione non del tutto chiara e che necessita di essere interpretata.
La Commissione ha concorso, dunque, con la Comunicazione del 2001 e con quella del 2009 a chiarire le specificità del servizio pubblico radiotelevisivo. Di seguito si procederà all’esame di cinque elementi chiave della Comunicazione 2009 facendo specifico riferimento al caso italiano.
3. Il primo punto sottolineato con forza nella Comunicazione 2009 è la necessità di una chiara definizione del contenuto del servizio pubblico radiotelevisivo. Se da un lato, dunque, è riaffermata la discrezionalità degli Stati Membri nella scelta degli specifici contenuti; dall’altro si sottolinea come sia fondamentale la loro conoscibilità.
Questo sia in favore degli utenti e sia nei confronti degli operatori privati, i quali così possono orientare la loro programmazione in maniera più consapevole e minimizzare gli effetti, comunque distorsivi, dell’intervento pubblico.
Nel contesto italiano, la richiesta di una chiara definizione appare, in primo luogo, soddisfatta dall’art. 17 della Legge n. 112 del 2004 (cd. Legge Gasparri). La norma in questione, pur ancora in vigore, è stata testualmente trasfusa nell’art. 45 del Testo Unico della Radiotelevisione (d.lgs. n. 177 del 2005).
La definizione legislativa italiana definisce il servizio pubblico sia in termini quantitativi che in termini qualitativo.
La logica quantitativa è quella propria del servizio universale: l’obiettivo del servizio pubblico radiotelevisivo è infatti la copertura totale del territorio italiano. Questo principio sta guidando – anche se con talune problematiche in ordine alla qualità della trasmissione – anche la transizione, ancora in corso, dalla trasmissione analogica alla trasmissione digitale.
Secondo il profilo qualitativo la logica propria del sistema italiano (come peraltro degli altri Paesi europei) non è, invece, quella tipica del servizio universale.
Il che significa che l’Italia come gli altri Paesi Europei non ha adottato l’opzione – che pur sarebbe stata in ipotesi legittima – dell’intervento pubblico come conseguenza del fallimento del mercato (cd. market failure strategy) nel fornire una programmazione rispondente agli obiettivi del servizio pubblico.
La programmazione del servizio pubblico radiotelevisivo è, dunque, in parte sovrapponibile a quella delle emittenti commerciali, le quali, occorre ricordare, sono tenute anch’esse a rispettare alcuni obblighi di servizio pubblico in senso lato, discendenti dalla concessione delle frequenze e dall’attività di trasmissione radiotelevisiva.
La scelta della sovrapposizione si giustifica agevolmente anche alla luce del Protocollo n. 29 ricordando che l’intervento pubblico nel settore radiotelevisivo può porsi l’obiettivo non solo di trasmettere una programmazione altrimenti non disponibile ma anche quello di rafforzare il pluralismo. Un’offerta mista pubblico-privato risponde pienamente a questa logica.
Non deve stupire, dunque, che le norme citate facciano un riferimento piuttosto ampio e generale ad una programmazione ispirata al pluralismo informativo, alla tutela dei minori, alla protezione della cultura. La scelta è quella di non ingessare l’offerta salvaguardando una variabilità della medesima, anche tenuto conto – nel medio periodo – della programmazione degli operatori privati.
Peraltro, il compito di definire con ulteriore precisione il contenuto dell’offerta di servizio pubblico spetta, al cd. contratto di servizio nazionale (ed ai contratti integrativi regionali) che la RAI ed il Ministero delle Attività Produttive (dopo l’accorpamento del Ministero della Comunicazione) sottoscrivono e rinnovano ogni tre anni.
4. Il secondo elemento necessario richiamato dalla Commissione nella sua Comunicazione è la previsione di un atto giuridico, amministrativo o privato (contratto) che formalizzi l’incarico e ne precisi i contorni.
Qui, occorre dire, innanzitutto che la legge n. 112 del 2004 affida direttamente alla RAI il compito di fornire il servizio pubblico radiotelevisivo per dodici anni.
La formalizzazione dell’incarico è, quindi, ad oggi di tipo legislativo.
Questa scelta deve essere inquadrata nella logica sottesa alla legge 112 del 2004. Come noto la legge Gasparri prevede un doppio regime. Il primo – transitorio – nel quale la RAI continua ad essere l’emittente incaricata del servizio pubblico radiotelevisivo sulla base di una specifica disposizione di legge. Il secondo regime è invece successivo alla prevista (nella legge) privatizzazione della RAI. Logicamente dopo la privatizzazione non avrebbe alcun senso una previsione ex lege ed, infatti, la legge 112 del 2004 prevede che il servizio pubblico radiotelevisivo debba, a quel punto, essere affidato sulla base di una gara ad un soggetto privato (anche teoricamente diverso dalla RAI).
La legge nel prevedere un termine transitorio lungo dodici anni immaginava che esso fosse sufficiente a completare il processo di privatizzazione.
Come spesso è accaduto nel settore radiotelevisivo italiano, le cose non sono andate come si era previsto. Non solo, infatti, il processo di collocamento del capitale sociale della RAI sul mercato non è mai iniziato, ma l’opzione della privatizzazione sembra essere scomparsa dal novero delle priorità dell’attuale maggioranza di centro-destra, pur in parte composta dagli stessi partiti che nel 2004 avevano considerato la legge 112 del 2004 come un punto qualificante del programma di governo.
Accanto alla “transitoria” formalizzazione legislativa c’è, comunque, quella del contratto nazionale di servizio.
Il contratto è sottoscritto, sulla base delle linee guida adottate dall’AGCom, dalla RAI e dal Ministero dello Sviluppo Economico (che ha inglobato il Ministero delle comunicazioni).
Ha durata triennale e stabilisce – questa volta con precisione – le modalità di erogazione del servizio pubblico radiotelevisivo, le linee guida per la programmazione e le categorie stesse della programmazione di servizio pubblico.
Il contratto di servizio attualmente in vigore è valido per il triennio 2010-2012 ed è dunque successivo all’entrata in vigore della nuova Comunicazione della Commissione.
Nonostante il contratto faccia riferimento al triennio iniziato nel 2010, esso è stato sottoscritto dalle parti solo il 6 aprile 2011 e, quindi, con un ritardo di quasi sedici mesi rispetto all’inizio del periodo contrattuale.
Il che rende evidente come sia difficile valutare il grado di conformazione dell’Italia alla Comunicazione del 2009 posto che l’atto che l’ha più propriamente recepita è stato sottoscritto solo da due mesi.
5. Il terzo punto su cui la Commissione rinforza i propri precedenti orientamenti è la previsione di meccanismi di finanziamento e di rendicontazione trasparenti.
Riguardo al finanziamento, l’Italia – a differenza di altri Paesi quali l’Inghilterra e – più recentemente la Francia – adotta un sistema misto o duale cioè fondato sul canone di abbonamento e sulla pubblicità commerciale.
L’abbonamento RAI è da considerarsi, secondo la terminologia della Comunicazione, un existing aid, nel senso che esso era previsto nel sistema italiano già prima dell’intervento comunitario in questo settore. La differenza tra existing aids e new aids è importante poiché i secondi devono essere specificamente approvati dalla Commissione.
Per quanto riguarda la qualificazione formale, il cd. abbonamento è in realtà, secondo la giurisprudenza costituzionale consolidata, una tassa che grava sul proprietario di un apparecchio idoneo a captare le trasmissioni radiotelevisive. Questa definizione indubbiamente concorre a chiarire – se mai ce ne fosse stato dubbio – che si tratta a tutti gli effetti di un finanziamento pubblico ancorché indiretto.
Poiché il tasso di evasione di questa tassa è estremamente elevato, periodicamente (e da ultimo pochi giorni fa si è nuovamente affacciata l’ipotesi) si propone di inglobare questa tassa nella fornitura dell’energia elettrica. Questa ipotesi ridurrebbe certamente le possibilità di evasione, ma modificherebbe, in maniera significativa, la base imponibile. Il che può esporre l’Italia all’eventualità che la Commissione consideri tale modifica quale un new aid con tutti i rischi connessi al successivo controllo europeo.
Il secondo canale di finanziamento è quello pubblicitario.
Certamente non si tratta di un aiuto di Stato, ma anch’esso è oggetto della Comunicazione.
Questo sul presupposto che la vendita di spazi pubblicitari da parte dell’operatore pubblico può avere effetti cd. cross border, in particolare se l’operatore pubblico in virtù del doppio canale di finanziamento può permettersi di praticare prezzi più bassi del mercato.
Non è certamente il caso italiano per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, perché l’Italia ha una scarsa omogeneità linguistica con i Paesi confinanti nel senso che – se si esclude la Svizzera e forse solo in piccola parte la Slovenia – l’italiano non è lingua ufficiale o predominante in nessun altro Paese. Il che evidentemente limita gli effetti cross border della nostra pubblicità.
In secondo luogo perché la RAI ha un limite alla raccolta pubblicitaria derivato da limiti più stringenti rispetto ai privati sul cd. affollamento pubblicitario. Questa previsione interna – che può avere effetti distorsivi sul mercato nazionale – non ha almeno direttamente effetti cross border.
La duplicità dei meccanismi di finanziamento, e particolarmente la previsione di un finanziamento pubblico attraverso il canone, rende obbligatorio per la RAI una distinta rendicontazione delle attività di servizio pubblico e delle attività commerciali.
Questo oggi avviene nelle forme di una separazione contabile sulla base delle linee guida dettate dall’AGCOM nella delibera 102/05/CONS.
La separazione contabile presenta non pochi problemi. Non tanto per quanto riguarda le entrate, quanto piuttosto per la ripartizione dei costi tra le attività commerciali e quelle di servizio pubblico. Si pone, quindi, il problema dei transfer charge vale a dire dell’imputazione pro quota di costi che appaiono per la loro natura inscindibili, quali ad esempio i costi del personale, delle strutture, del debito e, soprattutto, degli investimenti.
Proprio l’estrema discrezionalità delle scelte in merito alla ripartizione dei costi ha reso necessario un controllo esterno che è svolto da una società di revisione dei conti scelta con procedure trasparenti di gara. I risultati contabili sono poi comunicati all’AGCOM.
Per quanto riguarda la separazione tra attività commerciali e di servizio pubblico, la Comunicazione fa riferimento come benchmark alla separazione strutturale o funzionale vale a dire alla creazione di una divisione (strutturalmente o funzionalmente separata) incaricata esclusivamente dell’attività di pubblico servizio.
Nel corso della precedente legislatura erano state avanzate alcune proposte (v. disegno di legge cd. Gentiloni e la proposta di iniziativa popolare cd. de Zulueta) che andavano nella direzione della separazione strutturale. La fine anticipata della legislatura ha bloccato le ipotesi di riforma. Nella legislatura attualmente in corso una nuova riforma della RAI non sembra essere all’ordine del giorno, fermo restando che un eventuale avvio della privatizzazione (ancora prevista dalle norme di legge in vigore) renderebbe superfluo il problema della separazione strutturale o funzionale.
6. Il quarto nodo di particolare rilevanza preso in esame dalla Comunicazione 2009 è quello delle modalità di vigilanza sul compimento degli obblighi di servizio pubblico.
La Comunicazione ribadisce testualmente che “non spetta alla Commissione valutare il rispetto degli standard qualitativi”. Sono, infatti, gli Stati Membri che devono prevedere un’adeguata vigilanza riguardo all’adempimento da parte dell’emittente del mandato di servizio pubblico.
Sul punto la situazione italiana è piuttosto complessa poiché sono almeno tre gli organi e gli enti chiamati a vigilare sulla RAI ed a vario titolo sul suo operato come emittente incaricata di fornire il servizio pubblico. Essi sono la Commissione parlamentare di vigilanza RAI che ha un potere generale di indirizzo e di vigilanza, il Ministro delle Attività Produttive che ha il compito di vigilare sull’attuazione del contratto di servizio e l’AGCOM che non ha solo il già ricordato compito di dettare le linee guida per il contratto di servizio ma anche quello, ex art. 48 del T.U. della Radiotelevisione, di controllare l’esecuzione (anche in termini qualitativi), di vigilare sulla rendicontazione e di riferire in proposito in Parlamento.
La questione della governance RAI evidentemente rischia di modificare l’oggetto dell’intervento e sollevare questioni più ampie e complessive. Quello che è certamente possibile affermare è che l’attuale parcellizzazione del controllo possa in qualche modo vanificare l’obiettivo. La richiesta della Commissione è infatti quella “di un organismo esterno effettivamente indipendente dall’amministrazione dell’emittente di servizio pubblico, che abbia i poteri e la capacità necessari per esercitare la vigilanza su base regolare e che provveda a imporre misure correttive adeguate quando sia necessario assicurare il rispetto degli obblighi del servizio pubblico”.
Per ragioni diverse né la Commissione parlamentare né il Ministro sembrano rispondere a tali requisiti. Il che, de iure condendo, porterebbe a concludere per la necessità di rafforzare il ruolo dell’AGCOM concentrando in capo a tale autorità tutti i poteri di vigilanza.
7. L’ultimo punto della Comunicazione che si prende in esame è quello della diversificazione del servizio pubblico radiotelevisivo attraverso l’utilizzo delle nuove piattaforme multimediali.
Qui sta l’elemento di maggiore novità poiché la Commissione prevede che gli Stati Membri possano finanziare – secondo i rispettivi meccanismi – anche la trasmissione e l’erogazione di “nuovi” servizi su piattaforme multimediali.
Questa apertura è controbilanciata da una precisa richiesta.
Gli Stati membri sono, infatti, chiamati a definire una procedura preliminare di valutazione basata su una consultazione pubblica aperta, al fine di determinare se i nuovi servizi audiovisivi di portata rilevante pianificati dalle emittenti di servizio pubblico su altre piattaforme “soddisfino le disposizioni del protocollo di Amsterdam, ossia se soddisfino le esigenze democratiche, sociali e culturali della società, tenuto debito conto dei loro effetti potenziali sulle condizioni commerciali e sulla concorrenza”.
Il benchmark europeo per la sperimentazione di nuovi servizi è senz’altro la BBC, la quale peraltro aveva già sviluppato insieme all’OFCOM un test per valutare i nuovi servizi prima ancora della Comunicazione della Commissione. Un’altra importante esperienza è indubbiamente quella tedesca che ha previsto un complesso meccanismo di valutazione dei nuovi servizi nonché compilato una lista di servizi comunque esclusi.
L’Italia è sul punto in forte ritardo.
Non tanto sul versante della sperimentazione e della trasmissione pluripiattaforma quanto piuttosto sulla definizione di nuovi servizi all’interno del servizio pubblico radiotelevisivo.
Le Linee Guida dell’AGCOM per la sottoscrizione del Contratto di servizio 2010-2012 dettate pochissimi giorni dopo l’approvazione della Comunicazione 2009 contengono un riferimento alla necessità che la RAI utilizzi le nuove piattaforme e prepari anche attraverso l’utilizzo delle risorse pubbliche nuovi servizi. Manca però certamente una procedura che recepisca le indicazione della Commissione e valuti ogni singolo servizio dopo ampia e pubblica consultazione.
Sul punto è urgente un intervento legislativo che almeno affidi formalmente tale potere all’AGCOM e definisca i principi generali della procedura. Non mancano in proposito modelli già testati in altri Paesi.
Lo spauracchio che deve spingere il Paese ad intervenire non è questa volta la procedura di infrazione. Non c’è infatti ad oggi un obbligo di offrire servizi “nuovi” né di finanziarli con denaro pubblico. L’obiettivo più ambizioso deve essere quello di non perdere tempo rispetto ai nostri partner europei sia per offrire ai cittadini italiani la stessa varietà e ricchezza di servizi sia – e non è cosa secondaria – per non posizionarsi tardi su un mercato (quello dell’offerta multimediale) che è molto più transnazionale di quanto non possa essere oggi quello radiotelevisivo tradizionale.
[i]Il presente testo è la traduzione italiana – con alcune modifiche – dell’intervento svolto nell’ambito del workshop Public Service Broadcasting in Europe in the Digital Age il 1° luglio 2011. [ii]Il programma completo del seminario e le relazioni sono consultabili al seguente indirizzo: http://centres.exeter.ac.uk/ceg/psbworkshop.php