«Controllo del web» è espressione che stona, anche se a pronunciarla è una persona la cui passione per le libertà non è in dubbio.
Così, quando Laura Boldrini ritiene sia necessario porsi tale «delicatissima questione», finisce per rimettere in discussione un postulato antico della civiltà liberale: gli scritti non si controllano preventivamente, semmai se illeciti si sanzionano dopo la loro diffusione. Questo è del resto il “sugo” della scarna disposizione prevista dallo Statuto albertino, secondo il quale «la Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi». E questo afferma la Costituzione, quando proclama che «la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure» e che, dunque, le verifiche preventive in tema di libertà di espressione non hanno in genere cittadinanza nel nostro ordinamento.
Evocare il «controllo del web», perciò, tocca corde troppo sensibili per essere anche solo sfiorate. Richiamare i “sacri principi” non significa tuttavia celare una realtà nella quale i reati a mezzo internet crescono e i colpevoli spesso restano impuniti.
Andiamo con ordine. È senza dubbio vero che si assiste alla proliferazione delle più varie molestie portate per via telematica. Ciò per almeno due ragioni; anzitutto, una volta erano pochi media ad avere un pubblico vasto, oggi si è realizzata l’utopia della possibilità per ciascuno di diffondere amplissimamente le proprie idee. In secondo luogo, tale circostanza ha portato con sé un fenomeno – già da molti sottolineato – per cui quel che una volta si diceva “al bar”, oggi lo si scrive su internet, cioè davanti al mondo intero. Mentre le parole “dal sen fuggite” venivano percepite e presto dimenticate dai pochi in ascolto, ora quegli stessi sfoghi restano fissati nella memoria perenne della rete, rintracciabili da chiunque li cerchi o vi si imbatta per caso. La disponibilità immediata, letteralmente a portata di mano, di un computer o di uno smartphone, fa sì che non vi sia più intervallo temporale fra pensiero, espressione, traduzione in scritto e pubblicazione.
Per questi motivi l’alfabetizzazione telematica ha moltiplicato diffamazioni, ingiurie, incitamenti all’odio, minacce, violazioni della privacy. E tali illeciti assai frequentemente sono commessi da chi non disvela la propria identità. Nickname, pseudonimi, fake, sono frequentissimi, anche perché non esiste alcun obbligo di fedele presentazione per chi si esprime in rete.
Di fronte a questi fenomeni, però, è del tutto legittimo chiedersi: servono nuove regole?
In realtà, le norme per individuare e punire gli autori di illeciti “a mezzo internet” ci sono. Tutti i comportamenti illegali menzionati costituiscono reato anche se diffusi per via telematica e, tralasciando i casi estremi di soggetti che, per capacità tecnica o mezzi impiegati, riescono a occultare anche alla polizia postale la propria identità, gli inquirenti – se vogliono – riescono a seguire le tracce lasciate sul web.
Si tratta di norme severe, che prevedono il carcere, magari poi non concretamente applicato, almeno per le prime condanne, solo in virtù di meccanismi di bilanciamento comuni a tutta la giustizia penale.
Quel che forse vale la pena sottolineare è la necessità di applicarle; in altri termini, sarebbe opportuno, per evitare di comunicare un insano senso di impunità, spendere qualche risorsa in più per perseguire simili illeciti, mettendo a disposizione uomini e mezzi, benché sia ormai cosa nota la scarsità di entrambi.
Va in ogni caso ribadito un punto: non è con normative draconiane, né andando a compromettere i principi posti da secoli a garanzia della libertà di espressione, che si possono tutelare i diritti della persona. Il risultato sarebbe soltanto quello di toccare uno dei fondamenti della civiltà democratica, che bandisce dall’ordinamento ogni forma di censura. Come ricordava Constant nel 1827, «la stampa altro non è che la parola estesa e ingrandita» e dunque anche il legislatore di oggi – come i ministri di Francia cui si rivolgeva il grande intellettuale – sarebbe «in lotta con il proprio secolo» limitando fino a menomare la libertà di espressione con il nuovo mezzo.
Proviamo allora a dare qualche suggerimento, se proprio si vuole intervenire sul diritto vivente.
Come abbiamo ricordato, sul piano dei fatti, la grande novità di internet è che ormai tutti sono in grado, con facilità, di manifestare il proprio pensiero raggiungendo un pubblico potenzialmente innumerevole. Sul piano giuridico, la regola di fondo emersa in questi anni – al netto di qualche sentenza extravagante – sembra essere che “in rete” ognuno risponde per sé e non vi sono figure di garanzia: non risponde il direttore della testata telematica, né il provider, né (con qualche dubbio in più) l’editore in sede civile. Per il contenuto del messaggio è perseguibile solo l’autore.
Se questo è vero, occorre favorire una cultura secondo la quale ognuno si assuma la responsabilità di quanto scrive. Insomma, “sei libero, ma dimmi chi sei”. Per arrivare a questo obiettivo, però, la strada non è quella di vietare tout court ogni scritto anonimo e magari di istituire una sorta di censore con la funzione di controllare e cancellare, previsione peraltro in contrasto con il recente invito delle Nazioni Unite a salvaguardare il diritto all’anonimato online. Né è percorribile quella a suo tempo prevista per la stampa, secondo cui l’anonimo è sempre illecito, nel senso che per ogni scritto deve essere rinvenibile un soggetto responsabile, sia esso l’autore, il direttore o lo stampatore.
La via ci pare quella di incentivare la trasparenza e prevedere un diverso trattamento tra chi svela e chi nasconde la propria identità. Di qui un suggerimento: estendere agli scritti non anonimi le garanzie previste per gli stampati, prima di tutto il sostanziale divieto di sequestro preventivo, salvo casi molto marginali.
Oggi simile misura, pressoché bandita per la stampa, è usata larghissimamente e quasi “a cuor leggero” per l’informazione in rete. Se questo è comprensibile nei confronti di chi compie illeciti cercando di celarsi, lo diventa molto meno quando si interviene oscurando espressioni la cui paternità è chiara.
Questa distinzione non ci pare arbitraria, ma trae spunto proprio dallo spirito dell’art. 21 della Costituzione che, come da anni scrive Marco Cuniberti, nel porre il principio della libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo, introduce il principio di responsabilità e ammette la presenza di norme volte all’identificazione di chi parla o scrive.
E sarebbe bello immaginare un «potere vestito d’umana sembianza» che premi comportamenti virtuosi e non incrementi, con un istinto quasi pavloviano di fronte a vere o presunte emergenze, controlli e reazioni repressive.
(pubblicato in Il Sole 24 Ore, domenica 19 maggio 2013, p. 49)