Le ultime settimane hanno consegnato alle cronache uno scenario che testimonia una desolante regressione nella qualità del dibattito pubblico. Il web, anche in questo caso, non ha mancato di rivestire un ruolo cruciale, perlopiù deleterio e tutt’altro che favorevole a un innalzamento del livello del confronto.
Da un lato, infatti, appare inarrestabile la proliferazione di forme di informazione parallela non qualificate: che, per un verso si alimentano agitando lo spettro di un’informazione istituzionale inquinata, non neutrale e talvolta di carattere censorio; per altro, si risolvono spesso in una dinamica autoreferenziale di diffusione di notizie non verificate e prive di effettivo riscontro.
In aggiunta, l’amplificazione della portata di queste notizie riesce agevolata dall’uso dei social network, in un processo di cui è parte ormai ineliminabile l’inserzione di commenti da parte degli utenti, quasi un diritto irrinunciabile, come se le notizie, talora, non si commentassero da sé.
Il tutto, accompagnato dall’uso di toni sempre più esasperati e violenti, reazione incontrollata anche alle logiche populistiche di cui si è permeata la dialettica politica negli ultimi tempi. A questo processo collettivo di opinione non sono estranei anche soggetti pubblici, aspetto che rende più gravi le vicende che è dato osservare quando venga fatto un esercizio poco responsabile della libertà di parola.
Gli accadimenti delle ultime settimane restituiscono così drammatica attualità alla domanda sull’esatto confine tra una libertà (quella di espressione, appunto) e il suo abuso. Domanda che si risolve nel più complesso dilemma sull’opportunità di reprimere piuttosto che di tollerare il discorso pubblico quando esso assume connotazioni vicine all’hate speech.
In ordine cronologico, è stata la strage di Charlie Hebdo ad aprire un giusto vortice di sdegno e a rinnovare, con lo slogan “Je suis Charlie” la centralità della libertà di espressione, specie nella declinazione della satira, come valore che contraddistingue ogni società di impronta liberale. Tuttavia, non sono mancate già a questo riguardo incaute degenerazioni, tese a collocare la tolleranza come cifra distintiva della civiltà occidentale in aperta contrapposizione alla cultura di matrice islamica. Una tendenza, quella alla confusione tra ortodossia religiosa e il binomio integralismo-terrorismo, non nuova, tutt’altro che infrequente, ma tornata prepotentemente di attualità.
La vicenda Charlie Hebdo, nel divenire emblema della sacralità della libera espressione, come effetto della sua intensa drammaticità, è stata al contempo troppo agevolmente trasformata in scudo rispetto ad alcune manifestazioni di pensiero difficilmente tollerabili.
Due ne sono gli esempi di pochi giorni fa.
Dapprima, la diffusione di una falsa notizia da parte di un blog circa presunti rapporti sessuali che le giovani Greta e Vanessa, durante la prigionia in Siria, avrebbero intrattenuto con i loro sequestratori. La notizia, del tutto frutto di invenzione, è stata accreditata addirittura dal vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, che l’ha ripresa sul proprio profilo Twitter, scatenando una comprensibile ondata di indignazione. Sulla stessa vicenda, peraltro, già si era registrato un dibattito particolarmente acceso, incendiato dalla notizia (anche questa smentita dal Governo italiano) di un presunto riscatto pagato ai rapitori. Non solo commenti denigratori e insulti (“le stronzette di Damasco”), ma anche accostamenti del tutto impropri (con la vicenda dei marò), risultato raccapricciante di una campagna d’odio che in Internet ha trovato il suo epicentro.
Il secondo episodio che smaschera il volto tutt’altro che tollerante di una civiltà dichiaratamente liberale e democratica si è avuto in occasione del convegno sulla famiglia tradizionale promosso da Regione Lombardia. Qui, un giovane e coraggioso studente è stato allontanato solo per aver rivolto una domanda alla platea. Non sono mancate le offese: l’invito “ad andare a cagare” del presidente della Fondazione Tempi, Luigi Amicone, e l’epiteto “culattone” da parte di Ignazio La Russa.
Due galantuomini, non c’è che dire.
In entrambi i casi, lo slogan “Je suis Charlie” è stato evocato a sostegno della libertà di diffondere opinioni anche trascendenti i limiti della decenza: nel caso di Greta e Vanessa, emblematica la difesa del senatore Gasparri, affidata a Twitter e all’hashtag #jesuisgasparri; in quello del convegno sulla famiglia tradizionale, la risposta alle (quasi) unanimi condanne dell’episodio si è tradotta nell’aperta contestazione (con tanto di relativo hashtag) del presunto pensiero unico che sul tema dell’omosessualità dominerebbe in Italia.
Urge allora interrogarsi, a fronte di questa spirale di odio, se la libertà di esprimere opinioni non meriti davvero di conoscere limiti più stringenti di quelli (collegati alla diffamazione, all’onore e al buon costume) previsti dall’ordinamento e, in primis, dalla Costituzione. Nell’alternativa tra tolleranza e repressione, la domanda è se l’hate speech meriti tutela o se sia piuttosto opportuna una reazione anche penale.
Le vestali di un garantismo non disinteressato, fan di una tolleranza a giorni alterni, dissentiranno apertamente. Così come dissentiranno, ma con argomenti certo più elaborati, coloro che avversano l’uso di una legislazione simbolica, troppo spesso esito di contesti emergenziali o emozionali, e come tale frutto di scarsa ponderazione ed equilibrio.
Il quesito, in fondo, potrebbe risolversi guardando al bene attinto da queste forme di espressione, in definitiva la dignità dell’individuo. Bene che informa il nostro ordinamento giuridico e l’intero apparato costituzionale. Ma d’altro canto, se è vero che una spinta criminalizzatrice sembrerebbe trovare una sponda nella centralità della dignità umana, nemmeno possono essere trascurate le conseguenze dirompenti che questa scelta può partire, se trasfusa in altri contesti storico-politici, dove potrebbe aprire la strada a meccanismi di repressione del dissenso.
Se allora è bene che l’uso dei mezzi di diffusione del pensiero rimanga libero, purché non trascenda in espressioni diffamatorie o contrarie al buon costume, e così non divenga soggetto a restrizioni ulteriori a quelle già contemplate, altro deve essere il rimedio di fronte a tutto ciò che è hate speech ma non può essere giuridicamente perseguito. Un rimedio forse risolutivo, che eviterebbe alla radice ogni dibattito, opera sul piano culturale ed esige semplicemente un uso responsabile dei mezzi che la tecnologia offre.
Non c’è molto da chiedere allora, se non uno slancio di civiltà, che è anche di dignità: quella capacità di arrossire e vergognarsi, senza fare di #JeSuisCharlie un alibi per tutto, e magari di chiedere scusa.