Corte europea dei diritti dell’uomo, 6 luglio 2017, Y c. Svizzera, ric. 22998/13
Non costituisce misura incompatibile con l’art. 10 CEDU la sanzione pecuniaria disposta contro un giornalista che aveva pubblicato atti coperti da segreto istruttorio. Sebbene un divieto assoluto circa la pubblicazione di atti coperti da segreto non sia conforme alla Convenzione laddove la notizia soddisfi un interesse pubblico, è comunque rispettoso dell’art. 10 un intervento delle autorità nazionali che sanzioni la violazione del segreto istruttorio in carenza di un siffatto interesse della collettività e se il giornalista compromette la privacy di vittime minorenni.
Sommario: 1. Premessa. – 2. La ricostruzione del caso all’origine della sentenza. – 3. La tutela della segretezza delle indagini penali come fine legittimo per le limitazioni alla libertà di stampa. – 4. Osservazioni conclusive.
1.Premessa
Nel difficile equilibrio tra libertà di stampa e tutela del segreto investigativo interviene nuovamente la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con la sentenza depositata il 6 giugno 2017 nel caso Y. c. Svizzera (ric. 22998/13)[1], ha delineato il perimetro entro il quale un giornalista può pubblicare atti coperti da segreto istruttorio senza violare il diritto all’equo processo e, in particolare, la presunzione d’innocenza, che ne è parte integrante. Nel caso in esame, la Corte di Strasburgo non ha ritenuto che lo Stato in causa avesse violato l’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che assicura il diritto alla libertà di espressione. La condanna di un giornalista a una sanzione pecuniaria di 5.000 franchi svizzeri pari a circa 3.850 euro dovuta alla violazione del divieto di pubblicazione di atti coperti da segreto istruttorio non è stata ritenuta in contrasto con la norma indicata, così come interpretata dalla stessa Corte, in particolare perché non sono emerse esigenze di interesse per la collettività nella pubblicazione degli indicati atti. Questa sentenza potrebbe apparire, a una prima lettura, come un ripensamento della Corte europea rispetto alla posizione di protezione della libertà di stampa assunta in modo consolidato dalla stessa Corte, lettura che, come vedremo, non appare condivisibile per diversi motivi che analizzeremo nel prosieguo.
2. La ricostruzione del caso all’origine della sentenza.
La vicenda che ha portato all’intervento della Corte europea ha avuto origine dalla pubblicazione, da parte di un giornalista professionista di un settimanale svizzero, di alcuni stralci contenuti in atti coperti da segreto istruttorio relativi a un’inchiesta sulla pedofilia. Il cronista aveva ricostruito l’indagine a carico di un noto amministratore immobiliare, riportando anche la testimonianza del padre di una delle presunte vittime il quale contestava la scarcerazione dell’accusato. Nell’articolo, il giornalista si era soffermato sui dettagli della vicenda e aveva anche pubblicato alcuni stralci del ricorso del pubblico ministero avverso la decisione del giudice istruttore il quale aveva disposto la liberazione dell’accusato. Era stata aperta d’ufficio un’indagine per la pubblicazione di atti coperti da segreto, vietata dall’art. 293 del codice penale. Sia in primo che in secondo grado il giornalista era stato condannato a una sanzione penale di natura pecuniaria con la conseguente decisione del cronista di rivolgersi alla Corte europea che, però, non ha accolto il ricorso.
C’è da chiedersi se questa conclusione implichi un arretramento nella tutela della libertà di stampa[2] e nella protezione dei giornalisti accordata da molti anni dalla Corte di Strasburgo, che ha ricevuto anche talune critiche in quanto la sua posizione è stata considerata da parte della dottrina come ultraprotettiva verso la stampa, realizzando un eccesso di protezione della libertà d’informazione[3] o se, piuttosto, ad un’attenta lettura, l’indicata sentenza non sia una conferma di un orientamento consolidato della Corte che richiede un test su alcuni parametri individuati nel corso degli anni, confermando quella che è stata definita, con una connotazione positiva condivisibile, come «une évolution spectaculaire» nella protezione dei giornalisti[4]. Ed invero, la Corte di Strasburgo ha più volte evidenziato la necessità di privilegiare la tutela della libertà di stampa non per accordare un privilegio ai giornalisti, ma perché detta libertà deve essere considerata come condizione essenziale per la realizzazione di ogni altro diritto, nonché come substrato indispensabile per la democrazia. Nei diversi interventi a tutela dei giornalisti, la Corte ha anche avuto modo di chiarire che la limitazione della libertà di informazione non determina la lesione di un solo diritto, ma bensì di due, ossia il diritto individuale del giornalista a fornire informazioni e quello della collettività di ricevere notizie su questioni di interesse generale.
3. La tutela della segretezza delle indagini penali come fine legittimo per le limitazioni alla libertà di stampa.
Passando ad analizzare la pronuncia Y. c. Svizzera, ormai divenuta definitiva, anche in quest’occasione la Corte europea, prima di tutto, ha valutato se, come per ogni limitazione al diritto alla libertà di espressione di cui all’art. 10, essa sia stata prevista dalla legge, persegua un fine legittimo e se sia necessaria in una società democratica, ossia corrisponda a un bisogno sociale imperativo.
La previsione dell’ingerenza in un testo legislativo non ha creato alcuna controversia perché il codice penale svizzero all’art. 293 fissa espressamente il divieto di pubblicazione di atti considerati segreti in forza della legge o di una decisione dell’autorità pubblica determinando la pena, in caso di violazione, in un’ammenda pecuniaria e l’art. 186 del codice di procedura penale del cantone di Vaud dispone ugualmente una sanzione in caso di violazioni dei segreti d’indagine. La restrizione in oggetto, inoltre, persegue un fine legittimo: l’art. 10, infatti, prevede come eccezioni da interpretare restrittivamente in quando deroghe al diritto, la possibilità per gli Stati di stabilire restrizioni se si tratta di misure necessarie in una società democratica anche «per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario»[5]. A prima vista, quindi, il comportamento delle autorità elvetiche appare conforme al dettato dell’art. 10 perché il sistema svizzero, al pari di ogni altro ordinamento, tutela la segretezza delle inchieste per assicurare lo svolgimento delle azioni penali e la presunzione d’innocenza, così come per tutelare le altre parti coinvolte nei procedimenti, incluse le vittime. In aggiunta, tuttavia, la Corte ha precisato che la misura predisposta con gli indicati obiettivi deve risultare necessaria in una società democratica, situazione che la Corte fa coincidere, come detto, con l’esigenza di tutelare un bisogno sociale imperativo.
È poi opportuno considerare che la tutela della segretezza delle indagini non è solo una limitazione al diritto alla libertà di espressione – in quanto tale da interpretare restrittivamente -, ma è anche insita in un diritto autonomo ossia quello all’equo processo oggetto di specifica tutela nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel quale è incluso il diritto alla presunzione d’innocenza e ad essere giudicati da un tribunale imparziale[6]. Rispetto ad altre limitazioni di cui all’art. 10, quindi, quella che ha al centro la tutela delle attività giudiziarie risulta rafforzata in quanto ha una base anche nell’art. 6 della Convenzione. Proprio in questo settore, però, è più forte la contrapposizione tra giornalisti e autorità nazionali tenendo conto che la divulgazione di notizie di interesse generale comporta, non di rado, la necessità di pubblicazione di informazioni coperte dal segreto investigativo, ma utile alla collettività e funzionali ad animare un dibattito su questioni di interesse pubblico[7]. E proprio in quest’ambito, in ragione dell’elevato numero di ricorsi alla Corte europea da parte di giornalisti condannati a livello nazionale, talvolta anche per reati non legati alla liberà di espressione come la ricettazione e il favoreggiamento, la Corte ha potuto consolidare precisi criteri che le autorità nazionali sono tenute ad applicare per non far incorrere lo Stato in una violazione della Convenzione, in generale seguendo un orientamento di forte rafforzamento della libertà di stampa, anche con un proprio maggiore potere di accertamento e una riduzione del potere discrezionale degli Stati[8].
Ed invero, se la Corte europea non si sostituisce alle valutazioni delle autorità statali, essa deve verificare se a livello nazionale le autorità competenti hanno agito nel rispetto del margine di apprezzamento loro concesso nella valutazione dei diversi interessi in gioco, al fine di raggiungere un giusto equilibrio, nel rispetto della Convenzione. In particolare, la Corte europea deve verificare se il potere concesso allo Stato è stato esercitato in buona fede e in modo ragionevole, valutando l’insieme del caso per accertare se l’ingerenza è stata «proporzionata al fine legittimo perseguito e se i motivi invocati dalle autorità nazionali per giustificare l’ingerenza siano pertinenti e sufficienti».
La Corte ha già individuato, anche di recente nella sentenza della Grande Camera del 29 marzo 2016, Bédat c. Svizzera (ric. 56925/08)[9], i criteri da seguire nei casi di conflitto tra notizia di interesse generale e tutela del segreto di indagine tra i quali vi sono le modalità in cui sono state ottenute le informazioni, il tenore dell’articolo, il contributo a un dibattito su una questione di interesse generale, l’influenza dell’articolo sullo svolgimento del procedimento penale, la vita privata dell’interessato nonché delle altre parti alla procedura e la proporzionalità della sanzione. Nell’applicazione di questi criteri, a nostro avviso, la Corte ha imposto un orientamento volto a dare la priorità alla diffusione di notizie di interesse per la collettività. Basti considerare, in proposito, alla sentenza della Grande Camera del 17 dicembre 2004 nel caso Cumpănă e Mazăre c. Romania (ric. 33348/96) con la quale la Corte ha stabilito che il giornalista investigativo deve pubblicare notizie su indagini anche prima che siano di dominio pubblico perché «il ruolo dei giornalisti investigativi è precisamente quello di informare e allertare la collettività su fenomeni sgraditi nella società appena ne entrino in possesso». In ragione dell’interesse della collettività a ricevere notizie e del dovere del giornalista di fornirle, la Corte ha sancito che «i giornalisti, nella libertà d’indagine, che è inerente alla propria funzione d’informazione, possono ottenere documenti non ancora pubblici e pubblicarli, a condizione che si tratti di notizie di interesse generale»[10]. Tale orientamento è stato confermato nella sentenza del 19 gennaio 2010, Laranjeira Marques Da Silva c. Portogallo (ric. 16983/06), con la quale la Corte ha affermato che le preoccupazioni sulla protezione delle inchieste in corso non possono prevalere «sull’interesse della collettività a ricevere informazioni su indagini penali che hanno ad oggetto politici». In quell’occasione, il giornalista aveva pubblicato stralci di atti istruttori su una questione di interesse generale come un’indagine su molestie sessuali e la Corte ha ritenuto che il giornalista, che aveva agito nel rispetto delle regole deontologiche sottolineando l’archiviazione dell’inchiesta, aveva la libertà di scegliere le modalità di strutturazione dell’articolo e optare per lo stile più appropriato per informare. A volte, il giornalista può ritenere utile, per accrescere la credibilità dei fatti che riferisce, pubblicare stralci di atti o mostrare il documento d’indagine, anche se coperto da segreto processuale[11].
Queste sentenze potrebbero portare a ritenere che nella pronuncia Y. c. Svizzera la Corte abbia cambiato approccio. In realtà, a nostro avviso, i giudici internazionali non hanno fatto altro che applicare i criteri citati in precedenza: la situazione fattuale differente ha portato a una conclusione non favorevole al giornalista, ma senza un ripudio dei propri precedenti. Così, la Corte ha accertato che la notizia era arrivata al giornalista attraverso il padre di una delle vittime e, quindi, senza alcuna attività illecita anche se il cronista era del tutto consapevole che la pubblicazione di atti coperti da segreto conduceva a una violazione sanzionata dal codice penale svizzero. Su un altro criterio indicato in precedenza, che è centrale nella valutazione di Strasburgo, la Corte condivide il giudizio dei giudici nazionali secondo i quali l’articolo conteneva particolari non necessari, non funzionali a soddisfare alcun interesse della collettività. Puro sensazionalismo che, già in passato, la Corte non ha mai tutelato[12]. Pertanto, se l’interesse della collettività al funzionamento della giustizia è in sé automatico, la realizzazione con un articolo che riporta dettagli non funzionali a perseguire detto obiettivo conduce la Corte a non accordare la protezione ai giornalisti. Nel caso di specie, quindi, la Corte ha ritenuto soltanto che gli stralci degli atti di indagine erano irrilevanti ai fini dell’interesse della collettività, senza in alcun modo legittimare l’applicabilità di sanzioni automatiche ai giornalisti per la violazione del segreto istruttorio. Pertanto, ancora una volta, è respinto un automatismo in base al quale un giornalista dovrebbe subire una sanzione per il solo fatto di aver violato il segreto investigativo. La Corte, infatti, raggiunge una soluzione nel senso di non proteggere il giornalista non partendo dalla violazione del segreto investigativo, ma dal fatto che negli atti pubblicati mancava un interesse pubblico a ricevere quel tipo di dettagli. Ed invero, per la Corte, i passi relativi all’opposizione del pubblico ministero alla scarcerazione dell’accusato erano questioni di interesse generale, utili a contribuire a un dibattito su questione di interesse pubblico. Tuttavia, la presenza di informazioni dettagliate non necessarie sull’imputato o sulle dichiarazioni del querelante «non erano suscettibili di nutrire un dibattito pubblico sul funzionamento della giustizia»[13].
Inoltre, a conferma dell’inutilità delle pubblicazioni, il testo estrapolato dal fascicolo confidenziale non mostrava in alcun modo omissioni da parte delle autorità giudiziarie. L’analisi compiuta dalla Corte, quindi, attesta che se è legittimo che le autorità nazionali pongano divieti circa la pubblicazione degli atti coperti da segreto al fine del buon funzionamento della giustizia, al tempo stesso un giornalista non deve essere suscettibile di punizione laddove ciò che pubblica è di interesse generale, mentre lo può essere se così non è. In qualche modo la costruzione del rapporto tra i due interessi in gioco va costruito facendo riferimento all’onere della prova laddove è centrale la presunzione d’innocenza: nel caso di pubblicazione degli atti di indagine, infatti, certo non si può chiedere alle autorità nazionali competenti di fornire a posteriori «la preuve que ce type de publication a eu une influence réelle sur la suite de la procédure» (par. 76), mentre presumibilmente è il giornalista a dover dimostrare la rilevanza degli atti ai fini dell’interesse della collettività, situazione che non si è verificata nel caso di specie a causa della presenza di dettagli inutili, del fatto che l’indagato non era un personaggio pubblico e della circostanza che la vicenda si era svolta in un quadro “essenzialmente familiare”.
Di qui la mancanza di protezione al giornalista malgrado avesse citato per ben due volte la presunzione d’innocenza con ciò rispettando le regole deontologiche, anche se il tono dell’articolo non lasciava dubbi sulla sua opinione rispetto all’amministratore immobiliare.
A ciò si aggiunga che la pubblicazione conteneva elementi idonei a identificare le minorenni vittime compromettendone il diritto al rispetto della vita privata tant’è che la madre di una delle presunte vittime e compagna dell’indagato aveva sporto denuncia.
In ultimo, un ulteriore tassello spinge la Corte a dare ragione allo Stato, ossia la circostanza che i giudici nazionali hanno applicato una sanzione proporzionale, con un’ammenda quantificata tenendo conto dei parametri già individuati dalla stessa Corte poiché è stata considerata anche la situazione economica del ricorrente, senza trascurare la circostanza che l’ammenda è stata versata dall’editore e che essa non era idonea a produrre un effetto deterrente sulla libertà di stampa, determinando un chilling effect sui giornalisti ossia un’ingerenza che può condurre a una forma di autocensura e a limitare la partecipazione della collettività al dibattito su questioni di interesse generale[14].
Un aspetto, tuttavia, non ci sembra convincente ossia una certa superficialità della Corte sulla valutazione dell’effettiva influenza dell’articolo sul processo e sui giudici perché la Corte, a differenza del passato, non ha considerato che i magistrati chiamati a decidere erano giudici professionisti e non componenti di una giuria popolare e, quindi, meno influenzabili[15].
4.Osservazioni conclusive
L’analisi sin qui svolta mostra, a nostro avviso, che non vi è stato alcuno stravolgimento nella posizione della Corte. Ed invero, così come in passato, la Corte non ha accordato la protezione al giornalista soltanto in quanto i passi pubblicati in violazione del segreto istruttorio non erano di interesse generale e perché le autorità giurisdizionali nazionali hanno seguito e applicato il test imposto dalla stessa Corte europea, compiendo un’attenta valutazione dell’apporto delle notizie pubblicate alle discussioni su temi di interesse generale e non procedendo in modo automatico alla condanna del giornalista. È vero che la Corte pone, seppure indirettamente, un onere della prova sul giornalista, ma con un’incombenza limitata perché di fatto si tratta di chiarire se l’articolo trascende la vicenda specifica con al centro un personaggio non pubblico, ma un privato cittadino. In pratica il reporter deve mostrare che «des informations d’intérêt général dépassait le cadre du procès», poiché «cette circostance devait être prise en compte dans l’exercise de la mise en balance des divers intérêts en jeu»[16]. A nostro avviso, anzi, l’attribuzione di un ruolo specifico al giornalista nella dimostrazione dell’interesse pubblico contribuisce a ridimensionare il ruolo delle autorità giudiziarie nella valutazione del test di proporzionalità della misura che non è lasciato ai soli giudici nazionali[17].
È, quindi, il comportamento dei tribunali interni in linea con i parametri di Strasburgo a far ritenere non violata la Convenzione. Se i giudici austriaci avessero fatto prevalere in modo automatico la tutela del segreto istruttorio, senza alcun accertamento sull’interesse pubblico, la conclusione sarebbe stata analoga alla citata sentenza del 28 giugno 2011 nel caso Pinto Coelho c. Portogallo con la quale la Corte ha accertato una violazione da parte del Portogallo perché la giornalista era stata condannata in modo automatico per violazione del segreto istruttorio[18] e nella sentenza del 28 giugno 2012 (Ressiot e altri c. Francia, ric. 15054/07) nella quale Strasburgo ha precisato che occorre «la più grande prudenza» nella punizione dei giornalisti per violazione del segreto istruttorio, possibile solo laddove sussiste «un interesse pubblico imperativo preponderante», evidenziando così che non sempre il segreto d’indagine ha questo carattere. Analoga conclusione è venuta in rilievo nella sentenza del 25 ottobre 2016, Verlagsgruppe New GmbH c. Austria (ric. 60818/10) con la quale la Corte europea ha condannato lo Stato in causa per violazione dell’articolo 10 per aver disposto una sanzione al giornalista e all’editore perché in un articolo pubblicato sul giornale era stata svelata l’identità di un dirigente di una banca che aveva subito gravi perdite a causa di manovre speculative rischiose. La Corte ha affermato che nelle vicende legate ad inchieste giudiziarie va evitato il cosiddetto “trial by the media”[19] e garantito il diritto alla presunzione d’innocenza, precisando, però, che la stampa ha l’obbligo di divulgare questioni di interesse generale e contribuire a informare la collettività senza che incida la circostanza che il procedimento penale a carico di un individuo al centro dell’articolo venga archiviato. Un orientamento conforme alla raccomandazione del 10 luglio 2003 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (2003)13 sulle regole di informazione attraverso i media relative ai procedimenti penali in cui si afferma che «The public must be able to receive information about the activities of judicial authorities and police services through the media. Therefore, journalists must be able to freely report and comment on the functioning of the criminal justice system, subject only to the limitations provided for under the following principles» (principio n. 1)[20].
Vale la pena ricordare che la preminenza dell’interesse della collettività a ricevere notizie emerge anche da altri atti internazionali come, tra i tanti, il rapporto del 22 maggio 2015 del Relatore speciale dell’Onu sulla promozione del diritto alla libertà di opinione e di espressione David Kaye il quale, nel documento Promotion and protection of the right to freedom of opinion and expression, ha evidenziato l’interesse della collettività a ricevere informazioni che contribuiscono a un dibattito pubblico, precisando che «Secrecy should be imposed only on information that would, if disclosed, harm a specified interest under article 19 (3)[ del Patto sui diritti civili e politici]; even in the event of a risk of harm, a process should be in place to determine whether the public interest in disclosure outweighs that risk»[21]. A ciò si aggiunga che anche in atti adottati dall’Unione europea volti a rafforzare la presunzione d’innocenza, come la direttiva 2016/343 del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali[22], non è in alcun modo sancito il divieto di pubblicazione per salvaguardare il diritto oggetto della direttiva. Basti considerare che l’art. 4, par. 3, ribadito l’obbligo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, chiarisce che non è impedito «alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico». A tal fine, – si legge nel considerando n. 19 – «gli Stati membri dovrebbero informare le autorità pubbliche dell’importanza di rispettare la presunzione di innocenza nel fornire o divulgare informazioni ai media, fatto salvo il diritto nazionale a tutela della libertà di stampa e dei media». Del pari, nella risoluzione del Parlamento europeo del 24 ottobre 2017 sulle misure legittime per proteggere gli informatori che agiscono nell’interesse pubblico, quando divulgano informazioni riservate di imprese e organismi pubblici, è stato affermato che è preoccupante che i giornalisti «vengano perseguiti, anziché ricevere protezione giuridica, quando rivelano informazioni in nome dell’interesse generale, comprese informazioni su presunti casi di violazione dei doveri professionali, illeciti, frode e attività illegali, in particolare se si tratta di comportamenti che violano i principi fondamentali dell’Unione europea, come l’elusione e l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro» (par. 2)[23].
Così, è evidente che malgrado la tutela della presunzione d’innocenza, non possano essere ammessi divieti assoluti relativi alla divulgazione di notizie su inchieste penali in corso. E con la sentenza Y. c. Svizzera, la Corte europea non ha in alcun modo ammesso questa possibilità, lasciando immodificata la propria posizione che corrisponde a quanto affermato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nella citata raccomandazione (2003)13. Ed invero, se la Corte, nella sentenza in oggetto, pone un onere di prova sul giornalista riguardo agli specifici atti, la valutazione effettuata dalla stessa Corte resta complessiva e ha avuto al centro anche la circostanza che le vittime erano minorenni e l’accusato una persona non pubblica, senza un ridimensionamento del ruolo dei media nella diffusione di informazioni sui procedimenti penali.
[1] Le sentenze della Corte europea sono reperibili nel sito http://www.echr.coe.int.
[2] Si veda R. Barone, Giornalismo e segreto istruttorio nel caso Y. c. Suisse, nel sito http://www.opiniojuris.it; R. Bin, Sentenza Cedu su giornalisti e segreto istruttorio: si balla sotto le stelle della Convenzione…, in www.lacostituzione.info, 7 giugno 2017.
[3] Così L.G. Loucaides, Libertà di espressione e diritto alla reputazione, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, 2002, 7 ss.; Id., The Right to Information, in L.G. Loucaides (a cura di), Essays on the Developing Law of Human Rights, Boston – London, 1995, 7 ss., il quale ritiene che la Corte abbia rafforzato eccessivamente il diritto alla libertà di espressione a discapito del diritto alla reputazione.
[4] Cfr. L. François, La preuve de la diffamation en droit français et la Convention européenne des droits de l’homme, in Rev. trim. des droits de l’homme, 2005, 445 ss.
[5] Cfr., per tutti, M. Oetheimer – A. Cardone, Articolo 10, in S. Bartole – P. De Sena – V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, 397 ss.
[6] Su processo penale e stampa si veda R. Chenal, Il rapporto tra processo penale e media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritto penale contemporaneo, 3, 2017, 37 ss.
[7] Tale conflittualità è presente in ogni Stato parte alla Convenzione: si veda M. Lemonde, Justice and the media, in M. Delmas-Marty (a cura di), European Criminal Procedures, Cambridge, 2002, 688 ss., nonché G. Resta, Trial by Media as a Legal Problem, Napoli, 2009.
[8] Si veda, sul rapporto media e presunzione d’innocenza, la sentenza Shuvalov c. Estonia, ricc. 39820/08 e 14942/09, del 29 maggio 2012.
[9] Per un’analisi della sentenza si veda M. Cuniberti, L’incerto bilanciamento tra esigenze processuali diritti dell’imputato e libertà di cronaca: a proposito della sentenza Bédat c. Svizzera, in Osservatorio costituzionale, 3, 2016, 1 ss. Cfr. anche D. Voorhoof, The Grand Chamber strikes again by finding no violation in freedom of expression in the case Bédat v. Switzerland, 2016, reperibile nel sito http://www.strasbourgobservers.com; G. Tarli Barbieri, Libertà disinformazione e processo penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte EDU: problemi e prospettive, in Diritto penale contemporaneo, 3, 2017, 20 ss.
[10] Nella stessa direzione si veda la sentenza del 19 gennaio 2010 Laranjeira Marques Da Silva c. Portogallo. Per un’analisi completa ci permettiamo di rinviare a M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale ed europeo, Bari, 2012.
[11] A conferma di quest’orientamento si veda la sentenza del 28 giugno 2011 nel caso Pinto Coelho c. Portogallo, ric. 28439/08. In quell’occasione la Corte ha condannato lo Stato in causa perché il giornalista era stato punito in modo automatico per il solo fatto di aver violato il segreto istruttorio.
[12] Si veda, tra le tante, la sentenza del 4 giugno 2009, Standard c. Austria, ric. 21277/05 con la quale la Corte ha precisato che non sono coperte da tutela le notizie che non contribuiscono ad alcun dibattito pubblico e che semplicemente soddisfano “la curiosità di alcuni lettori”.
[13] Già in passato la Corte aveva raggiunto analoga conclusione. Ad esempio, nella sentenza del 30 giugno 2009, Hacquemand c. Francia, (ric. 17215/06), la Corte europea aveva dichiarato irricevibile il ricorso di un giornalista condannato per violazione del segreto istruttorio per aver pubblicato una fotografia di un indagato per un reato comune tratta da un fascicolo d’indagine proprio perché l’immagine non aggiungeva nulla all’articolo e non contribuiva a un dibattito d’interesse generale.
[14] Cfr. la raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, CM/Rec(2016)4 sulla protezione del giornalismo e la sicurezza dei giornalisti e altri attori nel settore dei media del 13 aprile 2016, in cui è stato affermato che «A chilling effect on freedom of expression arises when an interference with this right causes fear, leading to self-censorship and ultimately the impoverishment of public debate, which is to the detriment of society as a whole. Accordingly, State authorities should avoid taking measures or imposing sanctions that have the effect of discouraging participation in public debate. Legislation and how it is applied in practice can give rise to a chilling effect on freedom of expression and public debate. Interferences that take the form of criminal sanctions have a greater chilling effect than those constituting civil sanctions. Thus, the dominant position of State institutions requires the authorities to show restraint in resorting to criminal proceedings. A chilling effect on freedom of expression can arise not only from any sanction, disproportionate or not, but also the fear of sanction, even in the event of an eventual acquittal, considering the likelihood of such fear discouraging one from making similar statements in the future». Il testo è reperibile nel sito http://www.coe.int.
[15] Tale aspetto, invece, è stato ritenuto centrale nella sentenza Tourancheau e July c. Francia (ric. 53886/00) del 24 novembre 2005. In quell’occasione, infatti, la Corte aveva precisato che i giudici nazionali devono valutare «la probabilité que les juges non professionnels au moins lisent l’article ainsi que l’influence que ce dernier pouvait avoir. En l’espèce, eu égard à la teneur de l’article, soutenant la version des faits de l’un des prévenus au détriment de l’autre, force est de constater, à l’instar des juridictions nationales, que sa publication avant la tenue de l’audience d’assises ne pouvait qu’être susceptible d’avoir un impact sur des juges non professionnels composant un jury et amenés à juger de la culpabilité de ces mêmes prévenus» (par. 75).
[16] Si veda la sentenza del 1° giugno 2017, Giesbert e altri c. Francia (ricc. 68974/11, 2395/12 e 76324/13), par. 93.
[17] Per una valutazione opposta a quella da noi sostenuta, seppure con riferimento alla pronuncia Bédat, si veda M. Cuniberti, op. cit., 5 ss., secondo il quale «Rispetto a quanto si è visto con riguardo all’apprezzamento dell’interesse pubblico, si riscontra quindi una sorta inversione: mentre si pretende dal giornalista la prova dell’idoneità dell’articolo a contribuire ad un dibattito pubblico, per contro le autorità statali sono esonerate dall’offrire una puntuale dimostrazione dell’idoneità dell’articolo incriminato a incidere sulla presunzione di innocenza dell’imputato». Ad avviso dello studioso «il combinato disposto di questa duplice inversione dell’onere della prova segna una certa discontinuità rispetto al favor per la libertà di manifestazione del pensiero che ha caratterizzato passate stagioni della giurisprudenza di Strasburgo».
[18] V. supra, nota n. 11.
[19] Il rischio del “trial by newspapers” è stato evidenziato sin dalla sentenza Sunday Times c. Regno Unito (ric. 6538/74) depositata il 26 aprile 1979 in cui la Corte ha riconosciuto di avere un potere di accertamento al fine di garantire la libertà di stampa, chiarendo di non condividere la posizione dei giudici inglesi in ordine alla prevalenza delle esigenze della giustizia rispetto alla libertà di espressione. In particolare, «The Court is faced not with a choice between two conflicting principles but with a principle of freedom of expression that is subject to a number of exceptions which must be narrowly interpreted» (par. 65).
[20] Il testo è reperibile nel sito http://www.coe.int.
[21] Si veda il documento discusso dall’Assemblea generale l’8 settembre 2015, A/70/361, nel sito http://www.un.org.
[22] In GUUE L65, 11 marzo 2016, 1 ss. La direttiva deve essere recepita entro il 1° aprile 2018.
[23] Il testo (P8_TA(2017)0402) è reperibile nel sito http://www.europarl.europa.eu. Al par. 44 è precisato che «i giornalisti investigativi e la stampa indipendente esercitano una professione spesso solitaria di fronte alle numerose pressioni che possono subire e che è pertanto essenziale proteggerli da ogni tentativo di intimidazione».