Corte di cassazione, sez. VI penale, 20 novembre 2024 (dep. 13 gennaio 2025), n. 1269
In tema di acquisizione della messaggistica istantanea mediante screenshot, la polizia giudiziaria ha il dovere di procedere al sequestro del telefono senza poter accedere al suo contenuto, prima di ottenere una formale autorizzazione da parte del pubblico ministero, anche se l’indagato abbia fornito il proprio consenso dopo l’avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il caso. – 3. La decisione della Corte di cassazione. – 3.1. La nozione di corrispondenza. – 3.2 I limiti all’acquisizione delle chat. – 3.3. Esclusione dell’atipicità probatoria. – 4. Osservazioni conclusive.
- Introduzione
Con la sentenza in commento la Corte di cassazione si è pronunciata sul tema della acquisizione mediante screenshot delle chat archiviate nello smartphone dell’indagato, segnando un ulteriore passo avanti nella tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle correlate garanzie difensive. Trattasi di un tema di sicura attualità e rilevanza nel nostro sistema, in ragione dell’uso sempre più frequente e diffuso della messaggistica istantanea, nonché del significativo contributo che essa può fornire all’accertamento processuale penale. L’intervento dei giudici di legittimità riveste particolare interesse, poiché pone forti limiti all’attività di acquisizione della polizia giudiziaria, riconoscendo l’importanza di assicurare adeguate tutele all’indagato durante lo svolgimento degli atti investigativi.
- Il caso
Il caso sottoposto all’attenzione della Corte concerne un imputato condannato per il reato di cui agli artt. 81 c.p. e 73, c. 5, T.U. Stup., con sentenza emessa all’esito di giudizio abbreviato dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto. La pena inflitta è stata ridotta dalla Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, a un anno e sei mesi di reclusione ed euro 1.800,00 di multa.
Tra gli elementi valorizzati ai fini della condanna, vi era il possesso di trenta dosi di sostanza stupefacente del tipo cocaina, suddivisa in più involucri, il rinvenimento sulla persona dell’indagato di banconote di piccolo taglio “accartocciate”, nonché l’assenza di redditi da lavoro compatibili con le disponibilità economiche necessarie per l’acquisto di una cospicua provvista di sostanza stupefacente. Inoltre, il G.i.p. aveva ritenuto utilizzabili i contenuti di talune chat WhatsApp estratte dal telefono dello stesso imputato, mediante un rilievo fotografico (c.d. screenshot) operato dalla polizia giudiziaria dopo il rinvenimento della sostanza stupefacente nascosta dall’indagato sulla sua persona. Nello specifico, la polizia giudiziaria aveva ottenuto il consenso ad accedere allo smartphone dell’imputato tramite la password fornita dallo stesso nel corso della perquisizione e del conseguente sequestro della sostanza stupefacente, senza avvisarlo della facoltà di farsi assistere da un difensore, oltre che del diritto di non prestare il consenso a tale accesso.
L’imputato, tramite il proprio difensore di fiducia, proponeva ricorso per cassazione, lamentando, tra le altre cose e per quanto qui di interesse, l’inutilizzabilità c.d. patologica degli screenshot delle chat estratte dal proprio telefono cellulare, in quanto acquisite con modalità illegittime, in violazione dei diritti di difesa, pure a seguito di perquisizione e conseguente sequestro anch’essi, a suo dire, illegittimi per omissione dell’avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore. Rappresentava, inoltre, la decisività di tali elementi di prova per l’accertamento della destinazione allo spaccio della sostanza stupefacente sequestrata e chiedeva, di conseguenza, l’annullamento della condanna.
- La decisione della Corte di cassazione
La Corte ha rigettato il ricorso, ritenendolo nel suo complesso infondato. Tuttavia, ha ritenuto fondate le questioni eccepite dal ricorrente in relazione alla inutilizzabilità delle chat estrapolate dal telefono in suo possesso, pur considerando il motivo di ricorso non meritevole di accoglimento, sotto il profilo della c.d. prova di resistenza. A tal proposito, i giudici di legittimità hanno ricordato il consolidato principio in base al quale qualora con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, «il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento»[1]. Nel caso di specie, la prova della destinazione della sostanza stupefacente allo spaccio emergeva comunque dalle altre risultanze legittimamente acquisite ai fini della decisione, come già rilevato nella sentenza dal giudice di primo grado; nessuna giustificazione del possesso della sostanza stupefacente è stata peraltro fornita dall’imputato nel corso del giudizio. A parere della Corte, anche la perquisizione e il conseguente sequestro della sostanza sono da ritenersi legittimi, benché la perquisizione non sia stata preceduta dall’avviso del diritto ad essere assistito da un difensore. Sul punto, la Suprema Corte ricorda, richiamando alcuni precedenti[2], che la perquisizione per la ricerca di sostanze stupefacenti ai sensi dell’art. 103 T.U. Stup. ha carattere speciale rispetto alla disciplina generale dei mezzi di ricerca della prova: poiché essa non presuppone l’esistenza di una notizia di reato, non occorre la preventiva autorizzazione dell’autorità giudiziaria, né che la persona sottoposta a controllo sia avvisata del diritto all’assistenza di un difensore. Minori garanzie si giustificano sulla base dell’esigenza di contrastare talune forme di criminalità, che rende opportuna «l’attribuzione alla polizia giudiziaria di poteri più ampi rispetto a quelli codificati»[3]. Ad ogni modo, osservano i giudici di legittimità, il sequestro del corpo del reato, quale la sostanza stupefacente rinvenuta in possesso dell’imputato, è da ritenersi legittimo «perché, costituendo un atto dovuto, rende del tutto irrilevante il modo con cui ad esso sia pervenuti»[4].
3.1 La nozione di corrispondenza
Fatte queste brevi premesse, la Corte di cassazione passa ad esaminare la questione dedotta con riferimento all’inutilizzabilità delle chat, fornendo un chiaro contributo su un tema recentemente molto dibattuto. In primo luogo, richiama la recente sentenza della Corte costituzionale n. 170/2023[5], ritenendo i principi da essa sanciti applicabili anche nel caso di specie. Come si ricorderà, con tale pronuncia la Consulta ha esteso le garanzie di salvaguardia del diritto alla riservatezza dei dati archiviati sulla memoria di un telefono cellulare, attraverso il riconoscimento della natura di corrispondenza anche alle comunicazioni non più in itinere ma acquisite dopo la ricezione da parte del destinatario. In particolare, si è osservato come in tale nozione debbano ricomprendersi altresì i messaggi WhatsApp, anche dopo che siano stati ricevuti e letti, qualora conservati nella memoria del dispositivo elettronico del destinatario o del mittente. Del resto, «quello di “corrispondenza” è concetto ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza»[6]. Ne consegue che la garanzia di cui all’art. 15 Cost., che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, consentendone la limitazione soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria, si estende «a ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini educativi, compresi quelli elettronici e informatici» e rimane valida anche dopo che la comunicazione è giunta a conoscenza del destinatario, finché conservi carattere di attualità. La menzionata pronuncia rappresenta un’indubbia svolta in materia, dal momento che ha fornito un’interpretazione del concetto di “corrispondenza” certamente più adeguata all’impatto delle tecnologie sulla vita individuale e collettiva della persona[7]. Vale la pena ricordare infatti che prima dell’intervento della Corte costituzionale, la giurisprudenza della Corte di cassazione riteneva, in termini opposti, in misura pressoché unanime, che i messaggi Whatsapp e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare dovessero essere considerati documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p. o, al più, documenti informatici con conseguente applicazione dell’art. 234-bis c.p.p. e che, dunque, non rientrassero nel concetto di “corrispondenza”, «implicando tale nozione un’attività di spedizione in corso o comunque avviata al mittente mediante la consegna del plico a terzi per il recapito»[8]. Si escludeva, dunque, che per la loro acquisizione dovessero applicarsi sia le disposizioni in materia di intercettazioni, le quali esigono la captazione di un flusso di comunicazioni in atto, sia quelle relative al sequestro di corrispondenza, proprio in considerazione della impossibilità di ritenere tale materiale rientrante nella nozione di corrispondenza[9]. Peraltro, tali principi sono stati applicati anche dalle Sezioni Unite civili della Cassazione che, ai fini dell’accertamento dei fatti nell’ambito di procedimenti disciplinari a carico di magistrati, hanno sancito la legittimità dell’acquisizione di messaggi WhatsApp conservati nella memoria di un telefono cellulare mediante mera riproduzione fotografica (screenshot), anche da parte della polizia giudiziaria.
Diversamente, a parere della Consulta, ai fini del riconoscimento delle garanzie previste dall’art. 15 Cost., ciò che rileva è la natura comunicativa del contenuto e non le tecniche di acquisizione dello stesso, che possono essere diverse a seconda delle modalità con le quali viene trasmesso e rinvenuto[10]. La Corte di cassazione, nella pronuncia in commento, rileva come, in virtù di queste considerazioni, «anche la messaggistica archiviata nei telefoni cellulari non può più essere considerata alla stregua di un mero documento, liberamente acquisibile senza la garanzia costituzionale prevista dall’art. 15 Cost., ma richiede l’assoggettamento alla disciplina dell’art. 254 cod. proc. pen. che impone la necessità di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, necessariamente motivato al fine di giustificare il sacrificio della segretezza della corrispondenza»[11]. Pertanto, è da escludersi la «possibilità di accesso diretto» da parte della polizia giudiziaria, alla quale è riconosciuto il solo potere di «acquisire materialmente il dispositivo elettronico ma senza accesso diretto al suo contenuto, analogamente a quanto previsto per l’invio della corrispondenza postale dall’art. 254, comma 2, cod. proc. pen., e fermo quanto disposto dall’art. 353 cod. proc. pen. sull’apertura dei plichi o di corrispondenza con l’autorizzazione del pubblico ministero quando ciò sia necessario per l’assicurazione di elementi di prova che potrebbero andare persi a causa del ritardo».
3.2 I limiti all’acquisizione delle chat
Con riguardo ancora alla censura della inutilizzabilità delle chat estratte dalla polizia giudiziaria, ulteriore questione su cui la Corte si è pronunciata riguarda il ruolo del consenso dell’indagato all’acquisizione degli screenshot dal proprio telefono cellulare. Ci si interroga, in particolare, se il consenso, pur liberamente prestato dall’indagato, possa ritenersi sufficiente per l’accesso (da parte della polizia giudiziaria) ai contenuti del telefono, in assenza di un provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria, di autorizzazione preventiva o di convalida successiva all’atto di indagine posto in essere in totale autonomia dalla polizia giudiziaria. A tal proposito, i giudici di legittimità osservano innanzitutto che ove l’attività sia svolta, come nel caso di specie, nei confronti di un soggetto, già gravato da elementi indiziari tali da giustificare l’acquisizione della posizione di indagato[12], ogni ulteriore atto di indagine che richieda la collaborazione della persona indagata deve essere espletato «dopo la formale comunicazione degli avvisi di tutte le facoltà difensive ad essa spettanti, ivi compresa quella della facoltà di rifiutare tale collaborazione ed il diritto ad essere assistito da un difensore, espressamente previsto dal combinato disposto degli artt. 356 cod. proc. pen. e 114 disp. att. cod. proc. pen. non solo per le perquisizioni e sequestri (art. 352 e 354, stesso codice), ma anche per l’apertura della corrispondenza (ex art. 353 cod. proc. pen.)». Inoltre, la Corte rileva che già il giudice di primo grado aveva escluso la possibilità di qualificare come spontanee le dichiarazioni confessorie rese dall’indagato nel medesimo contesto, proprio sulla scorta del condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità che sancisce l’assoluta inutilizzabilità, anche pro reo, se non ai soli fini della immediata prosecuzione delle indagini secondo quanto previsto dall’art. 350, commi 5 e 6, c.p.p., delle dichiarazioni rese dall’indagato nell’immediatezza dei fatti su “sollecitazione” dalla polizia giudiziaria, in assenza del «previo avviso circa la facoltà di esercitare il diritto al silenzio» e della «presenza del difensore»[13].
In secondo luogo, i giudici di legittimità affermano che il consenso dell’indagato, anche se fosse stato reso dopo l’avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore, non avrebbe comunque potuto supplire alla carenza di un provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria: resta, infatti, «imprescindibile, onde prevenire il rischio di abusi, che in situazioni del genere la polizia giudiziaria abbia il dovere di procedere al sequestro del telefono senza poter accedere al suo contenuto, prima di una formale autorizzazione da parte del pubblico ministero, in applicazione della disciplina processuale […] relativa all’apertura della corrispondenza (vedi art. 353 cod. proc. pen.)».
3.3 Esclusione dell’atipicità probatoria
Da ultimo, la Cassazione critica la ricostruzione fornita nel giudizio di merito dalla Corte d’appello, secondo cui l’acquisizione dei contenuti delle chat sarebbe avvenuta attraverso un’attività di acquisizione alternativa da parte della polizia giudiziaria, qualificabile come «legittima assunzione di una prova atipica». A parere dei giudici di legittimità, non può giungersi a tale conclusione, in quanto contrastante con il principio, già affermato in precedenza dalla medesima Corte[14], secondo il quale «non è consentito alla polizia giudiziaria, in un sistema rigorosamente ispirato al principio di legalità, scostarsi dalle previsioni legislative per compiere atti atipici i quali, permettendo di conseguire risultati identici o analoghi a quelli conseguibili con gli atti tipici, eludano tuttavia le garanzie costituzionali dettate dalla legge per questi ultimi». Per comprendere questo approccio, occorre ricordare che la polizia giudiziaria, ai sensi dell’art. 348 c.p.p., è abilitata a compiere attività di indagine tipica[15], ma anche atti investigativi atipici, dovendo raccogliere «ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole» (art. 348, c. 1, c.p.p.). Precisamente, l’atipicità investigativa trova fondamento nelle disposizioni del Libro V del codice di rito, che attribuiscono al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria il potere di svolgere, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, «le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale» (art. 326 c.p.p.)[16]. Come è noto, sono però previsti specifici limiti, a pena di inutilizzabilità della prova, alle operazioni atipiche, i quali sono tracciati dai profili di tassatività del catalogo legale dei mezzi investigativi; restano inoltre fermi i criteri di cui all’art. 189 c.p.p. nonché il rispetto dei diritti fondamentali dell’indagato, la cui limitazione è consentita solo nei casi e nei modi previsti dalla legge e con atto motivato dell’autorità giudiziaria (art. 13 Cost.). Ed ecco che un profilo di tassatività del catalogo dei mezzi di ricerca della prova è rinvenibile proprio nella disciplina relativa all’acquisizione di plichi o di corrispondenza di cui all’art. 353 c.p.p., la cui applicazione è richiamata dalla Corte nel caso di specie per affermare il dovere della polizia giudiziaria di procedere al sequestro del telefono senza accedere al suo contenuto, prima di una formale autorizzazione del pubblico ministero[17]. Tale norma garantisce, del resto, la libertà e la segretezza delle comunicazioni, prevedendo modalità assuntive tipiche della prova che non lasciano spazio a deroghe. Nello specifico, essa sancisce il dovere della polizia giudiziaria di a) procedere al sequestro senza prendere conoscenza del contenuto; b) procedere al sequestro e, soltanto a seguito di autorizzazione del p.m., accedere al contenuto, previo avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore, a pena di nullità ex art. 178 c.p.p.
- Osservazioni conclusive
La pronuncia in commento, come si anticipava, ha evidentemente il merito di porre dei significativi limiti all’attività svolta dalla polizia giudiziaria nei confronti di persona sottoposta alle indagini, operando un bilanciamento tra esigenze di acquisizione della prova e garanzie di riservatezza ex art. 15 Cost. L’orientamento della Corte di cassazione appare coerente non solo con la più recente giurisprudenza costituzionale, ma anche con i principi sanciti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea che, pronunciatasi in tema di accesso ai dati contenuti in un telefono cellulare, ha precisato proprio la necessità dell’autorizzazione dell’autorità giudiziaria e la conseguente inutilizzabilità degli screenshot della messaggistica contenuta nel dispositivo eseguiti dagli agenti di polizia[18]. Peraltro, i giudici di legittimità operano un ulteriore passo avanti anche rispetto a quanto osservato in un recente precedente con il quale, in presenza di una fattispecie analoga, con un iter motivazionale sviluppatosi secondo i già richiamati principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 170/2023, avevano ritenuto fondata l’eccezione di inutilizzabilità patologica sollevata dal ricorrente, in ragione della loro natura di corrispondenza, dei messaggi WhatsApp acquisiti mediante screenshot dal telefono cellulare dell’indagato, eseguiti dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa e senza ragioni di urgenza, in assenza di decreto di sequestro del pubblico ministero[19]. Difatti, nella sentenza in esame la Cassazione ha affermato che neppure il consenso del titolare del dispositivo, già gravato da elementi indiziari tali da giustificare l’acquisizione della qualità di persona sottoposta alle indagini, anche qualora sia stato prestato liberamente e dopo l’avviso della facoltà di essere assistito da un difensore (che peraltro, come si è detto, è stato omesso nel caso di specie), può supplire alla carenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria. Diversamente, in simili ipotesi, ove si debbano acquisire i contenuti delle chat archiviate nel telefono dell’indagato, la polizia giudiziaria, in applicazione della disciplina processuale relativa all’apertura di corrispondenza, ha il dovere di procedere al sequestro del telefono senza accedere al suo contenuto, prima di una formale autorizzazione da parte del pubblico ministero. Del resto, è noto che, sebbene i messaggi conservati all’interno dei dispositivi mobili costituiscano sicuramente uno strumento di notevole valore per la ricostruzione dei fatti nella prospettiva processuale penale, l’accesso incontrollato ai contenuti di un telefono cellulare costituisce un’«ingerenza grave»[20] nei diritti fondamentali della persona interessata e deve essere, pertanto, tutelato attraverso il riconoscimento di adeguate garanzie.
È opportuno, infine, mettere in luce un ultimo aspetto, già in più occasioni evidenziato in dottrina, su cui tuttavia la pronuncia non si è soffermata, relativo ai problemi probatori che discendono dall’acquisizione nel processo penale di screenshot delle chat in assenza del sequestro del dispositivo fisico. È noto, del resto, come, in mancanza del dispositivo-contenitore, la riproduzione fotografica di uno screenshot o di un messaggio WhatsApp non assicuri con certezza l’identità del mittente, del destinatario, né tantomeno del contenuto del messaggio, integrando una prova di dubbia attendibilità in quanto facilmente suscettibile di alterazioni[21]. Eppure, dal riconoscimento della natura di prova documentale della messaggistica WhatsApp la giurisprudenza di legittimità faceva discendere l’utilizzabilità dei contenuti così acquisiti, anche in assenza del sequestro dell’apparecchio dal quale sono stati estratti[22]; la corrispondenza all’originale era asseverata dalla qualifica soggettiva dell’agente che effettuava la riproduzione[23]. Tale orientamento appare invero difficilmente condivisibile e si auspica che la pronuncia in commento ne segni il definitivo superamento.
Da ultimo, è bene rammentare che ancora oggi bisogna fare i conti con il difetto di una disciplina specifica che regolamenti i presupposti dell’acquisizione dei contenuti dei dispositivi elettronici. Come è noto, lo scorso 11 aprile è stata trasmessa alla Camera la proposta di legge, approvata dal Senato, recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia di sequestro di dispositivi, sistemi informatici o telematici o memorie digitali”. Essa prevede l’introduzione dell’art. 254-ter c.p.p., rubricato “Sequestro di dispositivi e sistemi informatici o telematici, memorie digitali, dati, informazioni, programmi, comunicazioni e corrispondenza informatica inviate e ricevute”, il quale, sulla scia della recente giurisprudenza in materia, si propone di attribuire al Giudice per le indagini preliminari il potere di disporre il sequestro dei supporti informatici, su richiesta del pubblico ministero, o il potere di convalida del sequestro disposto dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, su richiesta dello stesso pubblico ministero, nei casi d’urgenza, sancendo espressamente l’inutilizzabilità di tutte le acquisizioni che non rispettino le formalità prescritte. Senza addentrarsi in un’analisi della proposta di riforma[24] e nell’attesa di conoscere l’esito dell’iter legislativo, la disamina della pronuncia ci offre una nuova occasione per ribadire che soltanto una regolamentazione accurata della materia potrebbe – si spera – porre definitivamente fine a simili abusi.
[1] Cfr. par. 1 delle considerazioni in diritto.
[2] Il riferimento è a Cass. pen., sez. III, 9 febbraio 2011, n. 8097, CED 249545; Cass. pen., sez. III, 17 febbraio 2016, n. 19365, CED 266580.
[3] Così Corte cost., 21 ottobre 2020, n. 252, richiamata dalla pronuncia in esame.
[4] Così Cass. pen., sez. un., 27 marzo 1996, n. 5021, imp. Suraci, CED 204643.
[5] Corte cost., 7 giugno 2023, n. 170, con nota di P. Villaschi, La sentenza n. 170 del 2023: la Corte costituzionale chiarisce il perimetro della nozione di corrispondenza e torna sull’interpretazione della legge n. 140 del 2003, in questa Rivista, 2, 2023.
[6] Cfr., nuovamente, Corte cost., 7 giugno 2023, n. 170.
[7] In questi termini, G. M. Baccari, La Corte costituzionale torna a pronunciarsi sull’acquisizione dei messaggi WhatsApp, in Processo penale e giustizia, 4, 2024, 880. Si ricordi che i principi sanciti dalla menzionata sentenza della Corte costituzionale sono stati poi ribaditi dalla successiva sentenza n. 227 del 28 dicembre 2023 e che a distanza di meno di un anno la giurisprudenza costituzionale è stata richiamata dalle due sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite della Cassazione del 29 febbraio 2024 (n. 23755, imp. Gjuzi Ermal, CED 286573, e n. 23756, imp. Giorgi, CED 286589), che hanno fatto propria la definizione di “corrispondenza” fornita dalla Consulta anche con riguardo ai messaggi WhatsApp conservati nella memoria dei dispositivi mobili.
[8] Cass. pen., sez. III, 25 novembre 2015, n. 928, CED 265991; negli stessi termini v. anche, più recentemente, Cass. pen., sez. VI, 21 settembre 2023, n. 38678, con nota di M. Cecchi, Ancora una pronuncia di legittimità sull’utilizzabilità, come prova documentale, dei messaggi estrapolati da dispositivi mobili, in Penale Diritto e Procedura, 2023.
[9] Cfr. G. M. Baccari, La Corte costituzionale torna a pronunciarsi sull’acquisizione dei messaggi WhatsApp, cit., 881.
[10] A. Nocera, L’acquisizione delle chat whatsapp e messenger: intercettazione, perquisizione o sequestro?, in Il penalista, 2018.
[11] Cfr. par. 3 delle considerazioni in diritto.
[12] Nel caso di specie, la richiesta di accesso ai contenuti del telefono era infatti avvenuta soltanto dopo il rinvenimento della sostanza stupefacente nascosta dall’indagato sulla sua persona.
[13] Cass. pen., sez. II, 12 gennaio 2017, n. 3930, CED 269260.
[14] Cass. pen., sez. VI, 24 febbraio 2003, n. 13623, CED 224741.
[15] V. art. 348, c. 2, lett. c), c.p.p., secondo cui la polizia giudiziaria procede «tra l’altro» «al compimento degli atti indicati negli articoli seguenti», vale a dire attività identificative (art. 349 c.p.p.), sommarie informazioni (artt. 350 e 351 c.p.p.), perquisizioni (art. 352 c.p.p.), acquisizioni di plichi e corrispondenza (art. 353 c.p.p.), accertamenti urgenti e sequestro (art. 354 c.p.p.).
[16] In questi termini, M. Bontempelli, Le indagini preliminari, in Aa. Vv., Procedura penale, Torino, 2023, 499 ss.
[17] Cfr. par. 3 delle considerazioni in diritto.
[18] Il riferimento è a CGUE (Grande Camera), C-548/21, Tribunale amministrativo regionale del Tirolo (Austria) c. Bezirkshauptmannschaft Landeck (2024), in Archivio Penale (Web), che ha precisato le condizioni in presenza delle quali le autorità nazionali competenti possono accedere ai dati contenuti in un telefono cellulare per finalità di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento dei reati in generale, con riferimento alla Direttiva n. 2016/680.
[19] Cass. pen., sez. VI, 11 settembre 2024, n. 39548, in Processo Penale e Giustizia.
[20] Cfr. CGUE, C-548/21, cit.
[21] In questi termini, V. Filippi, Acquisizione di screenshot consegnato alla polizia giudiziaria: è un documento?, in Penale Diritto e Procedura, 2023; A. Vele, Aspetti critici del documento probatorio “screenshot” e acquisito mediante il captatore informatico, in Archivio penale (Web), 1, 2024; R. Del Coco, L’utilizzo probatorio dei dati whatsapp tra lacune normative e avanguardie giurisprudenziali, in Processo Penale e Giustizia, 3, 2018.
[22] Cass. pen., sez. II, 1° luglio 2022, n. 39529, in De Jure.
[23] Cass. pen., sez. I, 20 febbraio 2019, n. 21731, CED 275895.
[24] In argomento, si rinvia, ex multis, a S. De Flammineis, Le sfide della prova digitale: sequestri, chat, processo penale telematico e intelligenza artificiale, in Sistema penale, 2024; L. Tombelli, La tutela della corrispondenza tra atipicità della prova e tentativi di riforma, in Penale Diritto e Procedura, 2025.