Corte di Cassazione, sez. II penale, 7 novembre 2019, n. 11959
Il dipendente a cui è affidato un computer aziendale che, dopo aver effettuato una copia personale dei dati informatici ivi contenuti, lo restituisce all’azienda “formattato” e dunque privo di tali dati pone in essere una condotta che integra il reato di appropriazione indebita. Alla luce di un’interpretazione evolutiva, infatti, il dato informatico rientra nella nozione di “cosa mobile” contenuta nell’art. 646 c.p.: un file ha una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono, possiede un valore patrimoniale ed è inoltre suscettibile di essere trasferito da un luogo ad un altro. Pertanto, analogamente al caso del denaro, il dato informatico deve essere considerato quale una cosa mobile anche se in concreto manca il requisito della fisicità della sua detenzione.
Sommario: 1. La sentenza. – 2. Che cosa è una “cosa”. – 3. Parole, concetti, valori. – 4. Visibilia et invisibila. – 5. (inevitabili) funambolismi giurisprudenziali.
- La sentenza
La seconda sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11959, depositata il 10 aprile 2020 (udienza del 7 novembre 2019), ha affermato il principio in base al quale costituisce appropriazione indebita la definitiva sottrazione di dati informatici o file, mediante copiatura da un PC aziendale (di cui l’imputato aveva il possesso per motivi di lavoro) e la immediata, successiva cancellazione degli stessi dalla memoria del predetto computer (restituito al datore di lavoro con l’hard disk formattato). Ciò, in quanto i dati informatici possono essere definititi “cose mobili” ai sensi dell’art. 624, c. 2, c.p.[1]
Il ragionamento che la Corte sviluppa è lungo e articolato (e non sempre lineare). Esso prende le mosse dalla ricognizione della precedente giurisprudenza, ricordando l’indirizzo prevalentemente negativo e l’unico precedente positivo (sezione quinta, sentenza n. 32383/2015). I giudici di legittimità rilevano come lo stesso art. 624 c.p. consideri “agli effetti della legge penale” cosa mobile anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico; essi poi osservano, sotto altro verso, che, per quel che riguarda la sottrazione di denaro, non si è mai dubitato che essa possa avvenire senza riferimento alla “dimensione fisica” (le banconote), ma anche mediante operazioni bancarie o artifici telematici.
Molto si spende la Corte nella ricerca di un’accezione di “cosa mobile” che sia compatibile con (scil: che possa includere) la realtà telematica, osservando che nel concetto di “cosa” sembra implicita la dimensione della fisicità strutturale e le conseguenti possibilità di misurarne le dimensioni e di realizzarne il trasferimento “fisico” da un luogo all’altro. A prima vista, queste sembrerebbero caratteristiche non rinvenibili in un file. Da qui problemi di legalità e tassatività circa la estensione del concetto di “cosa mobile” e – conseguentemente – di applicabilità, nel caso in esame, dell’art. 646 c.p. (e, più in generale, della possibilità di inquadrare le condotte di sottrazione di file e di altre res telematiche nella categoria dei delitti contro il patrimonio).
Fatta questa premessa, i giudici di legittimità osservano tuttavia che i dati informatici occupano una porzione di memoria nell’elaboratore. Non si può dunque negare ad essi una “dimensione fisica”, anche se non percepibile sensorialmente. Insomma il file è misurabile (a seconda della porzione di memoria che impegna), anche se non visibile e/o tangibile.
Resta il problema della tassatività e determinatezza[2] che deve caratterizzare il precetto penale, problema che la seconda sezione affronta e supera con il conforto di numerose pronunzie della Corte costituzionale, osservando, sulla base di esse, che, quando il legislatore penale, nella descrizione di una fattispecie, fa riferimento ad altre fonti giuridiche o al linguaggio comune, non viola il principio di legalità, anche se la fonte sia stata innovata o la le parole abbiano subìto la loro naturale evoluzione, che può anche aver dato luogo a un ampliamento del loro campo semantico, purché rimangano fermi ed intellegibili “gli estremi costitutivi della fattispecie” (Corte cost., n. 414/1995).
- Che cosa è una “cosa”
La pronunzia della seconda sezione riveste indubbiamente notevole rilievo perché sviluppa una articolata riflessione in ordine a una problematica che non può più essere ignorata o elusa (e che di fatto da tempo impegna la giurisprudenza e la dottrina): quella dell’adattamento di categorie giuridiche e di schemi logici preesistenti alla realtà informatica, al novum che, ormai da non pochi anni, ha prepotentemente cambiato il mondo della comunicazione e, di riflesso, i rapporti interpersonali ed interistituzionali.[3]
Ma se la conclusione cui la Corte perviene ci sembra del tutto condivisibile, qualche perplessità desta il percorso argomentativo che la sentenza esibisce.
Invero detto percorso si può così sintetizzare: a) l’appropriazione indebita si esercita sulla cosa mobile altrui, b) la “cosa” è sempre e solo una realtà fisica, cui, per volontà del legislatore penale, è equiparata l’energia elettrica e qualsiasi altra energia che abbia un valore economico, c) il file, anche se non si vede e non si tocca, ha una sua fisicità perché occupa uno spazio all’interno di un elaboratore, d) il file deve ritenersi sottratto solo quando l’agente, dopo averlo abusivamente copiato, distrugga la versione sulla quale ha eseguito la copia, perché in ciò consiste, nel caso di specie, il requisito dello spossessamento in danno della vittima del reato.
Ebbene, il punto sub b) – e il conseguente “rimedio” sub c) – non appaiono convincenti.
L’art. 812 c.c. pone la summa divisio tra beni immobili e beni mobili e, dopo aver definito i primi, afferma, al terzo comma, “sono mobili tutti gli altri beni”. I beni mobili vengono quindi individuati per residualità; in tal modo nessun bene resta inclassificato. Questo horror vacui del legislatore ha ovviamente una sua spiegazione razionale: non lasciare senza copertura giuridica le “cose” (usa esattamente questo termine l’art. 810 c.c.) che possano “formare oggetto di diritti”.
Dunque le cose (mobili ed immobili) vanno considerate beni quando potenzialmente su di esse qualcuno possa accampare ed esercitare diritti. Ma cosa sia una cosa il codice non lo chiarisce e, dunque, non afferma affatto che sia “cosa” solo la res extensa di cartesiana memoria.
Vale la pena di osservare che la divisio rerum per il maturo diritto romano si articolava in res corporales e incorporales, le prime essendo quelle che tangi possunt, le seconde quelle che tangi non possunt. Il tatto era, pertanto, il senso privilegiato perché la corporeità era solo delle cose che si possono toccare. E tra le cose intangibili (e quindi incorporali) Gaio enumerava l’eredità, l’usufrutto, le obbligazioni[4]; dunque non solo diritti, ma anche universitates juris, comprendenti diritti e cose (corporali), unitariamente considerati.
La dottrina più recente[5] ha poi sostenuto che, nel vigente ordinamento, il concetto giuridico di cosa si estende anche alle «altre entità giuridiche che non si possono annoverare tra le cose corporali» e che «cose in senso giuridico sono quegli oggetti che, nell’esperienza e nel linguaggio comuni, si designano con quel sostantivo, purché presentino una rilevanza per il diritto, e le energie naturali captate dall’uomo»[6].
Ed è questo il punto: l’esperienza e il linguaggio.
Ed il file, in base al linguaggio odierno e, ancor più, all’esperienza contemporanea, può essere definito un bene, cioè una cosa in senso giuridico, ad onta della sua sfuggente corporeità?
- Parole, concetti, valori
Per rispondere a tale domanda la Corte di legittimità si avventura per una strada lunga e non del tutto rettilinea, punteggiata di citazioni della giurisprudenza costituzionale, che non sempre appaiono in linea con il percorso scelto. Infatti le sentenze evocate si esprimono, non solo sul principio di tassatività, che, come è noto, si risolve nel divieto – per il giudice penale – di «estendere la disciplina delle norme incriminatrici oltre i casi in esse espressamente previsti»,[7] ma anche (e principalmente) sul principio di determinatezza, che riguarda innanzitutto il legislatore e di riflesso l’interprete, in base al quale le norme incriminatrici devono essere formulate in maniera quanto più è possibile netta ed inequivoca, con la precisa descrizione della condotta vietata.
Fatta questa (non breve) premessa, la seconda sezione va alla ricerca degli “indicatori di corporeità” del file, che, come premesso, individua nel fatto che esso occupa spazio nella memoria informatica, cosa che, conseguentemente, lo rende misurabile, anche se non si può né vedere, né – tantomeno – toccare. Dunque una nuova corporeità, una corporeità non tattile (che, per tanto, non avrebbe incontrato il favore di Gaio).
Ma, a tal punto, la lunga premessa “costituzionale” non ha grande incidenza sulle conclusioni cui giunge l’estensore. Se comunque il file è connotato da “fisicità strutturale”, tanto per esprimersi come la Corte, allora esso rientra pacificamente nel novero degli oggetti sui quali solo (secondo la sentenza) si può esercitare l’apprensione ai sensi dell’art. 646 c.p.
E tuttavia, a nostro parere, ritenere che il file o un qualsiasi dato informatico sia un oggetto fisico, sia pure sui generis, rappresenta un’affermazione arbitraria e, secondo noi, non corretta. Né la “misurabilità” del file può essere considerata sintomo della sua corporeità, atteso che si misura la distanza intercorrente, appunto, tra due corpi; ma il problema, nel nostro caso, sono i corpi, non la loro distanza. Il quesito è che cosa esprime la misura (rectius: la dimensione) di un file? In sintesi: un file ha una dimensione, ma non ha un corpo, inteso in senso tradizionale. La sua misurabilità è tutta interna al sistema informatico. Il fatto è che la misura è un concetto di relazione, non una prova di esistenza. Essa presuppone l’esistenza di un qualcosa che, appunto, ha una estensione. E non si esce da questo rompicapo se non si ammette che i dati informatici sono altro rispetto a una res extensa.
Che cosa sia ontologicamente un file non è facile a dirsi (ammesso che sia utile). Il fatto è che la realtà informatica fuoriesce dagli schemi che, fino a qualche tempo fa, sembravano stabili, se non immutabili, costituendo un tertium genus tra il corporeo e l’incorporeo, di cui, a volte, si è accorto il legislatore; più spesso se ne sono dovuti occupare la dottrina[8] e la giurisprudenza.
A titolo di mero esempio, in campo penale, può essere ricordato l’art. 491-bis c.p., relativo ai documenti informatici, equiparati in tutto e per tutto a quelli cartacei. Ed è istruttivo seguire, al proposito, la evoluzione della norma, atteso che, in una prima versione, introdotta dalla legge n. 547/1993[9], il documento informatico veniva identificato col suo supporto «contenente dati o informazioni aventi efficacia probatoria o programmi specificamente destinati ad elaborarli». Ebbene, con successivi interventi legislativi (da ultimo il d.lgs. 7/2016, art. 2, c. 1, lett. a), il testo è stato riformulato ed è scomparso qualsiasi riferimento al supporto, vale a dire alla dimensione fisica del documento, che dunque “vive” nella memoria dell’elaboratore in attesa di una sua (eventuale) epifania cartacea. Il diritto penale dunque reprime anche le falsità in atti relative a “scritture incorporee”. Sarebbe allora scandaloso ipotizzare che esso sia applicabile anche nel caso di indebita appropriazione di tali dati?
Si diceva prima (e qui sì che la giurisprudenza costituzionale citata in sentenza può giocare un suo ruolo chiarificatore) che la norma, anche quella incriminatrice, opera rinvio, nella sua parte descrittiva, tanto alla esperienza, quanto al linguaggio che la rispecchia. Invero, nel descrivere una condotta, il legislatore può far riferimento sia ad «elementi normativi giuridici che richiamano altre norme giuridiche ben individuabili e determinate nel loro contenuto [sia ad]elementi elastici: elementi non astrattamente tipizzati a priori dal legislatore, che esprimono una realtà quantitativa o temporale abbastanza circoscritta»[10].
In fin dei conti, le norme sono fatte di parole e le parole esprimono concetti, descrivono fatti e situazioni, incorporano valori. Il rapporto tra norma giuridica e linguaggio è dunque stretto, anzi consustanziale e ciò pone il problema del mutamento del significato delle parole, mutamento che si può anche esprimere in un ampliamento o una riduzione dei campi semantici o in un loro stravolgimento. E su ciò incide l’esperienza: comune, scientifica e tecnica.
E qui bisogna operare una distinzione. Una cosa è il mutamento della percezione sociale di un concetto, come nell’abusato esempio del comune senso del pudore, altra cosa è ciò che si è appena definito “ampliamento del campo semantico” di una parola, ampliamento che, sempre più frequentemente, avviene in conseguenza dei mutamenti che la tecnologia apporta nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, fino ad una certa epoca, con il termine “spettacolo”, si intendeva il teatro, l’opera lirica, il circo ecc. Successivamente il medesimo termine ha incluso il cinema, la televisione e tutto un mondo di immagini variamente veicolate. Siamo quindi di fronte a una sorta di rinvio, non recettizio, ma dinamico, che segue da vicino l’evoluzione della lingua, specchio fedele della società.
Il progresso scientifico-tecnologico ha, dunque, “allargato” il vocabolario.
Di tanto si è resa conto per tempo – come giustamente nota il giudice di legittimità – la Corte costituzionale che già dagli anni ’60 riteneva compatibile, entro certi limiti, una descrizione della fattispecie penale non completamente dettagliata, nella quale potevano trovare ospitalità anche espressioni «indicative, esemplificative, estensive»[11], ovvero riteneva non incompatibile con la struttura della norma penale il rinvio a nozioni «proprie dell’intelligenza comune»[12].
Cosi, ad esempio, accanto a norme quali quelle degli artt. 644 o 416-bis c.p. che definiscono la soglia oltre la quale gli interessi devono considerarsi usurari o le caratteristiche che una struttura criminale deve avere per essere considerata mafiosa, coesistono fattispecie come quelle di cui agli artt. 423, 428 e 613-bis del medesimo codice che non specificano che cosa debba intendersi per incendio, per naufragio o per tortura, affidandosi alla comune accezione ed al significato “sociale” del termine. E, mentre un incendio o un naufragio sono tali oggi come nell’antichità, il concetto di tortura può ampliarsi anche in ragione della “scoperta” ed adozione di nuovi e più raffinati strumenti o metodi per indurre sofferenza.
Con l’avanzare degli anni e con il trionfo delle tecnologia, il giudice delle leggi si è ancora di più espresso in relazione alla ammissibilità di norme “aperte”, che tengano cioè conto dei rapidi e continui progressi in tal campo[13], così “salvando” i principi di tassatività e determinatezza con riferimento al diritto vivente e all’ovvia metodica della interpretazione sistematica, integrata e teleologica, in base alla quale vocaboli polisensi, espressioni sommarie, concetti elastici acquistano (maggior) concretezza e precisione[14].
Il fatto è che la legge penale, nel rinviare al linguaggio comune o tecnico, più che alla specie, finisce per far riferimento al genere (le armi, la sostanza stupefacente ecc.). Conseguentemente, quando interviene un mutamento tecnico-scientifico, che arricchisce quel genere di una nuova specie (la realizzazione di un’arma di diverso tipo, l’immissione sul mercato di una droga, fino ad allora sconosciuta ecc.), la “copertura normativa” del novum non sembra porsi in contrapposizione con i ricordati principi di determinatezza e tassatività.
È da chiedersi tuttavia se tale “meccanismo di inclusione” possa essere accettato anche quando il genere di riferimento ha un carattere quasi “ecumenico”, come nell’ipotesi in cui il testo normativo si riferisca alle “cose” o ai “beni”. Invero “cosa” è nome comune (e generico), il cui significato muta a seconda del contesto comunicativo nel quale è inserito; e dunque si va dalla kantiana Ding an sich, la cosa in sé, il noumeno, all’uomo misura di tutte le cose, alle cose di tutti i giorni, fino a “cosa nostra”. E tuttavia, in un panorama pur tanto vasto, restringendo l’accezione al campo del diritto, si può senza dubbio dire, in base ai testi normativi civilistici che si sono prima citati, che “cosa” è una componente del mondo esterno, atta a un vantaggioso utilizzo, che possa essere oggetto di appropriazione (ecco!) da parte dell’uomo. In sintesi: cosa come un quid rilevante giuridicamente, che, presentando un profilo di utilità, può essere definita, in senso giuridico, “un bene”[15].
E allora, nel nostro caso, la questione si riduce alla domanda se il file, connotato come è dalla sua natura equivoca tra corporeità e incorporeità, possa essere definito “cosa”, non in base a quello che a noi sembra un paralogismo, vale a dire l’ancoraggio della sua pretesa corporeità alla misurabilità, ma in base alla ricordata “apertura” della norma che consente all’interprete – senza violare alcun tabù costituzionale – di prendere atto dell’implicito ampliamento semantico (conseguente all’evoluzione tecnologica) del termine “cosa”, come utilizzato dal diritto penale.
D’altronde, lo stesso legislatore, includendo tra le cose mobili l’energia, ha dato una chiara indicazione nel senso del superamento di una concezione decisamente arcaica dei beni e delle cose, mentre, sotto altro verso, la giurisprudenza non ha dubitato che ci si potesse appropriare di “cose” come l’acqua corrente, non certo immateriale, ma – come del resto il denaro – mutevole nella sua concreta identificazione.[16]
- Visibilia et invisibilia
Orbene, in base ad una rapida (e sommaria) ricognizione della giurisprudenza, si può affermare che, da tempo, è stato superato il limite dalla stretta corporeità quando si è trattato di affrontare casi legati alla c.d. criminalità informatica ed è stata proclamata, apertis verbis, la inclusione dei dati informatici tra le cose in senso giuridico.
Può innanzitutto essere ricordata la equiparazione del giornale on line al giornale cartaceo ad opera delle Sezioni unite nel 2015 (sentenza n. 31022), per negarne la sequestrabilità, alla luce della estensione della normativa sulla stampa tradizionale. Ma ancora maggior rilievo ha la medesima sentenza nella parte in cui si occupa, viceversa, del sequestro di un semplice sito web (non equiparabile quindi al giornale on line), sequestro che, dovendo cadere su di un quid smaterializzato, non può avvenire con le modalità tradizionali (apprensione della cosa, apposizione di sigilli ecc.), ma si deve attuare con quelle modalità tecniche atte ad inibire l’accesso di terzi al sito e dunque attraverso l’oscuramento di una risorsa elettronica, ai sensi degli artt. 14, 15 e 16 del d. lgs. 70/2003, in quanto «la equiparazione dei dati informatici alle cose in senso giuridico [testuale nella massima ufficiale n. 264089]consente di inibire la disponibilità delle informazioni in rete e di impedire la protrazione delle conseguenze dannose del reato».
Del resto, l’impiego del mezzo informatico ha apportato altri significativi mutamenti nell’assetto della giurisprudenza penale, mutamenti connaturati alle stesse modalità di utilizzo del mezzo e della organizzazione della diffusione in rete delle notizie. Così, ancora a titolo meramente esemplificativo, si può rilevare come la Suprema Corte abbia finito per ammettere, sia pure implicitamente, la possibilità che la diffamazione sia portata a esecuzione con una condotta omissiva,[17] quando il blogger, pur informato del contenuto denigratorio di una comunicazione, non provveda per tempo alla sua rimozione, «atteso che tale condotta equivale alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione e consente l’ulteriore diffusione dei commenti diffamatori»[18].
In sintesi, dunque, si deve riconoscere che, con sempre maggior frequenza, il giudice penale è chiamato a pronunciarsi su casi e fattispecie che, implicando in qualche modo il coinvolgimento della “rete”, lo spingono a riflessioni (e decisioni) che comportano lo spostamento della sua attenzione dal mondo del concreto e del visibile, alla sfera dell’immateriale e dell’invisibile (rectius: di ciò che diviene visibile solo con l’ausilio di adeguati strumenti tecnologici). E tuttavia il dato qualificante di un moderno sistema di controllo normativo consiste nella individuazione di un punto di giusto equilibrio tra la preservazione dei principi di legalità, tassatività e determinatezza e la necessaria elasticità delle norme incriminatrici che, senza pregiudicare il requisito della prevedibilità e conoscibilità dei limiti entro i quali la condotta deve ritenersi lecita, possa abbracciare (e consentire di punire) comportamenti contra jus che rappresentino naturali sviluppi di condotte devianti poste in essere con mezzi e metodi messi a disposizione della evoluzione tecnico-scientifica, rispecchiata (più o meno) fedelmente nel vocabolario in uso tra i consociati.
A volte è lo stesso legislatore a lasciare esplicitamente socchiusa la porta alle eventuali future innovazioni tecnologiche che, spesso, finiscono per offrire nuove occasioni all’agire criminale. È il caso, ad esempio, del terzo comma dell’art. 595 c.p., che, come è noto, in tema di aggravante della diffamazione consumata col mezzo della stampa, prevede che sia aggravato il reato anche se l’offesa è recata “con altro mezzo di pubblicità”, permettendo di inquadrare in tale tipo di condotta le comunicazioni veicolate dalle nuove tecnologie. Altre volte tale compito tocca all’interprete e costituisce campo di confronto tra dottrina e giurisprudenza[19].
- (Inevitabili) funambolismi giurisprudenziali
La sentenza in commento, come anticipato, ricorda i precedenti di legittimità in tema di reati contro il patrimonio aventi ad oggetto res informatiche.
Si è già detto della pronuncia della quinta sezione in cui la Corte ha ritenuto configurabile il delitto di furto nella condotta di un soggetto che, dopo aver comunicato la propria volontà di recedere da uno studio associato, si era impossessato di alcuni files, cancellandoli dal server dello studio (oltre che di alcuni documenti), al fine di impedire agli altri colleghi il controllo sulle reciproche spettanze[20].
Altra precedente pronunzia, pur ricordata dai giudici della seconda sezione, aveva affermato l’esatto contrario, sostenendo che «oggetto materiale della condotta di appropriazione indebita non può essere un bene immateriale come i crediti di cui si abbia disponibilità per conto d’altri, a meno che non siano equiparabili alle cose mobili perché “incorporati” in un documento» (la fattispecie era relativa ad un agente assicurativo che non aveva versato alla società di assicurazioni, per conto della quale operava, la somma di denaro corrispondente ai premi assicurativi riscossi dai subagenti)[21].
Ma è stata annoverata tra le decisioni contrarie anche altra sentenza, forse non esaminata funditus[22], la quale effettivamente esclude la configurabilità del reato di furto nel caso di duplicazione non autorizzata di file contenuti in un supporto informatico altrui, non comportando tale attività la perdita del possesso della res da parte del legittimo detentore. Il fatto è che la pronunzia in questione parla di “semplice” copiatura, vale a dire non accompagnata dalla distruzione dello scritto informatico copiato.
E si tratta di un punto dirimente, dal momento che, nella appropriazione indebita (come del resto nel furto, nella rapina ecc.), l’apprensione del bene da parte dell’agente comporta lo spossessamento dello stesso in danno della vittima. Ebbene ciò non si verifica quando il malintenzionato si limiti a copiare i dati (e quindi le informazioni) e a utilizzarli invito domino. Quest’ultimo, infatti, non ne viene spossessato in quanto “l’originale informatico” è rimasto nella sua disponibilità. Ecco perché va ribadito e posto nella dovuta evidenza che, per aversi appropriazione indebita (ma anche furto ecc.) di un file, non è sufficiente che l’agente ricopi abusivamente lo stesso, ma è necessario che distrugga, cancelli o renda inservibile la versione sulla quale ha formato la sua copia.
Insomma, viene a realizzarsi una sorta di reato bifasico, in cui l’impossessamento non è contestuale alla sottrazione, come nella appropriazione indebita o nel furto “tradizionali” (la “cosa” che era nel punto A e nella disponibilità di Tizio, passa nella disponibilità di Caio e potrebbe essere spostata o è di fatto spostata, subito o subito dopo, nel punto B), ma in cui le due condotte sono temporalmente separate: l’agente, prima, si impossessa del file, copiandolo, poi, cancella la “matrice” contenuta nel computer che ha abusivamente utilizzato. Una sistematizzazione un po’ funambolica – che potrebbe porre problemi in tema di momento consumativo e di tentativo – ma inevitabile.
Non c’è dubbio che si tratti, infatti, di una costruzione piuttosto extra ordinem, resa tuttavia necessaria dall’inerzia del legislatore, che, prodigo a volte nella creazione di nuove fattispecie incriminatrici non sempre indispensabili, bene farebbe a mettere mano a un razionale riordino in tema di computer crime.
[1] Per una prima riflessione sulla sentenza che si commenta, si possono scorrere alcuni articoli on line, tra i quali: F. Corona, Appropriazione indebita, i files sono qualificabili come cose mobili, in Altalex, 30 aprile 2020; R. Talarico, La configurabilità del reato di appropriazione indebita di file informatici, in diritto.it, 11 maggio 2020; Sottrazione di files aziendali da parte del dipendente: è appropriazione indebita, articolo redazionale, in lavoroediritto.it, 5 maggio 2020.
[2] Come è noto, sul punto, la dottrina è sterminata, di talché qualsiasi citazione risulterebbe incompleta e ingiustamente discriminatoria. Semplicemente, tra i più incisivi scritti in merito, si possono ricordare: L. Ferrajoli, Diritto e ragione: teoria del garantismo penale, Bari, 2000; F.C. Palazzo, Introduzione ai principi del diritto penale, Torino, 1999; F. Mantovani, Diritto penale, Padova, 2001.
[3] Al proposito, tra le non poche pubblicazioni, ci piace segnalare E. Giannantonio, Manuale di diritto dell’informatica, Milano, 1994; D. Obizzi, I reati commessi su internet: computer crimes e cybercrimes, in fog.it; S. Seminara; La responsabilità penale degli operatori su internet, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 1998, 745 ss.
[4] G. Astuti, Cosa in senso giuridico, Diritto romano e intermedio, in Enciclopedia del diritto, vol. XI, Milano, 1967, 5.
[5] B. Biondi, Corso di istituzioni di diritto romano, Milano, 1934, 24.
[6] S. Pugliatti, Cosa (teoria generale), in Enciclopedia del diritto, vol. XI, Milano, 1967, 35.
[7] Tra i tanti, N. D’Agnese, Manuale di diritto penale, Parte generale, Napoli, 2019, 75.
[8] In merito, vedasi, tra i molti scritti: L. Luparia, Le scienze penalistiche nella tempesta digitale. Quali approdi?, in Archivio penale, 3, 2013, 877 ss.; C. Pecorella, Profili penali delle truffe on line, in Archivio penale, 3, 2013, 799 ss.; V. Spinosa, La prima sentenza delle Sezioni unite sui reati informatici. Interpretazione estensiva di permanenza abusiva nel sistema, in Indice penale, 2013, 121 ss.; ci sia infine consentito di citare anche: M. Fumo, La condotta nei reati informatici, in Archivio penale, 3, 2013, 771 ss.
[9] L’art. 491-bis è stato introdotto dalla l. 547/1993, quindi riscritto nel 2008 (l. 48/2008 di ratifica della convenzione di Budapest sulla criminalità informatica); esso ha assunto l’attuale struttura a seguito del ricordato d.lgs. 7/2016.
[10] N. D’Agnese, Manuale di diritto penale, cit.
[11] Corte cost., 27 maggio 1961, n. 27.
[12] Corte cost., 16 dicembre 1970, n. 191, relativa a pubblicazioni e spettacoli osceni.
[13] Corte cost., 1° agosto 2008, n. 327, in tema di crollo di costruzioni e altri disastri dolosi.
[14] Cfr. Corte cost., 27 febbraio 2019, n. 25; 11 giugno 2014, n. 172; 23 luglio 2010, n. 282; 30 gennaio 2009, n. 21, tutte citate nella sentenza che qui si commenta
[15] Né il termine è estraneo al diritto penale, solo che si ponga mente all’art. 441 c.p. la cui rubrica è la seguente: “Adulterazione o contraffazione di altre cose in danno delle pubblica salute” e che testualmente recita: «chiunque adultera o contraffà in modo pericoloso alla salute pubblica, cose destinate al commercio, diverse da quelle indicate nell’articolo precedente […]». Le “cose” nominate nell’articolo precedente sono le sostane alimentari e il termine sostanza non è meno omnicomprensivo di “cosa”, tanto che è necessaria una specificazione (alimentari).
[16] Innumerevoli sono le sentenze in tema di furto di energia elettrica, fattispecie cui sono ritenute pacificamente applicabili le aggravanti di cui all’art. 625 c.p. (da ultimo: Cass. pen., sez. V, 23 settembre 2019, n. 5055). Per quel che riguarda l’acqua, vedasi, ad esempio, ancora Cass. pen., sez. V, 20 maggio 2019, n. 38098.
[17] Sul punto anticipata dalla dottrina, in relazione alla quale ci permettiamo di segnalare M. Fumo, La diffamazione mediatica, Torino, 2011, 99-100.
[18] Cass. pen., sez. V, 8 novembre 2018, n. 12546; in relazione alla quale vedasi: C. Pagella, La Cassazione sulla responsabilità del blogger per contenuti diffamatori (commenti) pubblicati, in Diritto penale Contemporaneo, 17 maggio 2019 nonché D. Minotti, Valutato come attivo un comportamento solo connivente, in Guida al Diritto, 20, 2019, 84 ss. e, più in generale, M. Gambulli, La responsabilità penale del provider per i reati commessi in internet, in altalex.com, 24 ottobre 2005; M. Bassini, La rilettura giurisprudenziale della disciplina sulla responsabilità degli ISP. Verso un modello di responsabilità complessa? in Federalismi.it, Focus medita TMT, 28 settembre 2015.
[19] In tema: C. Melzi d’Eril – G. E. Vigevani, La responsabilità del periodico telematico tra facili equiparazioni e specificità di internet, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 2010, 91 ss.; U. Sieber, Responsabilità penale per la circolazione di dati nelle reti internazionali di computer. Le nuove sfide di internet, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 1993, 763 ss.
[20] Cass. pen., sez. V, 19 febbraio 2015, n. 32383.
[21] Cass. pen., sez. II, 12 luglio 2011, n. 33839.
[22] Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre 2010, n. 44840.