Quell’arma (spuntata) contro le indagini spettacolo

Nel Paese del melodramma e delle tifoserie, dove si afferma la presunzione d’innocenza e si pratica, con disinvoltura, quella di colpevolezza, anche il legislatore, partito magari con l’ambizione di misure d’avanguardia, produce un esito di manierismo normativo (al meglio). Con una mimesi di fonti extranazionali che, girata in salsa italiana, rischia di produrre una frittata. E tuttavia le uova a disposizione non è che fossero di grande qualità. Già appare almeno bizzarro che un caposaldo costituzionale di civiltà giuridica, che da molto tempo dovrebbe essere patrimonio comune, non solo di avvocati e magistrati, debba invece essere ritenuto oggetto di uno specifico intervento. Ma è appunto un’impressione e verrebbe da dire che beato è il Paese che non ha bisogno di disposizioni che assicurino indagati e imputati di non essere considerati colpevoli fino al giudizio definitivo.

Non è quello il nostro Paese, a tutta evidenza; da noi piuttosto quella che ieri passava per proverbiale “antica civiltà giuridica” oggi è convertita nel trito dibattito tra garantisti e giustizialisti, magari a giorni alterni, tra innocentisti e colpevolisti, spesso sulla base delle convenienze, e dove il protagonismo di certa magistratura fa facile breccia nel sensazionalismo di certa informazione. E così, anche la sola apertura di indagini fa cambiare di verso la percezione, quasi identitaria, di chi a quell’altezza di tempo neppure è imputato. Una realtà con la quale magistrati e avvocati, ma anche cronisti giudiziari, fanno tutti i giorni amarissimi conti. Dove la necessità di dare fondamento prima e concretezza poi all’affermazione di innocenza esorbita dalle canoniche garanzie del diritto di difesa, entro le quali dovrebbe essere collocata, per sconfinare ormai sul terreno della comunicazione giudiziaria. Terreno assai delicato, peraltro, dove forte è l’urgenza del bilanciamento con il diritto all’informazione, alla critica, alla cronaca. E terreno dove appunto di recente si esercitato il legislatore con l’ormai noto e dibattuto decreto legislativo n. 188 del 2021, in attuazione della direttiva (UE) 2016/343.

La presunzione di innocenza è infranta, sottolinea la direttiva, quando dichiarazioni rilasciate da autorità pubbliche, non solo da esponenti della magistratura, o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentano l’indagato o imputato come colpevole. Almeno fino a quando la sua colpevolezza non è provata. Dichiarazioni o decisioni giudiziarie, non finali, non devono rispecchiare l’idea che una persona è colpevole senza per questo pregiudicare gli atti della pubblica accusa indirizzati a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato.  L’obbligo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, corregge in parte il tiro la direttiva esemplificando, non dovrebbe impedire alle autorità pubbliche di diffondere informazioni sui procedimenti penali, quando strettamente necessario per motivi collegati all’indagine penale, come nel caso in cui viene diffuso materiale video e si invita il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale sono fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisce informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale per evitare conseguenze sull’ordine pubblico.

Ricordato che la disciplina nazionale di recepimento costituisce sul punto una sostanziale traduzione di quanto previsto dalla direttiva e che espressamente quest’ultima non prende in considerazione le persone giuridiche (aspetto quest’ultimo che sarebbe certo meritevole di un supplemento di riflessione, visti i danni che la presentazione di un’impresa come presunta colpevole di reati assai gravi può provocare alla società stessa e ai vari stakeholders)), il provvedimento slitta poi su natura e forme di comunicazione degli uffici giudiziari, in particolare delle Procure, con uno svolgimento stretto tra concetti di assai scivolosa determinazione a monte e applicazione a valle, come le necessità d’indagine e le specifiche ragioni di interesse pubblico.

Dove a stridere è già l’accostamento tra la rigidità delle necessità d’indagine, che di per sé impedirebbe la diffusione della stragrande parte di notizie anche di significativa rilevanza e la genericità degli interessi pubblici che invece la diffusione giustificano. Anche perché l’ampiezza della nozione di interesse pubblico si estende sino a comprendere tutti quei casi, a contrario, nei quali non sia indispensabile la segretezza degli atti d’indagine, da circoscrivere peraltro il più possibile.

Ed è già stato notato, per una sorta di eterogenesi dei fini, non certo estranea al nostro legislatore, che una disciplina introdotta per limitare gli eccessi comunicativi e il protagonismo di una parte della magistratura, finisce per consegnare nelle mani dei vertici delle Procure la decisione finale non solo sul cosa ma anche sul come comunicare, con una netta preferenza comunque per l’assenza di contraddittorio che la dice lunga sulla consapevolezza di dovere fornire un’informazione giudiziaria completa, visto che il decreto privilegia in prima battuta il comunicato stampa e solo in casi di particolare necessità e rilevanza la conferenza stampa, determinazione quest’ultima da motivare oltretutto sempre in forma scritta.

Di certo l’approvazione della nuova disciplina porta a fare i conti con il potere/dovere di informazione da parte degli uffici giudiziari e, tra questi, quelli più coinvolti senza dubbio sono quelli della pubblica accusa. Lo fa però in continuità, per certi versi, con quanto venne previsto dalla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 dell’allora Governo Berlusconi, ministro della Giustizia Roberto Castelli. Già allora, quanto a titolarità dei rapporti con l’informazione, si individuava la competenza esclusiva del procuratore capo. Ora si prova a dettagliare meglio, con un’attenzione particolare per la figura della persona indagata oppure imputata, ma già da 15 anni, a proposito delle recenti controversie sul nuovo progetto di riforma in discussione in Parlamento, una forma di illecito disciplinare è collocata a presidio del rispetto delle prerogative del vertice dell’ufficio. Tuttavia non è privo di qualche suggestione questo comune sentire e, a suo modo, indice di una certa aria revanscista di questa stagione di politiche sulla giustizia, a riprova che il pendolo dei rapporti di forza tra politica e magistratura si sposta in maniera ciclica senza riuscire a trovare un punto di equilibrio.

In questi anni, ed è stato per certi versi naturale, ogni Procura ha fatto un po’ da sé. Due casi limite, assai recenti, attestano l’uso assai diverso dei margini assai ampi lasciati dalla normativa passata e anche da quella attuale. Il primo, quando ancora il decreto non era in vigore, ha visto la Procura di Napoli, il 30 ottobre scorso, emanare un comunicato stampa nel quale si elencano puntualmente tutti gli elementi di prova che hanno condotto al fermo di una persona indagata per duplice omicidio volontario. Di più, dell’indagato si indicano le generalità, come pure delle vittime. Le ragioni le spiega la stessa Procura, sottolineando l’”oggettivo interesse pubblico a una corretta informazione”, “lo straordinario allarme sociale” per il reato, “la necessità di prevenire la diffusione di informazioni non corrette e persino fantasiose”. Il tutto in un ufficio giudiziario dove, già dal 2019 in maniera del tutto inconsueta, si è disciplinato l’accesso dei giornalisti agli atti giudiziari, con l’intenzione di contribuire a disinnescare cortocircuiti sempre censurabili tra informazione e “soggetti a conoscenza dei fatti” (giudici, pubblici ministeri avvocati, polizia giudiziaria).

E poi il comunicato, peraltro pubblicato integralmente da un quotidiano a diffusione nazionale seppure sulle pagine locali, con il quale il Procuratore generale di Torino il 27 dicembre ha puntigliosamente replicato alle, a suo dire, inaccettabili affermazioni di esponenti politici fortemente critiche nei confronti dell’operato dell’ufficio nella vicenda giudiziaria che ha condotto al suicidio di un ex consigliere e assessore regionale.

Ma la frammentarietà degli interventi, la difficoltà di individuare indirizzi omogenei, in un contesto normativo nel quale, almeno per la magistratura requirente, sia l’ordinamento giudiziario sia le linee guida del Csm datate 2018 fanno in buona sostanza coincidere il responsabile per la comunicazione con il responsabile dell’ufficio non sembrano, a dire la verità, incrinate in maniera significativa dall’avvento della nuova disciplina. Per il Consiglio superiore infatti nel tentativo di dare effettività alla presunzione di non colpevolezza va evitata, tanto più quando i fatti sono di particolare complessità o la loro ricostruzione è affidata ad un ragionamento indiziario, ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate; particolare tutela va dedicata alle vittime e alle persone offese; vanno adottate tutte le misure per evitare l’ingiustificata diffusione di notizie e immagine in grado di danneggiare, anche solo potenzialmente, dignità e riservatezza.

E se il decreto fa del Procuratore il centro della nuova disciplina, nella speranza che la sua sia una monarchia illuminata e non assoluta, a valle del decreto legislativo, le prime disposizioni applicative delle procure si muovono nella consapevolezza della difficoltà di fornire indicazioni puntuali per identificare soprattutto le ragioni di interesse pubblico. Così Perugia individua più gli atti (dalle misure cautelari, personali o reali, alle all’esecuzione di provvedimenti definitivi, carcerazioni o confische, ad atti investigativi per i quali è venuto meno l’obbligo di segretezza), Milano si muove praticamente in fotocopia, precisando tuttavia che può essere oggetto di comunicazione sui media anche una notizia dalla rilevanza solo locale, Bologna mette l’accento sulla particolare gravità del fatto investigato (per esempio un omicidio o un attentato terroristico) oppure sull’esigenza di evitare equivoci o fraintendimenti informativi (notizie diffuse senza controllo che veicolano una ricostruzione di una vicenda investigativa non conforme al vero e suscettibile di provocare danni alla onorabilità delle persone).

Alla fine però, come ricordò lo stesso Csm nel parere reso sul decreto, la decisione sull’esistenza delle ragioni di interesse pubblico chiama in causa “valutazioni di opportunità rimesse al solo procuratore e dunque inevitabilmente influenzate dalla sua sensibilità culturale”. E davanti alla sensibilità culturale il giurista forse deve arrestarsi nella impossibilità di procedere a una determinazione sufficientemente certa delle condotte, degli stili di comportamento.

Insomma, senza volere essere troppo ingenerosi e senza soffermarsi sui meccanismi peraltro di assai contorta comprensione e attuazione, da innescare in caso di trasgressioni, l’intervento potrebbe facilmente essere ascritto al folto elenco delle occasioni mancate. Dove a mancare sono, per esempio forme di accesso agli atti non più coperti da segreto, misura invocata da tempo e mai anche solo ipotizzata, con l’eccezione di qualche lungimirante Procura, accompagnata però da disposizioni effettivamente dissuasive nei confronti di chi compromette principi cardine del giusto processo.

Perché anche questo va ricordato, il decreto non si occupa, né poteva, dell’altro protagonista della comunicazione giudiziaria, il giornalista. Per lui (per noi, ndr) il contesto resta quello deontologico con punto di riferimento costituito dal Testo unico dei doveri del giornalista in vigore dall’anno scorso.  Lì si legge come il cronista giudiziario, tra l’altro:

  1. rispetta sempre e comunque il diritto alla presunzione di non colpevolezza. In caso di assoluzione o proscioglimento, ne dà notizia sempre con appropriato rilievo e aggiorna quanto pubblicato precedentemente, soprattutto per quanto riguarda le testate online;
  2. osserva la massima cautela nel diffondere nomi e immagini di persone incriminate per reati minori o condannate a pene lievissime, salvo casi di particolare rilevanza sociale;
  3. evita, nel riportare il contenuto di qualunque atto processuale o d’indagine, di citare persone il cui ruolo non sia essenziale per la comprensione dei fatti;
  4. nelle trasmissioni televisive rispetta il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – diversi dalle parti che si confrontano nel processo – garantendo il principio di buona fede nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;
  5. cura che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi.

Evviva allora, elementi tanto ovvi da non essere scontati, il cui rispetto assicurerebbe un’informazione meno urlata e influenzabile. Poi certo ci vorrebbe un Ordine dei giornalisti per farli osservare, ma questo è altro e più ampio discorso.

Sul punto è poi intervenuta da ultimo la Procura generale della Cassazione con un documento dedicato alla definizione degli orientamenti in materia di comunicazione istituzionale, dove per la prima volta a venire sottolineata è anche la rilevanza dell’avvocatura nel contesto dei protagonisti dell’informazione sulle vicende penali e messa in evidenza l’asimmetria del trattamento. Perché. A dire della Procura, la presunzione d’innocenza non deve avere come conseguenza che la comunicazione sia totalmente abbandonata nella disponibilità delle parti private nel corso del procedimento, “parti per le quali non è invece posto alcuni obbligo di rispetto di canoni seppure minimi di correttezza nell’informazione”. Il che corrobora i rischi di un sempre più elevato tasso mediatico dei procedimenti penali, senza neppure il velo di un contraddittorio in grado di ripristinare all’esterno la fisiologica dialettica tra le parti comunque prevista in tribunale.

E la Procura generale fa un passo oltre andando in qualche modo a sollecitare una stretta a livello disciplinare da parte dei Consigli dell’Ordine in grado di allineare la posizione di avvocati e pubblici ministeri, questi ultimi colpiti da illecito disciplinare in caso di disinvoltura mediatica sulle indagini condotte.

Al di là della suggestione sanzionatoria, forse difficilmente evitabile considerato il soggetto da cui proviene, resta però il problema sulla completezza dell’informazione giudiziaria, perché se, per effetto del decreto, la fonte pubblica si inaridisce oppure è soggetta a tali e generici vincoli da renderla poco più che burocratica, allora a crescere è il peso delle fonti private, dove ancora più complicato potrà essere per i giornalisti sottrarsi a condizionamenti e strumentalizzazioni di chi intenderà difendersi non più “dal”, non solo “nel”, ma anche “con” il processo.

A mancare è allora una forma di accesso alle fonti meno arbitraria e più democratica, in grado di scoraggiare o almeno prosciugare il mercato nero delle notizie di cronaca giudiziaria. Il decreto se ne disinteressa e la Procura generale se ne occupa solo in maniera marginale e discutibile: afferma infatti la possibilità di prendere liberamente conoscenza delle ordinanze di custodia cautelare, ma considera tuttora illecita la visione di atti giudiziaria anche una volta che ne sia caduta la segretezza.

Insomma alla fine poco di nuovo sotto il sole, ma sarebbe stato difficile chiedere di più a un Parlamento che, a proposito di informazione, ha lasciato inevaso anche il monito “rafforzato” della Corte costituzionale per un intervento sulla diffamazione, occasione importante per un ripensamento complessivo della normativa sul diritto di cronaca e sulle sue responsabilità.

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