L’estensione degli effetti estintivi del reato all’intervistato derivati dalla remissione di querela nei confronti del direttore intervistatore

Corte di Cassazione, sez. V, 14 ottobre 2021 (dep. 10 gennaio 2022), n. 319

Nel caso di diffamazione a mezzo stampa commessa mediante la pubblicazione di un’intervista, la remissione di querela nei confronti dell’autore dell’articolo nonché direttore del giornale estende i suoi effetti anche al soggetto intervistato, stante l’identità del reato, senza che possa rilevare la mancata contestazione formale del concorso di persone nel reato.

 

Sommario: 1. Il principio. – 2. La vicenda. – 3. La motivazione della Cassazione. – 4. Qualche considerazione conclusiva.

 

  1. Il principio

La Corte di cassazione si è pronunciata sull’estensione degli effetti estintivi del reato alla posizione dell’intervistato nel caso in cui la remissione della querela sia stata presentata nei confronti del solo direttore del giornale al quale era stata rilasciata l’intervista.

Con la sentenza che si annota, la quinta sezione penale della Corte di cassazione, in linea con i propri precedenti giurisprudenziali, ha stabilito che, nell’ipotesi di un’intervista diffamatoria pubblicata da un giornale, la remissione di querela effettuata nei confronti del direttore della testata che ha firmato l’articolo estende i propri effetti anche all’intervistato. E ciò in quanto vi è identità del reato commesso dai due soggetti e, di conseguenza, deve trovare applicazione la regola posta dall’art. 155, comma secondo, c.p., senza che possa rilevare la autonoma configurazione delle due imputazioni secondo la prospettazione della pubblica accusa.

 

  1. La vicenda

Così riassunto il principio di diritto espresso dalla Corte, pare utile soffermarsi sul caso concreto che ha originato la decisione.

Stando alla sintesi dei fatti offerta in motivazione, nel 2012 veniva pubblicata, a firma del direttore della testata, un’intervista a un estremista di destra, in cui quest’ultimo apostrofava come “infame” un altro militante politico.

La Corte d’appello, in parziale riforma della decisione di prime cure, dichiarava non doversi procedere nei confronti del giornalista per essere il reato di diffamazione aggravata di cui agli artt. 595, comma terzo, c.p. e 13 legge n. 47 del 1948[1] a lui contestato estinto per remissione di querela, mentre confermava la condanna dell’intervistato in relazione alla condotta di diffamazione ex art. 595, comma terzo, c.p.

Quest’ultimo, nel rivolgersi alla Suprema Corte, chiedeva l’annullamento della sentenza deducendo inter alia – per quel che qui maggiormente interessa – la violazione dell’art. 155 c.p. e invocando l’estensione degli effetti estintivi derivanti dalla remissione di querela nei confronti del direttore. Più precisamente, sosteneva che il coimputato autore dell’intervista, avendolo ispirato e istigato, avrebbe concorso nel delitto di diffamazione.

La Corte di cassazione, per le ragioni già anticipate, annullava senza rinvio la decisione di secondo grado enunciando, per quanto attiene all’estensione degli effetti estintivi della remissione di querela, il principio sopra riportato.

 

  1. La motivazione della Cassazione.

Il percorso motivazionale che ha portato la Cassazione a estendere gli effetti della remissione di querela presentata nei confronti del giornalista anche alla posizione dell’intervistato risulta del tutto allineato alla giurisprudenza di legittimità.

Per giungere a tale approdo, la Cassazione anzitutto rileva l’errore in cui sarebbero incorsi i giudici di secondo grado. In particolare, la Corte d’appello, nell’assumere la propria decisione, si era basata su un noto precedente, la sentenza n. 38735 del 2014[2], in base al quale la remissione della querela proposta nei confronti del direttore responsabile di un periodico, chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 57 c.p., non si estende in favore dell’autore dell’articolo per il reato di diffamazione; ciò perché fra i due reati esiste assoluta autonomia che osta all’effetto estensivo, il cui presupposto, come è noto, è invece il concorso di più persone nel medesimo reato.

Tale pronuncia, tuttavia, prosegue la Corte, attiene a un caso del tutto differente da quello di specie, in quanto riguarda due reati diversi, la diffamazione di cui all’art. 595 c.p. e l’omesso controllo ex art. 57 c.p., che peraltro richiedono un titolo di attribuzione soggettiva diverso: rispettivamente il primo è un delitto di natura dolosa e il secondo ha carattere omissivo colposo.

Nella vicenda in esame invece, rileva la Cassazione, il giornalista autore dell’intervista, ancorché all’epoca assumesse anche il ruolo di direttore responsabile del giornale, aveva concorso nel reato di diffamazione con il soggetto che aveva rilasciato le dichiarazioni offensive; con la conseguenza che, esclusa l’applicabilità della scriminante del diritto di cronaca nei confronti dell’intervistatore, la remissione di querela proposta nei suoi confronti si deve estendere anche alla posizione dell’intervistato in ossequio alla regola posta dall’art. 155, comma secondo, c.p.[3]

A conferma di tale impostazione ermeneutica, la Corte richiama un altro proprio precedente del 2014 secondo cui «la remissione di querela effettuata nei confronti del giornalista estende i suoi effetti anche alla posizione dell’intervistato, in ragione della identità del reato derivante dalla necessaria cooperazione fra i due soggetti, e, quindi, dell’applicabilità della norma posta dall’art. 155 c.p., comma 2»[4].

Viceversa l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che sostiene l’inestensibilità degli effetti della remissione di querela nei rapporti tra direttore responsabile e autore della pubblicazione non può trovare applicazione in quanto nel caso in esame mancano la diversità dei reati, il differente elemento psicologico e l’esclusione del concorso di persone.

Non solo, da ultimo, la Corte approfondisce un ulteriore profilo posto dal caso in questione, ossia la mancata contestazione del concorso di persone nel reato rispetto alle condotte poste in essere dall’intervistato e dal direttore. A tal proposito, dopo aver richiamato il già citato proprio precedente del 2014[5] secondo cui in simili ipotesi si deve fare riferimento al “concorso necessario”, ha sostenuto che le condotte delittuose ascritte agli imputati fossero tra loro inscindibili, pur in assenza di una contestazione formale o di qualsivoglia cenno al concorso di persone nel reato nelle pronunce di merito.

A ciò si aggiunge un ultimo argomento. Ad avviso della Corte, infatti, una volta ritenuto che nel caso di specie fosse indiscutibile la sussistenza degli indici del concorso di persone nel reato, è sempre rilevabile in sede di legittimità la diversa qualificazione giuridica delle condotte diffamatorie, inizialmente contestate in modo autonomo, e ricondotte invece entro l’ombrello dell’art. 110 c.p. E ciò, da un lato, in un’ottica di favor rei, per non precludere l’applicabilità di una causa di estinzione del reato a causa della prospettazione della pubblica accusa; e, dall’altro lato, perché tale riqualificazione non comporta un mancato rispetto dei criteri espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella nota decisione Drassich c. Italia del 11 dicembre 2007[6]. Più precisamente, sotto quest’ultimo aspetto – benché nella sentenza che si annota la Cassazione non si dilunghi nel richiamare tali principi – viene esclusa la violazione del diritto dell’accusato a essere informato in maniera dettagliata della natura e dei motivi dell’accusa formulata nei suoi confronti, nonché del suo diritto a disporre del tempo e degli strumenti necessari alla preparazione della sua difesa.

In conclusione, all’esito del percorso ermeneutico di cui si è dato conto, i giudici di legittimità ricavano il principio di diritto che, lo si ripete, è il seguente: «nell’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa commessa mediante la pubblicazione di un’intervista, la remissione di querela effettuata nei confronti del giornalista estende i suoi effetti anche alla posizione dell’intervistato, in ragione della identità del reato derivante dalla necessaria cooperazione fra i due soggetti, e, quindi, dell’applicabilità della norma posta dall’art. 155 c.p., comma 2, senza che rilevi la mancata contestazione formale del concorso criminoso tra gli autori dell’unica condotta criminosa».

 

  1. Qualche considerazione conclusiva

La decisione che si annota non pare particolarmente innovativa e, tuttavia, presenta alcuni aspetti che risultano di qualche interesse.

Invero, come si è visto, la giurisprudenza aveva già avuto modo di rilevare che l’effetto estensivo della remissione della querela opera a vantaggio di più persone diverse da quella in favore della quale è presentata, solo in relazione ai reati posti in essere in concorso.

E, quanto all’ipotesi dell’intervista diffamatoria, era già stato stabilito che la remissione proposta nei confronti dell’autore dell’articolo si estende anche all’intervistato stante l’identità del reato derivante dal necessario concorso dei due soggetti; e, viceversa, non nei confronti del direttore della testata, responsabile del reato di cui all’art. 57 c.p., in ragione della autonomia tra le due fattispecie incriminatrici.

Ebbene, nel caso di specie, la Corte si è limitata a portare alle logiche conseguenze i menzionati insegnamenti, affermando che nel caso peculiare in cui l’intervistatore sia anche il direttore responsabile, la rimessione nei suoi confronti produce effetti anche nei confronti dell’intervistato, laddove il medesimo reato, la diffamazione, è stato commesso in concorso tra i due autori. In altri termini, qualora il direttore sia l’autore dell’articolo, egli non risponde del reato di omesso controllo, bensì di quello di cui all’art. 595 c.p., con la conseguenza che nelle ipotesi di concorso con un soggetto intervistato deve trovare applicazione la regola prevista dall’art. 155, comma secondo, c.p.

Di qui, il principio enunciato dalla pronuncia in esame non è in sé “nuovo”, perché si pone in totale continuità con gli orientamenti già espressi dalla giurisprudenza di legittimità; nondimeno, chiarisce una regola applicativa relativa a una particolare fattispecie che finora, a quanto consta, non era mai stata sottoposta al giudizio della Cassazione.

A tal proposito, un interrogativo sorge spontaneo: come coniugare il principio di diritto espresso dalla Corte nella sentenza in esame con le regole cristallizzate in materia di intervista diffamatoria?

Sul punto occorre ricordare come secondo un indirizzo inaugurato dalle Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 37140 del 2001, e oramai consolidatosi, in presenza di determinati presupposti, si deve distinguere la responsabilità di intervistato e di intervistatore. La condotta di quest’ultimo deve essere considerata penalmente lecita, quando l’intervista in sé possieda profili di interesse pubblico tali da prevalere sugli altri requisiti del diritto di cronaca. In altri termini, nelle ipotesi in cui le parole dell’intervistato sono di per sé una notizia, la posizione del giornalista, purché sia rimasto terzo e imparziale, va valutata separatamente e ritenuta scriminata anche laddove abbia riportato il testo integrale dell’intervista senza stemperare le espressioni offensive né verificare la verità dei fatti.

Ebbene, nel caso in cui a seguito della presentazione della querela la pubblica accusa, pur in presenza dei menzionati presupposti, esercitasse l’azione penale nei confronti sia del giornalista sia dell’intervistato, formulando un’imputazione di concorso nel reato di diffamazione, quale scelta processuale potrebbe seguire il querelante che si ritenesse leso dalla sola condotta del soggetto che ha rilasciato l’intervista?

Stando agli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità e come stabilito anche dalla sentenza annotata, la remissione della querela presentata nei confronti del giornalista dovrebbe operare anche rispetto all’intervistato. Per evitare tale rischio, la persona offesa potrebbe percorrere una diversa strada, ovverosia costituirsi parte civile nei soli confronti dell’intervistato per poter poi richiedere solo a quest’ultimo il risarcimento dei danni derivanti dal reato.

La seconda considerazione, collegata alla prima, riguarda limiti e pregi delle regole di derivazione giurisprudenziale. Da una parte, specie in una materia come il diritto penale dell’informazione, che come noto è per lo più affidata alla elaborazione giurisprudenziale, paiono registrarsi, almeno in certi ambiti, indirizzi sempre più costanti e consolidati dei giudici di legittimità; dall’altra, non di rado si assiste a pronunce delle corti di merito non del tutto allineate o, addirittura, talvolta in contrasto più o meno aperto con tali pur stabili orientamenti. Il che, va da sé, incide sulla certezza del diritto e sul carico di ricorsi su cui è chiamata a pronunciarsi la Cassazione.

Infine, l’ultimo aspetto che merita una menzione è il peso dei precedenti della Corte di Strasburgo sulle decisioni domestiche. Tale incidenza, a ben vedere, non dovrebbe ormai suscitare particolare stupore; ciò perché, soprattutto dopo la riforma dell’art. 117 Cost., e sulla base delle sentenze cd. gemelle del 2007 della Corte Costituzionale (le n. 348 e 349), sui giudici nazionali grava senza dubbio il compito di dare applicazione al diritto interno in modo conforme alle disposizioni della Convenzione per come esse sono interpretate dalla sua Corte.

Ciononostante, il passaggio della motivazione in esame in cui la Corte di cassazione si premura di precisare che la propria decisione non viola i principi espressi dai giudici europei nel caso Drassich c. Italia – senza peraltro spendersi nel menzionare a quali precisamente faccia riferimento – appare in qualche modo una “forzatura”: tale inciso non appare infatti necessario nell’economia della motivazione, né aggiunge in realtà alcun dato utile. Il passaggio, letto in controluce, si giustifica forse come testimonianza della profonda influenza che il “diritto convenzionale vivente” ha sull’attività ermeneutica dei giudici domestici e, in modo significativo, proprio anche nell’ambito del diritto dell’informazione; il che può aver spinto la Cassazione, per quanto la questione non fosse nemmeno in discussione, a voler precisare di muoversi entro le linee tracciate a Strasburgo.


[1] L’art. 13 l. 47/1948, all’epoca della commissione del fatto ancora vigente, è stato dichiarato incostituzionale con sentenza C. Cost., sent. 150/2021, in Giurisprudenza costituzionale, 4, 2021, p. 1835, con nota di A. Tesauro, «È la stampa, bellezza!»: La Corte costituzionale alle prese con la risposta carceraria alle lesioni mediatiche della reputazione.

[2] Cass. pen., sez. V, 6 maggio 2014, n. 38735, CED 262214.

[3] Il comma secondo dell’art. 155 c.p., come noto, prescrive che la remissione si estende nei confronti di tutti coloro che hanno commesso il reato, anche laddove sia proposta nei confronti di uno solo di essi; tale effetto estensivo opera solo nelle ipotesi in cui più soggetti hanno commesso il reato in concorso o cooperazione tra loro, e non anche quando essi siano autori di reati autonomi (sul punto, ex multis, Cass. pen., sez. V, 8 luglio 2014, n. 44377, CED 262195).

[4] Cass. pen., sez. V, 5 febbraio 2014, n. 42918, CED 2600559.

[5] Cass. pen., sez. V, 5 febbraio 2014, n. 42918, cit.

[6] CEDU, Drassich c. Italia, ric. 25575/04 (2007).

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