La tutela del pluralismo nel nuovo Testo unico sui servizi di media audiovisivi

Sommario: 1. Premessa. – 2. Da dove siamo partiti: l’art. 43 del TUSMAR. –  3. La sentenza CGUE sul caso Vivendi e l’art. 4-bis, d.l. 125/2020. – 4. Dove siamo arrivati: l’art. 51 del TUSMA. – 5. Criticità dell’art. 51 del TUSMA. – 6. Considerazioni conclusive

 

  1. Premessa

Il presente lavoro ha ad oggetto una prima analisi della nuova disciplina a tutela del pluralismo introdotta nell’art. 51 del Testo unico per la fornitura dei sevizi di media audiovisivi (d. lgs. 28 novembre 2021, n. 208; di seguito “TUSMA”), che ha abrogato e sostituito il precedente Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (d. lgs. 31 luglio 2005, n. 177; “TUSMAR”).

A tal fine si procederà ad illustrare in via di estrema sintesi la disciplina preesistente (contenuta nell’art. 43 TUSMAR) e, poi, si analizzeranno le principali criticità legate alle nuove previsioni.

Le osservazioni che si svolgeranno potranno peraltro richiedere una “messa a punto” una volta che saranno adottati il regolamento e le linee guida che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (“Autorità” o “AGCOM”) dovrà emanare nei prossimi mesi[1].

 

  1. Da dove siamo partiti: l’art. 43 del TUSMAR

L’art. 43 del TUSMAR vietava il superamento dei limiti ex ante fissati per legge (commi da 7 a 12) e comunque la «costituzione o il mantenimento di posizioni [dominanti]lesive del pluralismo» (combinato disposto tra c. 5 ed art. 5, c. 1, lett. a).

A tal fine, nell’art. 43 erano contenute due tipologie di limiti anticoncentrativi a tutela del pluralismo:

  1. a) quelli monomediali; e
  2. b) quelli multimediali.
  3. a) Tra i limiti monomediali potevano annoverarsi:

(a1) il divieto di acquisizione di posizioni dominanti in ciascuno dei mercati rilevanti del SIC (c. 2), da individuare ai sensi della normativa antitrust (c. 2, mediante il rinvio agli artt. 15 e 16 della direttiva quadro);

(a2) il divieto di titolarità di autorizzazioni che consentissero di diffondere più del 20% dei programmi televisivi (oppure di quelli radiofonici) irradiabili mediante le reti previste dal PNAF digitale (c. 7).

  1. b) Tra i limiti multimediali potevano, invece, annoverarsi i seguenti:

(b1) divieto di raccolta di più del 20% dei ricavi del SIC (c. 9);

(b2) divieto di raccogliere ricavi superiori al 10% del SIC se si avevano ricavi superiori al 40% del settore delle comunicazioni elettroniche (c. 11);

(b3) divieto di proprietà di quotidiani (purché non diffusi esclusivamente in modalità elettronica) per i soggetti che esercitassero attività televisiva in ambito nazionale su qualunque piattaforma e che avessero più dell’8% del SIC o per i soggetti che raccogliessero più del 40% dei ricavi del settore delle comunicazioni elettroniche (c. 12).

I limiti alla raccolta di ricavi nel SIC si applicavano (c. 9) ai «soggetti tenuti all’iscrizione» al Registro degli operatori di comunicazione (“Roc”).

Era altresì prevista la sanzione (civile) della nullità degli atti giuridici relativi a concentrazioni ed intese che contrastassero con i divieti di cui all’art. 43 (c. 4).

 

  1. La sentenza CGUE sul caso Vivendi e l’art. 4-bis, d.l. 125/2020

Investita dal Tar Lazio nel corso del giudizio introdotto da Vivendi contro il provvedimento adottato a suo carico dall’AGCOM ai sensi dell’art. 43, c. 11, TUSMAR[2], la Corte di giustizia UE ha ritenuto, con sentenza del 3 settembre 2020 (causa C-719/18, in prosieguo “sentenza Vivendi”) che «L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che ha l’effetto di impedire ad una società registrata in un altro Stato membro, i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale normativa, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo».

Il legislatore nazionale ha ritenuto di rispondere a tale pronunciamento introducendo nel d.l. 125/2020, con la legge di conversione (l. 159/2020), un art. 4-bis secondo il quale: «In considerazione delle difficoltà operative e gestionali derivanti dall’emergenza sanitaria in atto, in armonia con i princìpi di cui alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 3 settembre 2020, nella causa C-719/18, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e per i successivi sei mesi, nel caso in cui un soggetto operi contemporaneamente nei mercati delle comunicazioni elettroniche e in un mercato diverso, ricadente nel sistema integrato delle comunicazioni (SIC), anche attraverso partecipazioni in grado di determinare un’influenza notevole ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è tenuta ad avviare un’istruttoria, da concludere entro il termine di sei mesi dalla data di avvio del procedimento, volta a verificare la sussistenza di effetti distorsivi o di posizioni comunque lesive del pluralismo, sulla base di criteri previamente individuati, tenendo conto, fra l’altro, dei ricavi, delle barriere all’ingresso nonché del livello di concorrenza nei mercati coinvolti, adottando, eventualmente, i provvedimenti di cui all’articolo 43, comma 5, del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, per inibire l’operazione o rimuoverne gli effetti» (c. 1).

In attuazione dell’art. 4-bis, l’Autorità ha poi adottato la delibera n. 640/20/CONS (che ha modificato il Regolamento sui procedimenti in materia di autorizzazione dei trasferimenti di proprietà e sui procedimenti ex art. 43), nonché le delibere n. 662/20/CONS (apertura del procedimento ex art. 4-bis nei confronti di Vivendi), n. 663/20/CONS (apertura del procedimento nei confronti di Sky) e n. 108/21/CONS (apertura del procedimento nei confronti di Mediaset), delibere in cui l’Autorità ha altresì individuato i criteri in base ai quali procedere alla verifica (v. infra).

 

  1. Dove siamo arrivati: l’art. 51 del TUSMA

Il nuovo art. 51 vieta la costituzione (o il mantenimento: v. art. 5, c. 1, lett. a) delle «posizioni di significativo potere di mercato lesive del pluralismo, nel mercato e nei servizi di informazione» (c. 1), anziché delle «posizioni [dominanti]di cui ai commi [da 7 a 12]o comunque lesive del pluralismo».

Non ci sono più limiti ex ante fissati per legge; questi limiti divengono, con alcune importanti modificazioni, «indici sintomatici di una posizione di significativo potere di mercato potenzialmente lesiva del pluralismo» (c. 3), ma – a quanto sembra dalla lettura congiunta dei c. 3 e 5 – al solo fine di far scattare l’obbligo di notifica all’AGCOM delle intese/concentrazioni ex citato c. 3.

In particolare, rappresentano altrettanti «indici sintomatici» (c. 3) le seguenti circostanze:

(i) che i soggetti operanti nel SIC e coinvolti nell’intesa o nell’operazione di concentrazione fatturino più di 511 milioni di euro e, nel caso di concentrazioni, se l’impresa target fatturi più di 31 milioni di euro[3] (c. 3);

(ii) che i soggetti coinvolti conseguano ricavi superiori al 20 % del SIC (lett. a, primo periodo);

(iii) che i soggetti coinvolti conseguano ricavi superiori al 50% di uno o più mercati del SIC (lett. a, secondo periodo);

(iv) che i soggetti coinvolti conseguano (iv.a) ricavi superiori al 20% dei ricavi complessivi nei mercati della fornitura al dettaglio dei servizi di comunicazione elettronica e, contestualmente, (iv.b) più del 10 % del SIC e (iv.c) più del 25% di uno dei mercati dello stesso SIC (lett. b);

(v) che i soggetti coinvolti conseguano (v.a) ricavi superiori all’8% del SIC e, contestualmente, (v.b) abbiano o acquisiscano partecipazioni in imprese editrici di quotidiani, con l’eccezione di quelli diffusi esclusivamente in modalità elettronica (lett. c)

(vi) che i soggetti coinvolti siano titolari di autorizzazioni che consentano di diffondere più del 20% dei programmi televisivi (o radiofonici) irradiati mediante le reti previste dal PNAF digitale (lett. d).

Peraltro, prendendo a parametro l’ultima valorizzazione del SIC pari a 18,1 miliardi di euro, possiamo dire che gli indici sintomatici di cui ai punti (ii), (iv) e (iv) – ma probabilmente anche di cui al punto (iii) – sono tutti assorbiti dalle soglie di fatturato[4].

Inoltre, posto che il fatturato o gli «indici sintomatici» sembrerebbero rilevare solo ai fini dell’obbligo di notifica delle intese e/o delle concentrazioni, i criteri per valutare la sussistenza o meno di una “posizione di significativo potere di mercato lesiva del pluralismo” saranno piuttosto quelli indicati nel c. 5 dell’art. 51: e cioè, «fra l’altro», i seguenti (in corsivo i criteri totalmente nuovi, ossia, non già contenuti nel TUSMAR, nell’art. 4-bis o in altre delibere AGCOM):

1) i ricavi (criterio identico all’art. 43, c. 2, TUSMAR);

2) il livello di concorrenza statica e dinamica all’interno del sistema (criterio quasi identico all’art. 43, c. 2, TUSMAR: «livello di concorrenza all’interno del sistema»; mancava «statica e dinamica»);

3) le barriere all’ingresso nello stesso (criterio identico all’art. 43, c. 2, TUSMAR);

4) la convergenza fra i settori e mercati;

5) le sinergie derivanti dalle attività svolte in mercati differenti ma contigui (criterio già presente nelle delibere 662/20/CONS, 663/20/CONS e 108/21/CONS);

6) l’integrazione verticale e conglomerale delle società;

7) la disponibilità ed il controllo di dati;

8) il controllo diretto o indiretto di risorse scarse necessarie, quali le frequenze trasmissive;

9) le dimensioni di efficienza economica dell’impresa (criterio identico all’art. 43, c. 2, TUSMAR), anche in termini di economie di scala (criterio già presente nelle delibere 662/20/CONS, 663/20/CONS e 108/21/CONS), di gamma e di rete;

10) gli indici quantitativi di diffusione dei programmi radiotelevisivi, anche con riferimento ai programmi di informazione, delle opere cinematografiche, dei prodotti e servizi editoriali e online (criterio quasi identico nell’art. 43, c. 2, TUSMAR: mancava il riferimento ai «programmi di informazione»).

 

  1. Criticità dell’art. 51 del TUSMA

Ciò posto, l’art. 51 sembra presentare almeno le seguenti criticità.

 

5.1. Eccesso di delega

Si pone anzitutto un problema di eccesso di delega, poiché l’art. 3, l. 53/2021 non contiene alcun criterio o principio che giustifichi la modifica della disciplina a tutela del pluralismo, né si riscontrano criteri idonei a circoscrivere un intervento del Governo in merito.

Non soddisfa i requisiti di cui all’art. 76 Cost. neppure il sibillino e generico richiamo all’«evoluzione tecnologica e di mercato» contenuto nella lett. a) dello stesso art. 3[5], che pure il Consiglio di Stato ha inteso valorizzare nel suo parere definitivo del 30 settembre 2021 (peraltro constatando in ogni caso la mancanza di giustificazioni in merito alle scelte effettuate in varie occasioni dal legislatore delegato[6]).

Del resto, un così vago riferimento all’«evoluzione tecnologica e di mercato» si tradurrebbe in una delega “in bianco” al Governo[7].

Nella Relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo (p. 9) il Governo ha giustificato l’intervento sulla disciplina del pluralismo, richiamando per un verso «le mutate condizioni di mercato, le quali vedono la presenza sempre più rilevante delle diverse piattaforme multinazionali» (dunque richiamandosi proprio al vago criterio dell’«evoluzione tecnologica e di mercato»), per altro verso la necessità di adeguarsi alla sentenza Vivendi.

Anche l’Autorità nel suo parere integrativo del 23 settembre 2021 ha sostenuto che la modifica dell’intera disciplina anticoncentrazione è intervenuta «proprio per venire incontro alla recente sentenza della Corte di giustizia UE», in base alla quale – a parere della stessa AGCOM – «una normativa che si limita a fissare soglie di mercato senza determinare se e in quale misura un’impresa sia in grado di influire sul contenuto delle attività editoriali dei media, non è di per sé indicativa di un rischio concreto di influenza sul pluralismo dei media, con ciò evidenziando certamente la necessità di una indagine specifica sul punto, ma che verta inequivocabilmente sul peculiare profilo del pluralismo» (§ 4).

Ma, come notato anche nel parere definitivo del Consiglio di Stato: «a fronte dell’ampiezza e del rilievo delle modifiche introdotte, la relazione illustrativa risulta parca di indicazioni soffermandosi esclusivamente sulla sentenza CGUE 3 settembre 2020 (causa C-719/18) Vivendi SA. Non risulta invero che tutte le modifiche introdotte dall’art. 51 siano riconducibili ai soli contenuti della sentenza. È opportuno che, per lo meno nella relazione illustrativa, siano riconoscibili le ragioni complessive delle modifiche introdotte» (p. 56).

In effetti, la sentenza Vivendi non soltanto atteneva solo all’art. 43, c. 11, TUSMAR ed enunciava principi non automaticamente estensibili all’intero art. 43, ma – a ben vedere – la Corte di giustizia ha fondato la sua valutazione negativa ritenendo incompatibile con il diritto UE l’intero impianto del SIC ed il suo utilizzo a fini di tutela del pluralismo informativo.

Mi pare che ciò si colga in modo piuttosto chiaro nel passaggio in cui la Corte osserva che «[p]er quanto riguarda, poi, la soglia del 10% dei ricavi complessivi del SIC, […] occorre osservare che il fatto di conseguire o meno ricavi equivalenti al 10% dei ricavi complessivi del SIC non è di per sé indicativo di un rischio di influenza sul pluralismo dei media. Infatti, dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera s), del TUSMAR risulta che il SIC comprende mercati diversi e vari. Pertanto, se i ricavi complessivi realizzati da un’impresa nel SIC dovessero essere concentrati in uno solo dei mercati che compongono tale sistema in modo tale che la quota raggiunta in tale mercato sia nettamente superiore al 10% ma, qualora venga preso in considerazione l’insieme dei mercati che compongono il SIC, rimanga inferiore al 10%, il fatto che la soglia del 10% dei ricavi complessivi del SIC non venga raggiunta non potrebbe escludere qualsiasi rischio per il pluralismo dei media. Analogamente, nel caso in cui la soglia del 10% dei ricavi complessivi del SIC fosse sì raggiunta, ma tale 10% di ricavi si ripartisse tra ciascuno dei mercati che compongono il SIC, né il raggiungimento né lo sforamento di tale soglia del 10% costituirebbero necessariamente un pericolo per il pluralismo dei media» (§ 75).

Si tratta infatti di argomentazioni senz’altro estensibili anche alla soglia del 20% e, in definitiva, alla stessa utilità del SIC a fini di tutela del pluralismo.

E, quand’anche si volesse dare una lettura estensiva a questa pronunzia della Corte di giustizia, i principi ivi enunciati si sarebbero potuti estendere tutt’al più ai limiti multimediali (v. sopra, par. 2, lett. b), ma non a quelli monomediali e, segnatamente, al limite relativo alla titolarità di più del 20% delle autorizzazioni per FSMA. Per questo limite è infatti assai dubbio che possa sostenersi che «né il raggiungimento né lo sforamento … del 10% costituirebbero necessariamente un pericolo per il pluralismo dei media».

È quindi paradossale che, per dare ottemperanza alla sentenza Vivendi, si sia valorizzato ancor di più il possesso di soglie nel SIC e si siano eliminati gli unici limiti (monomediali) che individuavano invece una diretta incidenza sul livello del pluralismo informativo.

In conclusione, sembra chiaro che il legislatore delegato ha radicalmente modificato tutta la disciplina a tutela del pluralismo senza la sussistenza di alcun criterio e principio direttivo del Parlamento e senza la “copertura” della sentenza Vivendi, che non imponeva certamente una normativa “a rima baciata”, tantomeno per i limiti diversi da quello di cui all’art. 43, c. 11, TUSMAR.

 

5.2. Limiti predeterminati per legge vs. concetti indeterminati

A questo punto bisogna peraltro chiedersi se il favor attribuito dal legislatore delegato ai criteri espressivi di “concetti indeterminati” (tipico delle analisi antitrust non sector-specific) sia senz’altro preferibile a quello delle soglie predeterminate per legge.

In proposito, si ricorda che la Corte costituzionale ha ritenuto che, nel settore dei media audiovisivi, il rispetto della libertà di iniziativa economica privata debba trovare un’applicazione ancor più rigorosa, essendo coinvolta anche la libertà di cui all’art. 21 Cost. La Corte ha di conseguenza sottolineato come il legislatore avesse in passato «improntato lo statuto dell’impresa radiotelevisiva al principio della certezza giuridica, determinando la linea di confine tra l’attività dei privati e i poteri pubblici in termini oggettivi di legalità sostanziale, vale a dire attraverso la predeterminazione in norme di legge del contenuto essenziale e della forma dei limiti imponibili all’autonomia imprenditoriale», rendendo conseguentemente più rigorosa la fissazione dei limiti «in ragione dell’esigenza di tutelare nel modo più efficace i valori primari della libertà, del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione (televisiva) contenuti nell’art. 21 della Costituzione. In ragione di ciò, infatti, la disciplina ‘anti-trust’ appositamente prevista per il settore radiotelevisivo correttamente non ricorre a parametri consistenti in concetti indeterminati, in clausole generali o, comunque, in poteri dotati di un’ampiezza sostanzialmente non definita nella legge, ma prevede, piuttosto, limiti alla dimensione delle imprese basati su prescrizioni precise e puntuali» (Corte. cost., sent. 112/1993, § 12 del considerato in diritto).

È pur vero che questo principio era stato già sottoposto ad un ridimensionamento a seguito del divieto di “posizioni dominanti lesive del pluralismo” nei singoli mercati del SIC (divieto introdotto dalla legge Gasparri e poi trasfuso nell’art. 43 del TUSMAR), visto che l’individuazione di queste posizioni richiedeva necessariamente l’applicazione dei concetti indeterminati propri del diritto antitrust generale. Ma è altrettanto vero che, con l’art. 51 del TUSMA, la totale eliminazione delle soglie prefissate ribalta completamente la situazione, senza che tale profondo cambiamento possa essere controbilanciato dalla prevista adozione di linee guida da parte dell’AGCOM.

In proposito, è interessante notare come il Consiglio di Stato (pp. 56-58 parere definitivo), proprio alla luce dell’eliminazione delle soglie prefissate ex lege, abbia suggerito al Governo – che ha poi seguito il suggerimento – di eliminare la nullità degli atti contrastanti con i divieti previsti dall’art. 51 TUSMA, considerando sproporzionata tale sanzione civile per la violazione di divieti non previamente determinati (peraltro, anche questa modifica risulta eccedente rispetto alla delega).

Suscita poi perplessità il riferimento, tra i criteri applicabili per la verifica del pluralismo, alla concorrenza “dinamica”, laddove la differenza che sussiste tra tutela del pluralismo e della concorrenza è proprio che, mentre in base alla disciplina antitrust l’assetto monopolistico di un mercato non è di per sé una prova della compromissione degli interessi generali tutelati attraverso la disciplina della concorrenza, se il mercato è comunque contendibile; viceversa, un assetto monopolistico del sistema dei media o anche di un singolo mezzo di comunicazione sarebbe incompatibile – anche per un periodo relativamente breve – con la tutela del pluralismo informativo[8].

 

5.3. Il “mercato” e i “servizi” di informazione

Il primo comma dell’art. 51 TUSMA dispone che «Nel sistema integrato delle comunicazioni e nei mercati che lo compongono è vietata la costituzione di posizioni di significativo potere di mercato lesive del pluralismo, nel mercato e nei servizi di informazione».

Le ragioni della specificazione finale «nel mercato e nei servizi di informazione» risultano invero difficilmente comprensibili, anche perché non si rinviene, né nel TUSMA né nelle pregresse analisi dell’Autorità, l’individuazione di un «mercato dei servizi di informazione». Infatti, nel TUSMA un riferimento all’«attività di informazione» è contenuto nell’art. 6, che la definisce un «servizio di interesse generale» e la identifica chiaramente con l’attività informativa in senso stretto (telegiornali, giornali radio e simili). Ma ciò non sembra di particolare aiuto per identificare un «mercato dei servizi di informazione», anche perché, se così fosse, la tutela del pluralismo si ridurrebbe solo all’attività informativa ed il complesso apparato di criteri previsto dall’art. 51 risulterebbe inutilmente ridondante.

D’altro canto, se ai sensi dell’art. 51, c. 5, TUSMA i «programmi di informazione» rappresentano solo una “parte” del criterio basato sugli indici quantitativi di diffusione dei programmi radiotelevisivi (v. supra, par. 4, n. 10), appare difficile che essi possano rappresentare al contempo il “tutto” su cui eseguire le valutazioni sulla tutela del pluralismo.

 

5.4. I profili soggettivi della nuova disciplina

Nell’art. 43 era abbastanza chiaro che i soggetti obbligati al rispetto della disciplina a tutela del pluralismo erano quelli iscritti al Roc.

Ora – nonostante l’elenco dei soggetti tenuti ad iscriversi al Roc sia stato aggiornato, proprio con l’art. 72 del TUSMA (c. 4, lett. a), con l’inserimento delle piattaforme di condivisione video (PCV) – nell’art. 51 TUSMA non c’è più un riferimento all’iscrizione al Roc e si parla genericamente di «soggetti che operano nel SIC». Con il che, però, considerata la già ricordata ampiezza ed eterogeneità dei settori inclusi nel SIC, non è chiaro a quali soggetti andrebbe limitato l’obbligo di notifica: ad es., gruppi operanti nel settore cinematografico con fatturati superiori alle soglie indicate nel c. 5 dovranno notificare le operazioni di concentrazione o le intese di cui sono parti?

Inoltre, non si comprende se le PCV siano o meno assoggettate ai limiti previsti per i soggetti operanti nel SIC: nella definizione del SIC è stato aggiunto un riferimento alla «pubblicità online» e nell’art. 51 TUSMA si fa riferimento alla «pubblicità online» per individuare i ricavi da tenere in considerazione per quantificare il SIC, ma non è chiaro se ciò implichi che le PCV rientrino nei limiti del SIC solo per questo aspetto o “a tutto tondo”, come potrebbe far pensare – ad esempio – il riferimento alla «disponibilità ed il controllo di dati» introdotto ex novo nel c. 5.

 

5.5. I profili oggettivi della nuova disciplina    

Il legislatore delegato ha altresì modificato la definizione del SIC eliminando – sempre in assenza di criteri di delega al riguardo – dai settori che lo compongono le «iniziative di comunicazione di prodotti e servizi» (che, del resto, aveva sempre creato all’AGCOM problemi di individuazione e quantificazione del relativo mercato).

Come detto, il Governo ha invece inserito nella definizione del SIC la «pubblicità online»: si ritiene che ciò dovrebbe indurre l’Autorità, nelle prossime analisi dei mercati del SIC, a reinserire il mercato della pubblicità (se del caso, articolato in sotto-mercati: televisiva, online, ecc.), rivedendo così la scelta compiuta nella delibera 41/17/CONS di non inserirlo (scelta peraltro già criticabile alla luce dell’art. 5, c. 1, lett. a), del TUSMAR, che richiamava espressamente il «mercato della pubblicità»).

 

  1. Considerazioni conclusive

Sembra di poter concludere che la modifica della normativa a tutela del pluralismo introdotta nel TUSMA è ampiamente eccedente i limiti della delega e, come tale, di assai dubbia legittimità costituzionale.

Fermo quanto sopra, va però aggiunto che, se si fosse proprio dovuta fare una forzatura rispetto ai criteri di delega, tanto sarebbe valso far riferimento al criterio dell’audience, visto che il divieto di posizione dominante è volto soprattutto a vietare la c.d. ‘opinione dominante’ (come la chiamano significativamente i tedeschi[9]) e che il dato relativo all’audience rappresenta l’elemento più significativo per individuare una siffatta posizione.

Per giunta, il riferimento all’audience avrebbe potuto estendersi alle PCV (quantomeno nel senso di ‘audience potenziale’, cioè di numero di utenti attivi: v. la proposta di Digital Services Act), con conseguente possibilità di maggiore omogeneità di disciplina e di criteri[10].

[1] Su cui si v. le delibere AGCOM n. 771/22/CONS e n. 772/22/CONS, rispettivamente, di avvio della consultazione pubblica sul regolamento e del procedimento per l’adozione delle linee guida.

[2] In particolare, Vivendi, già detentrice del 23,94% di Telecom Italia s.p.a., aveva acquisito anche il 28,8% di Mediaset s.p.a. con una scalata ostile in Borsa; l’Autorità, ritenendo violato l’art. 43, c. 11, aveva ordinato a Vivendi di dismettere una delle due partecipazioni. A seguito della sentenza Vivendi, il Tar Lazio, sez. III, ha disapplicato l’art. 43, c. 11, ed ha annullato il provvedimento dell’AGCOM con sentenza 23 dicembre 2020, n. 13958.

[3] Cfr. Provv. AGCM n. 28602/2021.

[4] Infatti, anche la detenzione dell’8% dei ricavi del SIC (percentuale pari a circa 1,450 miliardi di euro) ovviamente presuppone che le parti coinvolte nell’intesa o nell’operazione di concentrazione fatturino, nel loro complesso, più della soglia di rilevanza basata sui ricavi (511 milioni di euro).

[5] La lett. a) recita: «riordinare le disposizioni del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, attraverso l’emanazione di un nuovo testo unico dei servizi di media digitali con adeguamento delle disposizioni e delle definizioni, comprese quelle relative ai servizi di media audiovisivi, radiofonici e ai servizi di piattaforma per la condivisione di video, alla luce dell’evoluzione tecnologica e di mercato».

[6] Cons. Stato, sez. atti normativi, 30 settembre 2021, n. 1582.

[7] Nell’ambito di una giurisprudenza costituzionale non particolarmente rigorosa, si v. Corte cost., sentt. 354/1998, 66/2005 e 303/2005.

[8] G. Amato, in Seminario Astrid del 3 maggio 2007 “Sul ddl di riforma del sistema radiotelevisivo”, 40 della trascrizione degli interventi; e, se si vuole, O. Grandinetti, Forme e tecniche di tutela del pluralismo informativo, con particolare riferimento alla televisione (una prima ricognizione del tema), in Studi in onore di Alessandro Pace, Napoli, 2012, 1079 ss.

[9] In questo senso, v. anche D. Dörr, in D. Dörr – J. Kreile – M. D. Cole (a cura di), Handbuch Medienrecht-Recht der elektronischen Massenmedien, Frankfurt am Main, 2008, 186-87.

[10] Su questi aspetti sia consentito rinviare, per brevità, a O. Grandinetti, Le piattaforme digitali come “poteri privati” e la censura online, in Rivista italiana di informatica e diritto, 4(1), 2022.

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