Corte di Cassazione, sez. un. penali, 17 aprile 2024
La condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla “chiamata del presente” e nel c.d. “saluto romano”, rituali entrambi evocativi della gestualità propria del disciolto partito fascista, integra il delitto previsto dall’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, sia idonea ad integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. A determinate condizioni può configurarsi anche il delitto previsto dall’art. 2 del decreto-legge 26 aprile 1983, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205 che vieta il compimento di manifestazioni esteriori proprie o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Tra i due delitti non sussiste rapporto di specialità e possono concorrere sia materialmente che formalmente in presenza dei presupposti di legge.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il caso all’esame delle Sezioni Unite. – 3. La decisione delle Sezioni Unite n. 16153 del 18 gennaio 2024. – 4. Alcune note a margine: la rinnovata predilezione per un modello di democrazia fondato sul “marketplace of ideas”. – 5. … integrato da uno spirito antifascista.
- Premessa
Il 7 gennaio 2025, circa mille persone hanno sfilato in corteo, esibendo il saluto romano e rispondendo alla “chiamata del presente”, in commemorazione di tre giovani militanti del Movimento Sociale Italiano, deceduti quarantasette anni or sono in via Acca Larentia a Roma[1].
La vicenda – non del tutto nuova in verità – ha sollevato ulteriori interrogativi in ordine alla legittimità di comportamenti, di chiara ispirazione fascista, all’interno dell’ordinamento democratico, suscitando alcune perduranti riflessioni circa i limiti che presiedono all’esercizio delle libertà costituzionali.
La ricerca di possibili soluzioni al problema si rende necessaria attraverso l’utilizzo di strumenti di carattere normativo, in luogo di decisioni politico-emotive che potrebbero eventualmente anche condurre ad un maggiore desiderio di inasprimento punitivo[2].
A questo riguardo, il quadro normativo concernente l’apologia del fascismo e le relative condotte si fonda primariamente a livello costituzionale: la XII disposizione transitoria e finale, vieta espressamente la «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista».
A tale previsione si sono poi affiancate nel corso del tempo la legge 20 giugno 1952, n. 645 (nota come legge Scelba), che ne attua direttamente i principi, e le fattispecie incriminatrici relative alla discriminazione razziale, introdotte dalla legge 13 ottobre 1975, n. 654 (cosiddetta legge Reale), successivamente modificate dalla legge del 25 giugno 1993, n. 205 (denominata legge Mancino), recante “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa”[3].
In tale contesto, la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 16153 del 18 gennaio 2024 si appunta sul significato giuridico che il saluto romano dispiega all’interno del nostro ordinamento, suscitando un interesse che va oltre la necessità di un’interpretazione uniforme della fattispecie e che mette in luce una delle aspirazioni più complesse dei moderni sistemi democratico-pluralistici[4].
La decisione in commento tenta infatti di raggiungere un equilibrio sostenibile tra la tutela dei diritti individuali fondamentali e la connotazione antifascista della Costituzione, quale fondamento ineludibile della Repubblica[5]. Ed è proprio quest’ultima esigenza a richiedere un’attenzione particolare nei confronti di quelle manifestazioni di carattere rievocativo, che sovente si presentano come espressioni di aperto dissenso nei riguardi del patto costituzionale repubblicano.
- Il caso all’esame delle Sezioni Unite
La decisione della Suprema Corte di cassazione origina dal ricorso proposto avverso la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Milano, in data 24 novembre 2022. Con tale decisione il giudice di secondo grado aveva condannato gli imputati, ai sensi della c.d. “legge Mancino”, a due mesi di reclusione e a duecento euro di multa, «per aver partecipato alla manifestazione esteriore di un’organizzazione, un movimento o un gruppo che incita alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi»[6].
Più in particolare, durante una manifestazione autorizzata, gli imputati avevano esposto uno striscione inneggiante ai “camerati caduti”, Enrico Pedenovi, Sergio Ramelli e Carlo Borsani, rispondendo poi alla “chiamata del presente” ed effettuando contestualmente anche il rituale del saluto romano.
In accoglimento dell’impugnazione proposta dal Pubblico Ministero, la sentenza d’appello aveva riformato in senso peggiorativo la pronuncia dal Tribunale, che, in primo grado aveva assolto gli imputati, ritenendo che il fatto non costituisse reato. Nelle more di quel procedimento, il giudice di prime cure aveva ricostruito la fattispecie in esame ai sensi dell’art. 5 della l. 645/1952, ascrivendo il comportamento degli imputati ad una «manifestazione usuale del disciolto partito fascista». Tuttavia, il medesimo Tribunale aveva contestualmente rilevato la sussistenza di un errore scusabile ed aveva pertanto escluso la sussistenza del «pericolo di ricostituzione di organizzazione fasciste», anche sulla scorta di quanto precedentemente statuito dal Giudice dell’udienza preliminare, in relazione ad una manifestazione analoga, tenutasi nel 2014[7].
Per contro, la Corte d’appello di Milano, dopo avere evidenziato che la pubblica ostentazione di tali gesti avrebbe dovuto ritenersi «concretamente idonea alla propaganda e diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale ed etnico», aveva condannato gli imputati, ritenendo sussistente l’elemento soggettivo del reato, sulla base della circostanza che – come ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità – nel caso del “saluto romano” debba ritenersi costantemente integrata l’ostentazione di un simbolo proprio di organizzazioni, movimenti o gruppi fascisti ex art. 2 della legge Mancino.
Ciò considerato, la prima sezione penale della Cassazione, con ordinanza del 6 settembre 2023, aveva rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto interpretativo in merito alla gestualità del saluto romano.
In effetti, secondo un primo orientamento, la condotta in questione integrerebbe il reato di cui all’art. 2 della legge Mancino, mentre, secondo un diverso indirizzo pretorio quel medesimo comportamento ricadrebbe entro la sfera applicativa dell’art. 5 della “legge Scelba”[8]. In estrema sintesi, quindi, la prima fattispecie assegnerebbe maggiore rilievo alla diffusione di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale[9], mentre la seconda ricostruzione sarebbe tesa a scongiurare la ricostituzione del disciolto partito fascista, vietata in maniera tassativa dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione[10].
Attesa questa divergenza interpretativa, la prima sezione penale aveva perciò richiesto alle Sezioni Unite: «se la condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla “chiamata del presente” e nel “saluto romano”, rituali evocativi della gestualità propria del disciolto partito fascista, sia sussumibile nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 2 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, ovvero in quella prevista dall’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645»[11].
- La decisione delle Sezioni Unite n. 16153 del 18 gennaio 2024
Le SS. UU. della Cassazione sono state quindi chiamate a pronunciarsi in merito alla rilevanza penale del “saluto romano” ai sensi dell’art. 5 della legge n. 645 del 1952 e dell’art. 2 della legge n. 205 del 1993.
Accanto a tale questione, se ne affiancano altre due: la prima relativa alla configurabilità delle condotte previste dalla c.d. legge Scelba e dalla c.d. legge Mancino come reati di pericolo astratto oppure come reati di pericolo concreto; la seconda concernente invece il rapporto tra i due illeciti quali condotte tra loro effettivamente in concorso.
Con riguardo al quesito principale, il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite afferma che la condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nel cosiddetto “saluto romano” e nella risposta alla “chiamata del presente”, integra il delitto previsto dall’art. 5 della legge n. 645/1952, solo ed esclusivamente se, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione.
Qualora invece, tenuto significativamente conto del contesto fattuale complessivo, la medesima condotta sia espressiva di una manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, delle associazioni, dei movimenti o dei gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, del codice penale, quello specifico comportamento potrebbe integrare il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, c. 1, della legge n. 205/1993.
Secondo la Suprema Corte, dunque, la differenza fondamentale tra le due fattispecie risiede sia nella situazione di fatto in cui la manifestazione esteriore avviene sia nel bene giuridico che si assume violato. In proposito, con riferimento a quanto previsto dall’art. 5 della legge Scelba, il bene protetto sarebbe da individuarsi nella tutela dell’«ordine pubblico democratico»[12], da intendersi – conformemente con la giurisprudenza della Consulta – né come un interesse individuale, né come un mero ordine pubblico materiale, bensì come «ordine pubblico costituzionale»[13] in quanto «ordine legale costituito»[14], ovverosia come identità dello Stato democratico-repubblicano, che confluisce in un vero e proprio «sistema su cui poggia la convivenza sociale»[15].
Tuttavia, data la sua natura di reato di pericolo concreto, per l’applicazione della norma si richiede la sussistenza di «elementi di fatto», quali, a titolo esemplificativo, «il contesto ambientale, la eventuale valenza simbolica del luogo di verificazione, il grado di immediata ricollegabilità dello stesso contesto al periodo storico in oggetto e alla sua simbologia, il numero dei partecipanti, la ripetizione insistita dei gesti»[16].
Tale accertamento è strettamente connesso alla possibile lesione del bene giuridico che la normativa intende salvaguardare e che, espresso sotto forma di esplicito divieto, proibisce la ricostituzione del «disciolto partito fascista», in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione.
Nella differente ipotesi in cui non siano presenti elementi modali e temporali, tali da integrare la minaccia di cui all’art. 5 della legge n. 645/1952, la medesima condotta – soggiunge la sentenza – potrebbe analogamente configurare il reato di pericolo presunto, di cui all’art. 2 della “legge Mancino”. In tale evenienza, il “saluto romano” potrebbe acquisire una propria autonoma rilevanza applicativa, anche in assenza di una concreta offesa nei confronti della Repubblica e delle sue Istituzioni.
Si tratta di un passaggio di particolare rilevanza, poiché, secondo i giudici di Cassazione, la condotta in oggetto potrebbe configurarsi come reato, anche in assenza di un intento diretto alla ricostituzione del disciolto partito fascista, in particolare qualora gruppi, movimenti o aggregazioni, anche di natura estemporanea, compiano atti caratterizzati da discriminazione razziale[17]. Questo si verificherebbe, per esempio, nel caso in cui l’offesa in questione si traduca in una lesione di un bene giuridico «composito», tutelato dalla legge n. 205 del 1993, e finalizzato a proteggere i diritti fondamentali garantiti, tra gli altri, dagli articoli 2 e 3 della Costituzione[18].
Secondo il ragionamento della Corte, pertanto, la condotta posta in essere dagli imputati potrebbe configurarsi anche come delitto ai sensi dell’articolo 2 della legge Mancino, laddove costituisca «lo strumento simbolico di espressione di idee di intolleranza o di discriminazione attualmente proprie degli agglomerati considerati dall’articolo 3 della legge n. 654 del 1975»[19].
Questa duplice possibilità di qualificazione del delitto in questione comporterebbe un restringimento o un ampliamento dell’area penalmente rilevante[20], in grado di illuminare quella “zona grigia” che la giurisprudenza tende a inquadrare con maggiore difficoltà, ossia la rilevanza giuridica del “saluto romano” in contesti quali chiese, sagrati, cimiteri, stadi, consigli comunali, scuole, e così via[21].
Ebbene, con la pronuncia in commento tali esternazioni sarebbero da ricondursi all’ambito applicativo della legge Mancino, mancando in esse gli elementi sintomatici del pericolo di ricostituzione del disciolto PNF, ma connotandosi esteriormente per la manifestazione predominante di idee di natura razziale.
La perseguibilità della condotta, secondo l’art. 2 della legge Mancino, richiede, nondimeno, di considerare il «significativo contesto fattuale complessivo». Da tale inciso si possono far discendere due corollari: il primo contribuisce ad escludere la punibilità della “chiamata al presente” qualora questa si risolva in una fattispecie meramente commemorativa[22], in una “goliardata” o in una semplice “bravata”; il secondo, intrinsecamente connesso, sottolinea altresì la necessità che il giudice riconduca la rilevanza applicativa delle due disposizioni a una concreta offensività della condotta rispetto ai distinti beni giuridici che le normative intendono tutelare.
Ciò è dimostrato dal fatto che, dopo aver ricondotto le due fattispecie di reato alle rispettive categorie di pericolo concreto e presunto[23], le Sezioni Unite hanno ritenuto tale distinzione «evanescente» rispetto all’accertamento preliminare dell’offensività della condotta in relazione al bene giuridico tutelato[24]. L’approccio in questione rappresenta un elemento innovativo della pronuncia, riducendo – almeno per quanto riguarda la questione oggetto del presente giudizio – la distinzione tra reati di pericolo in concreto e reati di pericolo in astratto a una mera astrazione teorica[25]. In tal senso, i giudici sono chiamati esclusivamente a verificare il rischio effettivo di tali condotte, considerando gli specifici beni giuridici che le due normative intendono tutelare.
- Alcune note a margine: la rinnovata predilezione per un modello di democrazia fondato sul “marketplace of ideas”
Queste riflessioni rappresentano l’aspetto costituzionalmente più rilevante della pronuncia in commento, dal momento che si rivelano funzionali a un inquadramento del modello italiano all’interno dei principali paradigmi di tutela della democrazia, illuminando ulteriormente il rapporto che la Carta fondamentale ha inteso instaurare con i suoi potenziali antagonisti.
A tal proposito, se si analizza il combinato disposto degli artt. 17, 18, 21 e 49 della Costituzione, si può affermare pacificamente che le libertà tutelate da tali norme si contraddistinguono per l’assenza di eccezioni al loro esercizio, fondate esclusivamente su elementi ideali. In altre parole, affinché si possa procedere ad una legittima compressione di tali diritti non è sufficiente un contenuto potenzialmente in contrasto con il dettato costituzionale, ma occorre altresì la comprovata lesione di un altro diritto in concreto[26].
Lo stesso principio sembra emergere da un’interpretazione di massima della XII disposizione transitoria e finale, la quale, nel prescrivere il divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista, non può essere considerata un limite alla libertà di manifestazione del pensiero in quanto tale[27].
Da questo punto di vista, la sentenza delle Sezioni Unite si inserisce pienamente in questa tradizione giuridica, declinando un assetto democratico aperto e plurale, che avvicina il paradigma italiano ad una impostazione marcatamente liberale, che storicamente non ha ritenuto delle minacce sufficienti gli episodi di propaganda fascista, benché ripetuti nel tempo, ove connotati da un carattere puramente ed eminentemente commemorativo[28]. In effetti, l’argomentazione esposta dai giudici non consente di approdare a un’interpretazione che ipso facto conduca a considerare incostituzionali i movimenti neofascisti, né giustifica l’incriminazione delle loro dichiarazioni, anche quando queste siano in evidente contrasto con i principi fondamentali della democrazia repubblicana, in questo conformandosi all’orientamento già tracciato dalla Corte costituzionale, con le sentenze n. 1/1957 e n. 74/1958[29].
Attraverso queste due pronunce, il Giudice delle leggi ha infatti affermato che l’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645 non punisce «una qualunque manifestazione del pensiero […] bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito, che […] possono determinare il pericolo di riorganizzazione che la norma ha voluto evitare»[30]. Ne discende, che eventuali restrizioni alla libertà di espressione continuano a richiedere l’accertamento di un pericolo chiaro ed imminente per un interesse pubblico essenziale (“clear and present danger”)[31], sottolineando la necessità di imprimere eventuali restrizioni alla libertà di espressione solo ove vi siano specifiche circostanze capaci di rappresentare un reale pericolo per la pacifica convivenza sociale generando un incitamento all’odio e alla violenza[32].
Con riferimento alle condotte apologetiche che qui interessano, esso potrebbe declinarsi nel senso che, proprio a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite, questi pericoli sarebbero da ricondursi: per quanto concerne l’applicazione dell’art. 5 della legge Scelba, alla tutela dell’«ordine democratico-costituzionale», dinanzi a un pericolo che dunque deve leggersi nel segno di una minaccia di tipo sovversivo al modello di Stato delineato nella Costituzione, di cui la componente politico-istituzionale rappresenta la chiave di volta; mentre, con riferimento all’applicazione dell’art. 2 della legge Mancino, deve tradursi in un depauperamento dei principi costituzionali che presiedono allo sviluppo della «dignità umana», a seguito del quale è la componente civica e culturale ad apparire maggiormente coinvolta.
Se questo è vero, sembra potersi così giustificare anche quella prassi applicativa che, nel corso del tempo, ha fatto registrare un rinnovato rigore da parte della giurisprudenza di merito in materia elettorale. Un crescente numero di liste, infatti, sono state escluse dalle competizioni elettorali a causa del loro riferimento fin dal nome del partito, all’ideologia e alla simbologia fascista[33].
Sotto questo specifico punto di vista, anche questo filone giurisprudenziale non sembra essere stato smentito dalla sentenza delle Sezioni Unite: in effetti si potrebbe compendiare che, quanto più si percepisce un fondato timore che alcuni candidati possano accedere al potere e attuare, sulla base del loro programma elettorale, “azioni che modifichino la realtà”[34], tanto più il combinato normativo della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione e della Legge Scelba tende a rivelare le sue dinamiche applicative[35].
Si evince, in definitiva, un’oscillazione applicativa della XII disposizione e della sua legge di attuazione, tra la duplice esigenza di tutelare il “puro pensiero” e quella di preservare l’ordine legale precostituito dinanzi a un concreto pericolo di rottura della “pace materiale”[36].
Questa tesi, del resto, s’inserisce nel più ampio solco della volontà del Costituente italiano di superare positivamente l’impianto fascista preesistente, inclusa la concezione del rapporto tra cittadino e autorità. L’introduzione di regole costituzionali a tutela del futuro assetto democratico-repubblicano, sotto forma di astrazione meramente teorica, avrebbe infatti replicato le medesime logiche di autoconservazione di un ordine ideale, che, ora, all’interno di una democrazia centrata sulla persona, doveva ritenersi anacronistica. Sicché, di fronte a un quadro normativo così delineato, la democrazia italiana, nel mostrare una certa tolleranza anche nei confronti dei più intolleranti, si sforza di non tradire i propri principi fondamentali e affronta i suoi avversari, per così dire, «con una mano legata dietro la schiena»[37].
Tale impostazione si colloca all’interno di un contesto democratico aperto e pluralistico e si allinea coerentemente con i tratti distintivi dell’utilitarismo liberale di matrice nordamericana promuovendo il concetto di “marketplace of ideas”[38] e considerando ogni dottrina emergente dalla società civile come una verità parziale, suscettibile di miglioramento e potenzialmente superabile attraverso un confronto dialettico[39].
In questa chiave, la sentenza della Cassazione non propende per un modello di democrazia protetta, tipico di sistemi come quello tedesco, e dunque si rifiuta di impiegare strumenti repressivi e protettivi nei confronti delle formazioni eversive o di stabilire dei limiti espliciti alla libertà di associazione e di manifestazione del pensiero, dichiarando incostituzionali quei partiti che «per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti si prefiggono di attentare all’ordinamento costituzionale democratico»[40].
- … integrato da uno spirito antifascista
Dall’analisi condotta emerge, dunque, come la pronuncia delle Sezioni Unite riaffermi significativamente l’identità antifascista della democrazia costituzionale repubblicana, mantenendone intatto lo spirito pluralista[41]. Se, da una parte, infatti, il pensiero fascista in sé non può essere considerato reato; dall’altra, l’irrilevanza del criterio distintivo tra reati di pericolo concreto e reati di pericolo astratto, sembra qualificare come illecito penale qualunque comportamento che, esternato nella realtà dei fatti, richiami contenutisticamente il Fascismo[42].
Ciò è confermato dalla possibile estensione applicativa della condotta della “chiamata del presente” al reato di cui all’art. 2 della Legge Mancino. Questo, tuttavia, alla condizione che l’applicazione della disposizione incriminatrice non si contrassegni per un limite alla mera manifestazione del pensiero, ma si giustifichi piuttosto con la necessità di tutelare quel bene giuridico «composito», custodito dalla legge n. 205 del 1993, e finalizzato a proteggere i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione[43].
In questa ipotesi, la rilevanza penale delle condotte apologetiche persegue un interesse costituzionalmente rilevante, atto a preservare quei «principi fondamentali di ordine legale alla base della convivenza civile»[44]. Da questo punto di vista, al fine di prevenire un turbamento della pacifica convivenza civile[45], si potrebbe persino sostenere che la pronuncia delle Sezioni Unite persegua una volontà pedagogica supplementare, poiché richiama alla memoria collettiva la convinzione antifascista, come patto fondativo su cui si regge lo Stato democratico repubblicano.
Né è un esempio la scelta di spiegarsi anche in termini simbolici, in particolar modo descrivendo il “saluto romano” come una condotta che è chiara a tutti essere una «naturale» identificazione della «liturgia delle adunanze fasciste»[46] e, nell’ambito applicativo di cui all’art. 2 della legge Mancino, un possibile «strumento simbolico di espressione di idee di intolleranza o di discriminazione» [47].
Attesa, dunque, la portata storica di tale gesto, non appare possibile «indulgere nella libertà dell’errore»[48], al cospetto di un atteggiamento che diviene perseguibile penalmente per la sua sostanziale idoneità a rappresentare un pericolo per «la disgregazione dei valori di solidarietà, dignità ed eguaglianza di tutti consociati»[49]. Questo approccio autorizza l’interprete a considerare – senza esitazioni – il tratto identitario «antifascista» come un «principio fondamentale»: ed è questo, se vogliamo, il principale meccanismo di difesa culturale della democrazia che la sentenza di Cassazione tenta di introdurre nel nostro ordinamento.
[1] Il 7 gennaio 1978, davanti alla sede del Movimento Sociale Italiano, furono assassinati due giovani attivisti del Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta. Un terzo militante, Stefano Recchioni, perse la vita poche ore dopo durante gli scontri con le forze dell’ordine nello stesso luogo. Questi eventi sono noti come la Strage di Acca Larentia, avvenuta a Roma nel quartiere Tuscolano. Da allora, il luogo è diventato un simbolo per le manifestazioni neofasciste di militanti, o solo nostalgici, tutti schierati per invocare la “chiamata al presente” e la liturgia fascista del saluto romano.
[2] Altrimenti descritto nei termini di un “diritto penale dell’emotività” da D. Piccione, L’antifascismo e i limiti alla manifestazione del pensiero tra difesa della Costituzione e diritto penale dell’emotività, in Giur. cost., 4, 2017. Da questo punto di vista, l’approccio privilegiato da preservare è quello dell’interprete del diritto; per dirla con le parole di F. Balaguer Callejon, sebbene le «grandi crisi del XXI secolo si collocano al di fuori del contesto culturale del diritto», occorre «superare questa difficoltà mostrando alla società l’importanza del diritto e l’impossibilità di rispondere alle esigenze del nostro tempo senza strumenti giuridici», v. A. Randazzo, Intervista a Francisco Balaguer Callejon. La Costituzione dell’algoritmo, in Nomos. Le attualità del diritto, 1, 2023, 2.
[3] La legge 13 ottobre 1975 n. 654, anche conosciuta come legge Reale, nel ratificare la Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 21 dicembre 1965, ha introdotto una disciplina penale nel nostro ordinamento contro le condotte di discriminazione razziale. Secondo quanto affermato dall’art. 3 della l. 654/1975, «Gli Stati contraenti condannano in particolar modo la segregazione razziale e l’“apartheid” e si impegnano a prevenire, vietare ed eliminare sui territori sottoposti alla loro giurisdizione, tutte le pratiche di tale natura». Questa disposizione è stata successivamente convertita, con modifiche, nella legge 25 giugno 1993, n. 205 (c.d. legge Mancino), il cui art. 2 afferma che «Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila».
Il d.lgs. 1° marzo 2018 n. 21 ha in seguito abrogato l’art. 3 della legge 13 ottobre 1975 n. 654 e trasfuso la normativa all’art. 604-bis che vieta «ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».
[4] È tale la prerogativa tradizionalmente attribuita alla Corte di cassazione nell’esercizio della c.d. funzione “nomofilattica” o di “nomofilachia”, «cioè la funzione di unificare e coordinare l’interpretazione ed applicazione delle norme, al fine di garantire un’omogenea evoluzione della giurisprudenza» (sul punto cfr., F. P. Luiso, Diritto processuale civile Volume II: Il processo di cognizione, Milano, 2019, 428). Essa, inoltre, è ben delineata dall’art. 65 del Regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 sull’ordinamento giudiziario, laddove si dice che «La corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità, del diritto oggettivo nazionale».
[5] Piace a questo proposito prendere ad esempio le parole del presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, secondo il quale «La Costituzione è un patto che esprime la pari dignità sociale, l’eguaglianza e la diversità, la solidarietà… È un patto di reciprocità fra i diritti e i doveri; un patto di garanzia dei diritti inviolabili dei singoli, in sé e nelle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità. È un patto che guarda al futuro facendo tesoro della memoria del passato; un patto di inclusione e di partecipazione, non di esclusione e di appartenenza; un vero e proprio manuale di convivenza» (G. M. Flick, La Costituzione: un manuale di convivenza. Antologia di scritti su Costituzione, dignità, patrimonio, Milano, 2018).
[6] All’art. 3 l. 654/1975, «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della disposizione dell’articolo 4 della convenzione, è punito: a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; è vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni».
[7] Nello specifico, il Giudice dell’udienza preliminare aveva escluso la sussistenza del pericolo motivando che la manifestazione si sarebbe svolta «in forma statica senza essere preceduta o seguita da alcun corteo» (ritenuto in fatto, punto 1).
[8] Si riportino, ai fini di una maggiore chiarezza espositiva, le due disposizioni incriminatrici di riferimento: «Chiunque con parole, gesti o in qualunque altro modo compie pubblicamente manifestazioni usuali al disciolto partito fascista è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a lire cinquantamila» (l. 20 giugno 1952, n. 645, c.d. “legge Scelba”); «Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila» (l. 25 giugno 1993, n. 205, c.d. “legge Mancino”)
[9] Le principali pronunce sostenitrici del primo orientamento richiamate dalla sentenza delle Sezioni Unite sono: Cass. pen., sez. I, n. 21409/2019; sez. I, n. 25184/2009; sez. III, n. 37390/2007.
[10] Le principali pronunce sostenitrici del secondo orientamento richiamate dalla sentenza delle Sezioni Unite sono: Cass. pen., sez. V, n. 36162/2019; sez. I, n. 11038/2016; sez. I, n. 37577/2014).
[11] Nel trattare il contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite ritengono di menzionare le sentt. 12 ottobre 2021, n. 7904 e 19 novembre 2021, n. 3806, in qualità di pronunce dotate di una motivazione più puntuale, rispetto alle altre, rispettivamente in adesione del primo e del secondo orientamento.
In particolare, la prima decisione spiega diffusamente che la fattispecie incriminatrice è l’art. 5 della Legge Scelba perché sanziona il pericolo di riorganizzazione “storica” del partito nazionale fascista, a differenza dell’art. 3 della legge Mancino che prescinde da questa caratteristica. Esso, infatti, riferendosi a un gruppo ex art. 3 l. 654/1975 esteriorizza manifestazioni razziali latu sensu. Mentre, la sentenza della sez. I, n. 3806/2021, ritenuta la pronuncia più “virtuosa” in favore dell’applicazione dell’art. 2 legge cit., è stata richiamata dalle Sezioni Unite per avere ricondotto il rapporto tra l’art. 5 e l’art. 2 alla stregua di un rapporto di specialità: più precisamente, vi sarebbe una presunzione ex lege, secondo cui, nelle manifestazioni razziali, discriminatorie, etc., vi sarebbe integrata l’ideologia fascista; tuttavia, l’art. 5 della Legge Scelba è applicabile solo ove vi sia un pericolo concreto di ricostituzione del disciolto partito fascista. Ne deriva che, a fronte della mancata constatazione di questo pericolo, deve ritenersi applicabile l’art. 2 della Legge Mancino.
[12] Considerato in diritto, punti 6.2.1, e 6.2.2.
[13] Corte cost., sent. n. 168/1971
[14] Corte cost., sent. n. 87/1966
[15] Corte cost., sent. n. 19/1962. La pronuncia della Cassazione riconosce espressamente il “saluto romano” come una «naturale» identificazione e richiama anche gli artt. 3 e 9 del regolamento del PNF per affermare che la gestualità è tipica della «liturgia delle adunanze fasciste», v. Considerato in diritto, punto 8.
[16] Considerato in diritto, punto 8.1.
[17] Come spiega la Cassazione, «non è neppure necessario (…) un loro inquadramento in entità espressamente operanti sotto un nome, ovvero dotate di uno statuto (…), ben potendo trattarsi anche di aggregazioni di natura estemporanea, come desumibile dal tenore letterale della norma» (Considerato in diritto, punto 9). Così anche S. Curreri, Costituzione e neo-fascismo: quando il saluto fascista è reato?, in questa Rivista, 1, 2024, 131 ss.
[18] Considerato in diritto, punto 6.2.3.
[19] Considerato in diritto, punto 9.1.
[20] A. Tesauro, Le radici profonde non gelano: le manifestazioni fasciste al vaglio delle sezioni unite. Tra storia e diritto, in Sistema penale, 12 gennaio 2024.
[21] Così, F. Spaccasassi, Le manifestazioni usuali del fascismo tra leggi “Scelba” e “Mancino”, in Questione Giustizia, 15 marzo 2022, 2, secondo cui, questa area grigia sarebbe costituita dalla gestualità del menzionato saluto romano in «chiese, sagrati, cimiteri, stadi, consigli comunali, scuole), intonazione della chiamata del “presente” (in particolare in cerimonie di commemorazione di defunti), sfoggio di bandiere (con fasci littori e aquile, svastiche)».
In questo senso, la pronuncia appare militare in favore del mantenimento della precedente prassi applicativa che, sovente, aveva ricondotto la gestualità del “saluto romano” in assenza degli elementi modali e temporali, utili alla rievocazione del disciolto PNF, alla stregua di una fattispecie punibile ai sensi dell’art. 2 della legge Mancino. Ne sono degli esempi, la sentenza della Cass. pen., sez. I, sent. 25184/2009, attraverso cui i giudici hanno ritenuto tale gesto compiuto in una partita di calcio una «manifestazione (…) fortemente intollerante e discriminante»; e, analogamente, la sentenza di Cass. pen., sez. I, sent. 21409/2019. Cfr., per un maggiore approfondimento, A. Nocera, Manifestazioni fasciste e apologia del fascismo tra attualità e nuove prospettive incriminatrici, in Dir. Pen. Con., 9 maggio 2018; F. Paruzzo, La XII Disposizione transitoria e finale: tra garanzia “antirazzista” della legge Mancino e specificità della matrice antifascista, in Associazione Italiana Costituzionalisti, 3, 2024, 118-119; C. Caruso, Dignità degli altri e spazi di libertà degli intolleranti, in Quaderni costituzionali, 4, 2013, 804-809.
Viceversa, appare, altresì corroborata, la prassi applicativa relativa all’ 5 della legge Scelba che ha riguardato casi di movimenti e liste elettorali esclusi dalle tornate elettorali, di fronte al concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto PNF, e al differente bene giuridico che la XII dis. trans. e finale Cost., e la l. 645/1952 vogliono tutelare, di cui si dirà più diffusamente infra § 4.
[22] Anche quando la Cassazione, al Considerato in diritto, punto 8.1., afferma che vada escluso che «la caratteristica commemorativa della riunione possa rappresentare fattore di neutralizzazione degli elementi e, quindi, di “automatica” insussistenza del reato», tale assunto non sembrerebbe da intendersi nel senso che ogni manifestazione anche se dal carattere meramente commemorativo possa essere punita. Meglio, l’insussistenza del reato debba sempre ricercarsi di fronte a un’eventuale inoffensività della condotta rispetto al bene giuridico posto a tutela dalla due normative.
[23] Cfr. Considerato in diritto, punto 6.2.2. per il delitto di cui all’art. 5 legge cit. come reato di pericolo in concreto; Considerato in diritto, punto 6.2.4., per il delitto di cui all’art. 2 legge cit., come reato di pericolo in astratto.
[24] La pronuncia cita altresì la Corte cost., sent. 225/2008, per evidenziare che «resta affidato al giudice, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico «il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa», v. Considerato in diritto, punto 6.2.4.
[25] La distinzione è nota per inquadrarvi nei reati di pericolo in concreto quelli in cui il giudice deve accertare se nel singolo caso concreto il bene giuridico ha corso un effettivo pericolo: accertamento che è doveroso, sia quando il pericolo è elemento espresso del fatto di reato, sia quando è elemento implicito da ricostruire in via interpretativa; mentre, nei reati di pericolo in astratto, quei reati nei quali il legislatore, sulla base di leggi di esperienza, ha presunto che una classe di comportamenti è, nella generalità dei casi, fonte di pericolo per uno o più svariati beni giuridici. Per un maggiore approfondimento da un punto di vista definitorio, si segnala, per tutti, G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, VI Ed., Milano, 2017, 240-244.
[26] A questo proposito, volendo adottare un’interpretazione eminentemente letterale delle norme costituzionali, si evince che, in riferimento all’art. 21 Cost, esso si caratterizza per una portata espansiva e per l’assenza di restrizioni alla manifestazione del pensiero fondate unicamente sui contenuti espressi. L’unico limite, espresso all’ultimo comma dell’articolo, è quello del buon costume; esso è tradizionalmente collegato alla nozione penalistica di “osceno” (e in particolare all’art. 529 c. che definisce «osceni gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore»). Tuttavia, come assai noto, è un concetto mutevole nel tempo, con la conseguenza che una manifestazione del pensiero può essere ritenuta immorale solo qualora si ponga in antitesi con «la pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea» (Corte cost., sent. 293/2000), v. sul punto G. E. Vigevani, Articolo 21, in F. Clementi – L. Cuocolo – F. Rosa – G. E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, Bologna, 2018, 150-151.
Analogamente, l’art. 17 della Costituzione si astiene dal definire i fini della riunione, consentendo pertanto l’esercizio della libertà in questione per i più diversi obiettivi; a questo stretto proposito, non possono costituire limiti i fini di natura concettuale attinenti non al fatto della riunione, bensì all’attività finale ivi svolta (v., più approfonditamente, F. Rosa, Articolo 17, in La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, cit., 122; A. Pace, Articolo 17, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione. Rapporti civili. Art. 13-20, Bologna, 1977, 157.
Lo stesso principio si applica alla libertà di associazione sancita dall’art. 18 della nostra Costituzione, la quale può essere esercitata dal singolo per motivi che egli ritenga meritevoli di considerazione, inclusi quelli di opposizione ai poteri pubblici e privati. Le uniche eccezioni alla libertà sono costituite dalle associazioni segrete e quelle aventi un’organizzazione a carattere militare, entrambe espressamente proibite dalla lettera costituzionale. Per il resto, tale libertà è da considerare della medesima rilevanza costituzionale dell’art. 21 Cost., in virtù del principio espresso dalla Corte costituzionale, secondo cui, non sarebbe possibile vietare alle associazioni quello che non viene vietato ai singoli. Per inciso, «se non è illecito che il singolo svolga opera di propaganda antinazionale, non può costituire illecito neppure l’attività associativa volta a compiere ciò che è consentito all’individuo» (Corte cost., sent. 243/2001), v. sul punto F. Clementi, Articolo 18, in La Costituzione italiana, cit., 131.
E, in ultimo luogo, anche l’art. 49 Cost., nel proclamare la libertà di associazione partitica, rifiuta di imporre qualsiasi forma di controllo ideologico e di escludere i partiti politici dalle competizioni elettorali in base al programma espresso: non vi è, da questo punto di vista, alcun possibile rimando al congegno costituzionale tipico di una democrazia militante, la quale, sulla falsariga della wehrhafte e verteidigte Demokratie tedesca, ammette l’esclusione di quei partiti in grado di negare l’esistenza dello stato di diritto e di sovvertire le sue regole (v., sulla teoria costituzionale il suo massimo esponente K. Loewenstein, Militant Democracy and Fundamental Rights I, in American Political Science Review, 1937a).
[27] G. E. Vigevani, Origine e attualità del dibattito sulla XII disposizione finale della Costituzione: i limiti della tutela della democrazia, in questa Rivista, 1, 2019, 29.
[28] Cass., pen., sez. I, sent. 37577/2014, secondo cui i gesti usuali del disciolto partito fascista non rappresentassero una lesione dell’interesse tutelato con l’art. 5 della l. 645/1962 per la «natura puramente commemorativa della manifestazione e del corteo, organizzati in onore di tre defunti, vittime di una violenta lotta politica che ha attraversato diverse fasi storiche»; Cass. pen., sez. I, sent. 11038/2016, la quale, conformemente alla giurisprudenza costituzionale, interpreta la fattispecie sanzionata nell’art. 5 legge cit. da qualificarsi in termini di reato di pericolo in concreto, che non sanziona le manifestazioni di pensiero, ma soltanto «ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, da verificarsi in concreto con riguardo al momento ed all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi», e, analogamente, App. Milano, 21 settembre 2016; Cass. pen., sez. I, sent. 8108/2018, secondo cui il saluto romano, se fatto con intento commemorativo e non violento, non è penalmente rilevante, in quanto la legge non punisce «tutte le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, ma solo quelle che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste», e di conseguenza, solo «i gesti idonei a provocare adesioni e consensi».
Per un commento più approfondito di queste sentenze e della giurisprudenza richiamata, v. Sulla rilevanza penale del “saluto romano”: non è reato se fatto con intento commemorativo, in Giurisprudenza penale, 21 febbraio 2018; A. Nocera, Manifestazioni fasciste e apologia del fascismo tra attualità e nuove prospettive incriminatrici, cit.; A. Galluccio, Il saluto fascista è reato? L’attuale panorama normativo e giurisprudenziale ricostruito dal Tribunale di Milano, in una sentenza di condanna, in Dir. Pen. Con., 29 aprile 2019; C. Brusco, Contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione e applicazione delle leggi di contrasto al neofascismo, in Questione Giustizia, 14 maggio 2019.
[29] Parimenti, si potrebbe qui aggiungere, alcuna minaccia seria è stata attribuita al Movimento Sociale Italiano, quale partito neofascista che ha trovato spazio nel contesto politico repubblicano. Per una bibliografia essenziale sulla storia del Movimento Sociale Italiano (MSI) e sulla sua legittimità rispetto alla Costituzione italiana, v. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini: le origini del neofascismo in Italia, 1943–1948, Bologna, 2006; P. Rosenbaum, Il nuovo fascismo. Da Salò ad Almirante. Storia del Msi, Milano, 1975; P. Ignazi, L’estrema destra in Europa, Bologna, 2000; P. Ignazi, Il polo escluso: profilo storico del Movimento sociale italiano, Bologna, 1998; Id., Fascists and neo-fascists, in E. Jones, G. Pasquino (a cura di), The Oxford Handbook of Italian Politics, Oxford, 2015; Archivio storico del Senato, Movimento sociale italiano (Msi) 1946 – 1995.
[30] Corte cost., sent. 74/1958. Tale orientamento sarebbe stato consolidato negli anni successivi, per ribadire, sotto differenti tonalità, che l’apologia punibile non è la manifestazione di pensiero pura e semplice, bensì quella che si traduce in azione e che, per dirla con le parole della Corte, «per la sua modalità integri un comportamento concretamene idoneo a provocare la commissione di delitti» (Corte cost., sent. 65/1970).
[31] La dottrina è stata introdotta dal giudice Oliver Wendell Holmes Jr. nella sua opinione di maggioranza in Schenck v. United States, 249 U.S. 47 (1919) affermando che «The question in every case is whether the words used are used in such circumstances and are of such a nature as to create a clear and present danger that they will bring about the substantive evils that the United States Congress has a right to prevent. It is a question of proximity and degree (…)».
In dottrina è stato evidenziato che, la Corte costituzionale successivamente, emettendo una serie di pronunce, rinvenibile nelle sentt. 71/1978, 87/1966, e 65/1970, avrebbe per l’appunto recepito nella propria giurisprudenza la teoria americana del “clear and present danger”, quale criterio per la verifica di un rischio effettivo all’ordine pubblico costituito (così, A. Cerri, Ordine pubblico, II) Diritto costituzionale, Enciclopedia giuridica, XXII, Roma, 1990, 7, 9).
[32] Tale è, dunque, l’interpretazione prevalente delle libertà di espressione (“free speech”) da ricondurre al Primo emendamento della Costituzione americana, secondo il quale: «Congress shall make no law respecting an establishment of religion or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances». Infatti, un differente orientamento porterebbe a una «standardizzazione» delle idee, per opera dei principali gruppi dominanti, come alternativa che non è compatibile con il Primo emendamento della Costituzione americana; come puntualmente esorcizzato in Terminiello v. Chicago, 337 U.S. 1 (1949), «For the alternative would lead to standardization of ideas either by legislatures, courts, or dominant political or community groups».
[33] È stato il caso del movimento dei “Fasci italiani del Lavoro” (TAR Lombardia, sent. 105/2018), e, qualche tempo prima, della lista intitolata “Fascismo e libertà”, la cui esclusione dalla tornata elettorale amministrativa celebratesi nel maggio 2012, in Abruzzo, è stata motivata dal Consiglio di Stato, sez. V, sent. 1355/2013, sulla scorta del fatto che la XII Disp. Trans. e finale «fissando un’impossibilità giuridica assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento politico formatosi e operante in violazione di tale divieto possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e condizionarne le libere democratiche dinamiche», cfr. sul punto, G.E. Vigevani, Origine e attualità del dibattito sulla XII disposizione finale della Costituzione: i limiti della tutela della democrazia, cit., 39 (nota 46), e più diffusamente F. Blando, Movimenti neofascisti e difesa della democrazia, Costituzionalismo.it, 1, 2014, 12 – 14.
[34] P. Nuvolone, Il problema dei limiti alla libertà di pensiero nella prospettiva logica dell’ordinamento, in Aa. Vv., Legge penale e libertà di pensiero, Padova, 1966, 353, e sempre P. Nuvolone, Le leggi penali e la Costituzione, Milano, 1953, 46: «[…] il nostro ordinamento s’ispira al principio del pluralismo dei partiti e della convertibilità della maggioranza: tali principi implicano l’inammissibilità di qualsiasi forma di controllo «ideologico» e «politico» che tenda a limitare l’espressione del pensiero nella sua forma associata, ed esigono quindi il pieno riconoscimento e la più rigida garanzia della manifestazione del pensiero in materia politica».
[35] V. anche D. Piccione, cit., 1949, secondo cui, «tali dispositivi si sostanziano in tecniche di tutela già costituzionalmente previste e anche per questo non colpiscono mai la sola manifestazione del pensiero ma gravano, per solito, sull’associazionismo politico o, in casi limite, sull’elettorato politico passivo: esse dunque creano un filtro contro le concezioni che non possono e non debbono farsi valere per la formazione della politica nazionale»
[36] A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, III ed., Padova, 2003, 45 ss.
[37] L’espressione è stata utilizzata da S. Curreri, cit.; Sullo scioglimento di Forza Nuova e, più in generale, delle forze politiche che agiscono con metodo non democratico, in LaCostituzione.info, 19 ottobre 2021; Perché Forza Nuova va sciolta, ma non per decreto, in Il Riformista, 15 ottobre 2021.
[38] È da questo punto di vista la più ampia circolazione delle più diverse idee, compatibilmente con i principi costituzionali, ad essere stata finanche concepita da C. Esposito la via migliore per l’affermazione dello Stato democratico: «Si vuole solo affermare che non la democraticità dello Stato ha per conseguenza il riconoscimento di quella libertà, sicché possa determinarne la funzione ed i limiti, ma che le ragioni ideali del riconoscimento di quella libertà (e cioè del valore della persona umana) porta tra le tante conseguenze anche alla affermazione dello Stato democratico» (C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, 12).
Per un approfondimento sul concetto di “martketplace of ideas” vedi, J. S. Mill, On Liberty, London, 1859; J. Milton, Areopagitica, London, 1644. Per i principali casi di giurisprudenza della Corte Suprema USA che hanno consolidato il principio nelle corti statunitensi comuni: Abrams v. United States, 250 U.S. 616 (1919); Terminiello v. Chicago, 337 U.S. 1 (1949), Brandenburg v. Ohio, 395 U.S. 444 (1969). Per una bibliografia più recente sul concetto, v. R. Coase, Markets for goods and Market for ideas, American Economic Review, 1974; A.I. Goldman, J.C. Cox, Speech, truth, and the free market for ideas, Cambridge, 1996; M. N. Browne, J. Rex, D.L. Herrera, Potential Tension Between a “Free Marketplace of Ideas” and the Fundamental Purpose of Free Speech, in Akron Journal of Constitutional Law and Policy, 2012.
[39] «(…) though the silenced opinion be an error, it may, and very commonly does, contain a portion of truth; and since the general or prevailing opinion on any subject is rarely or never the whole truth, it is only by the collision of adverse opinions that the remainder of the truth has any chance of being supplied», v. J. S. Mill, On liberty, London, 1859, 72, trad. it., Sulla libertà, Milano, 2000.
Un certo valore allo scontro dialettico è assegnato dalla Corte suprema americana in Terminiello v. Chicago, 337 U.S. 1 (1949), la cui sentenza consegna all’interprete una particolare concezione della libertà di espressione allineata con la teoria del “marketplace of ideas”, nonché con l’affine considerazione di ogni verità come una verità “parziale”: «Accordingly, a function of free speech under our system of government is to invite dispute. Speech is often provocative and challenging».
[40] Si prendano in considerazione a titolo efficacemente esemplificativo gli artt. 18 e 21 della Legge fondamentale tedesca: il primo, nel tutelare la libertà di espressione afferma che «chi abusa della libertà di espressione delle proprie opinioni (…) per combattere i principi del libero ordinamento democratico, perde questi diritti fondamentali» (art. 18, c. 2, l.f. RFG); mentre, la seconda disposizione sulla libertà di associazione partitica dispone che «I partiti, che per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti mirino ad attentare al libero e democratico ordinamento costituzionale o a sovvertirlo o a mettere in pericolo l’esistenza della Repubblica Federale di Germania sono incostituzionali».
[41] Efficacemente esemplificativo dell’opposta esigenza è il seguente concetto espresso dagli ermellini che richiama sia l’aspetto identitario, sia l’ultronea necessità dell’accertamento dei presupposti modali che in seguito indicherà come necessari per l’applicazione del citato quadro normativo: «Dunque, proprio per quanto fin qui detto, non la tutela del mero “ordine pubblico materiale” deve ritenersi venire nella specie in gioco […] ma, in una visione di ben più ampio respiro, la stessa tavola dei valori costituzionali e democratici fondativi della Repubblica, efficacemente riassumibili nel bene dell’ordine pubblico democratico o costituzionale, posto in pericolo, a fronte dell’elemento modale – spaziale indicato dalla norma, da possibili consensi o reazioni a tali manifestazioni atti a turbare, anche ma non solo, la civile convivenza» (Considerato in diritto, punto 6.2.2.
[42] Se ne riporti a questo riguardo il relativo passaggio della pronuncia dei giudici: «Da tali considerazioni discende che, quanto meno ai fini della presente decisione, la distinzione tra un “pericolo concreto” ed un “pericolo astratto o presunto” finisca, a ben vedere, per divenire, nei fatti, evanescente una volta che si prenda contestualmente atto di come, per quanto appena detto, anche le previsioni contrassegnate da un pericolo presunto debbano coniugarsi con il principio di offensività» (Considerato in diritto, punto 6.2.4.).
[43] Considerato in diritto, punto 6.2.3.
[44] Corte., cost., sent. 19/1962
[45] A. Nocera, Manifestazioni fasciste e apologia del fascismo tra attualità e nuove prospettive incriminatrici, cit., 7. Da questo punto di vista, la sentenza degli ermellini appare richiamare lo stesso tenore espressivo della Cass. pen., sez. I, sent. 3791/1993, secondo la quale «La diffusione di tali ideologie produce la lesione della dignità dell’uomo e delle condizioni di pacifica convivenza democratica, fondate sulla reciproca tolleranza fra popolazioni di differente cultura ed etnia».
[46] Considerato in diritto, punto 8.
[47] Considerato in diritto, punto 9.1.
[48] C. Mortati, Costituzionalità nel disegno di legge per la repressione dell’attività fascista, in Id., Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza costituzionale repubblicana, Milano, 1972, 15-16.
[49] Considerato in diritto, punto 6.2.3.