Corte costituzionale, 12 gennaio 2023, n. 2 *
È costituzionalmente illegittimo l’art. 3, c. 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui include i telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo ai soggetti che si trovino nelle condizioni previste dallo stesso art. 3.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Le ordinanze di rimessione dei giudici a quo e la scelta della Corte costituzionale di procedere alla riunione e decisione con unica pronuncia. – 3. Sull’espressione “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente” e sull’esigenza dopo l’intervento della Corte costituzionale di un rapido intervento normativo. – 4. La violazione della garanzia costituzionale della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 15 Cost. come presupposto della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, c. 4, del Codice antimafia. – 5. Lo sviluppo contraddittorio del sistema di prevenzione. – 6. Il problema del fondamento costituzionale. – 7. Misure di prevenzione e misure di sicurezza. – 8. La riserva di legge in termini di prevedibilità e di proporzionalità. – 9. Osservazioni conclusive.
- Premessa.
La sentenza della Corte costituzionale n. 2 del 2023 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, c. 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli artt. 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui include i telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il Questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo. Il parametro costituzionale utilizzato è l’art. 15 Cost. nella parte in cui la norma costituzionale prevede che ogni limitazione della libertà di corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione debba essere disposta, con atto motivato, dall’autorità giudiziaria.
La decisione della Corte ha quindi un impatto diretto su due tematiche di grande interesse.
La prima tematica è quella dell’applicazione delle garanzie previste dall’art. 15 Cost. ai divieti che il Questore può imporre all’utilizzo ed al possesso di mezzi di comunicazione. Il tema è, innanzitutto, quello della portata della riserva di legge e della riserva di giurisdizione previsti dalla norma costituzionale. Di qui però poi il ragionamento si allarga alla questione della necessaria garanzia dei diritti fondamentali nella società digitale. In questo senso, il cellulare o meglio lo smartphone, è una delle principali porte d’accesso alla società digitale e, quindi, ogni restrizione alla sua libertà di utilizzo finisce con riverberarsi su altri diritti costituzionali quali ad esempio la libertà di espressione, le libertà di partecipazione politica e le libertà economiche.
La seconda tematica è quella delle misure di prevenzione.
La decisione del giudice costituzionale, da un lato, ha evidentemente effetti immediati sulla legge che disciplina il potere del questore di disporre taluni divieti attraverso il cd. avviso orale. In particolare, la pronunzia cancella i telefoni mobili dal novero dei divieti imponibili dal Questore. Da un altro lato, essa riaccende necessariamente il dibattito sulle misure di prevenzione personali, in specie sulla durata minima e massima dei divieti anche quando imposti dal giudice.
- Le ordinanze di rimessione dei giudici a quo e la scelta della Corte costituzionale di procedere alla riunione e decisione con unica pronuncia
La pronunzia della Corte scaturisce dalla trattazione riunita delle questioni poste da due ordinanze di rimessione: la prima è un’ordinanza dell’11 marzo 2021 del Tribunale di Sassari nel procedimento penale a carico di L.A.; la seconda è un’ordinanza del 16 dicembre 2021 della Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi su un decreto con cui il Tribunale di Roma confermava le misure di prevenzione adottate dal Questore avverso B.M.
I casi e le ordinanze meritano un breve approfondimento perché non sono del tutto sovrapponibili.
Nel primo caso, siamo nell’ambito del primo grado di un giudizio penale presso il Tribunale. Il P.M. ha esercitato l’azione penale nei confronti di L.A, ai sensi dell’art. 76, c. 2, del decreto legge n. 159 del 2011, per la violazione del divieto disposto dal Questore di possedere qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, ivi compresi i telefoni cellulari, imposto con avviso orale ai sensi dell’art. 3, c. 4, del medesimo decreto. Il Tribunale, con ordinanza 11 marzo 2021, sospende il giudizio e rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimità su due norme.
La prima norma della cui costituzionalità il giudice a quo dubita è il c. 4 dell’art. 3 del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui consente al questore di inibire qualunque mezzo di comunicazione radiotrasmittente e, quindi, l’uso del telefono cellulare. I parametri costituzionali invocati sono l’art. 15 Cost. e, nello specifico, la riserva all’autorità giudiziaria con atto motivato di qualunque provvedimento che abbia effetti limitativi sulla libertà in questione, nonché l’art. 3 Cost. sul presupposto che il potere attribuito al Questore, se esteso ai telefoni cellulari, sia irragionevolmente più ampio di quello attribuito all’Autorità giudiziaria nell’ambito delle misure di prevenzione imponibili ai sensi del medesimo atto normativo.
La seconda norma della cui costituzionalità il giudice a quo dubita è la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 76, c. 2, dalla quale il giudizio penale è scaturito. In questo caso, il giudice a quo non argomenta circa il parametro costituzionale che si intende violato.
Nel secondo caso, l’ordinanza è della Corte di Cassazione. Il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, aveva rigettato l’opposizione proposta da B.M. avverso l’avviso orale del Questore contenente lo specifico divieto di possesso e uso di “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente” e “di accesso ad Internet”, ricomprendendo tra gli strumenti vietati anche i telefoni cellulari. Contro il rigetto, B.M proponeva ricorso in Cassazione.
La norma della cui costituzionalità si dubita è sempre l’art. 4, c. 3, del d.lgs. n. 159 del 2011 con specifico riferimento, in questo caso, alla mancata previsione nella norma in questione di indicazioni circa la durata minima e massima dei divieti imponibili dal Questore. Il dispositivo della seconda ordinanza di rimessione non centra la questione sugli apparati di radiocomunicazione e sui telefoni cellulari, ma si limita all’indicazione della norma. Nel considerato in diritto dell’ordinanza, che secondo la giurisprudenza consolidata della Corte definiscono il thema decidendum, l’attenzione è innanzitutto dedicata all’assenza nella normativa in esame della durata minima e massima dei divieti imponibili. Di qui poi le argomentazioni si dipanano con particolare riferimento alla libertà di comunicazione ed alla libertà di espressione creando quella connessione, che la Corte costituzionale ha poi ritenuto preponderante ai fini della riunione dei due casi, con il divieto di possesso ed utilizzo di telefoni cellulari.
Il parametro di costituzionalità, stante anche il diverso fuoco dell’ordinanza, è in questo caso più articolato.
Il giudice a quo lamenta, infatti, sia la violazione dell’art. 15 Cost., sia dell’art. 117, c. 1, Cost.
Per ciò che riguarda l’art. 15 Cost., il giudice a quo sottolinea come il potere del questore di vietare l’uso dei telefonini violi la garanzia della riserva di giurisdizione ivi stabilita.
Per ciò che attiene all’art. 117, c. 1, il giudice a quo utilizza la norma interposta per segnalare come i divieti che secondo la legge il Questore può imporre senza la previsione di alcun limite temporale non superano i test di legittimità che la Corte di Strasburgo ha definito per la valutazione delle restrizioni che impattano sugli artt. 8 (diritto alla vita privata) ed art. 10 (libertà di espressione) della CEDU. Con il riferimento all’art. 10 CEDU viene in considerazione anche l’art. 21 Cost., e di qui l’argomento per cui lo smartphone non rappresenta solo un mezzo di comunicazione, ma pure uno strumento, ormai imprescindibile, per essere informato ed informarsi.
Nello specifico, per il giudice a quo la mancanza di una qualsivoglia indicazione legislativa sui termini di durata dei divieti imponibili conduce al mancato rispetto del primo parametro elaborato dal Corte EDU, ossia l’esistenza di una sufficiente base legale per la restrizione che, secondo la giurisprudenza della Corte stessa, deve essere declinata non solo in senso formale, ma anche come “qualità della legge” e quindi “prevedibilità dell’effettiva restrizione”. Inoltre, sempre secondo il giudice a quo, la mancata previsione di termini di durata violerebbe anche il criterio di proporzionalità per cui la restrizione deve sempre essere proporzionata allo scopo legittimo perseguito.
La Corte costituzionale, nelle considerazioni in diritto, dà conto del fatto che le due ordinanze hanno in comune solo una delle due disposizioni censurate e che soprattutto i parametri costituzionali sono solo in parte coincidenti. Tuttavia, la Corte procede alla riunione valorizzando la supposta violazione in entrambi i casi della garanzia costituzionale della riserva di giurisdizione contenuta nell’art. 15 Cost.
Nel valorizzare questa assonanza però finiscono con rimanere in ombra alcune dissonanze, tra le quali è lecito menzionare il fatto che la seconda ordinanza sembrerebbe tutta centrata sui termini di durata dell’avviso orale rafforzato e che il riferimento al divieto di possesso ed uso “di apparati di comunicazione radiotrasmittente” e del telefonino sembrerebbe piuttosto legato al tentativo di fondare il dubbio di costituzionalità sulla violazione dell’art. 117, c. 1, per mancato rispetto delle norme della convenzione EDU in materia di libertà di espressione e di comunicazione .
Inoltre, ma la questione è effettivamente poco chiara, il giudice a quo menziona il divieto di accesso ad Internet come divieto specifico imposto dal Questore e non come conseguenza del divieto di possesso ed uso del telefonino. Su questo punto, occorre però dire che l’ordinanza non offre una sicura ricostruzione dell’avviso orale del Questore e, quindi, la questione potrebbe anche dirsi viziata da inammissibilità.
In ogni caso, la riunione decisa dalla Corte costituzionale comporta la restrizione del thema decidendum alla legittimità dell’art. 3, c. 4, che disciplina il divieto di possesso ed utilizzo del telefono mobile come mezzo riconducibile nell’ambito delle espressioni “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente”, ai sensi della costante giurisprudenza di legittimità cristallizzatasi in diritto vivente[1].
- Sull’espressione “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente” e sull’esigenza dopo l’intervento della Corte costituzionale di un rapido intervento normativo
La scelta della Corte costituzionale di riconoscere come diritto vivente la collocazione del telefono mobile tra i mezzi che il Questore può vietare nell’ambito del suo potere di interdire “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente” richiede di analizzare tale espressione.
In proposito occorre dire che essa è certamente ampia, ma, al tempo stesso, tecnicamente precisa.
Per “apparato di comunicazione radiotrasmittente” si intende, secondo la terminologia tecnica, il complesso dei congegni che in un impianto servono allo scopo di comunicare attraverso apparecchi o stazioni radio. Vi rientrano sia gli apparecchi riceventi, sia quelli trasmittenti, sia le stazioni radio sia, infine, tutti i congegni che possono essere utilizzati per la creazione di una rete di comunicazione elettronica. Questo tipo di apparati si basa sull’uso di un trasmettitore radio che invia un segnale radio a una specifica frequenza, e di un ricevitore radio che riceve il segnale e lo converte in informazioni utilizzabili.
Non fa alcuna differenza, da un punto di vista tecnico, che si tratti di apparati di comunicazione radiotrasmittenti che operino su (o costruiscano) reti di comunicazione elettronica private oppure pubbliche.
Le reti private, vale la pena ricordare, sono quelle installate per servizi svolti nell’esclusivo interesse proprio del soggetto che crea la radio. In questo contesto, possiamo collocare radio amatori, ponti radio, Radio-lan ed apparecchiature di debole potenza come, ad esempio, i walkie talkie o le reti wireless di gestione domotica. Le reti pubbliche sono, invece, quelle utilizzate interamente per fornire servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico, quali ad esempio le reti di comunicazione mobile o reti di accesso ad Internet. Esse sorgono a partire dagli anni novanta, prima in modalità analogica, cd. TACS, poi in modalità digitale, cd. GSM[2]. Oggi vanno sviluppandosi attraverso il 5G nell’ottica di un’integrazione tra reti fisse e reti mobili.
È assai probabile che il Legislatore del 2001, come rilevato dai giudici a quo e dalla Corte costituzionale stessa, con l’inserimento dell’espressione “apparati di radiocomunicazione radiotrasmittente” nel novero dei possibili divieti imponibili dal Questore, volesse riferirsi solo a quegli apparati di comunicazione radiotrasmittenti che servono reti private proprio perché strumenti eccezionali di comunicazione rispetto a quelli comunemente utilizzati.
Pertanto è lecito supporre che il Legislatore volesse imporre un divieto di possesso ed uso di strumenti di comunicazione non ordinari, per impedire a soggetti “pericolosi” di servirsene per uno scopo criminoso, sfuggendo al contempo ad eventuali indagini e controlli di polizia. D’altra parte, come rilevato dalla Corte stessa e dai giudici a quo, la straordinarietà del mezzo è il filo conduttore, unitamente alla loro utilizzabilità per commettere reati, che unisce tutti gli oggetti di cui il Questore può vietare l’utilizzo a soggetti cd. pericolosi ai sensi del c. 4 dell’art. 3 del d.lgs. n. 159 del 2011[3].
Con ampia citazione di pronunce dei giudici di legittimità, la Corte costituzionale ha dato atto del fatto che l’espressione sia stata nel tempo oggetto di un’interpretazione che ha ricondotto sulla base del dato testuale i telefoni mobili – che pure sono apparecchi in grado di inviare e ricevere attraverso le sole reti pubbliche – nell’ambito dei possibili divieti del Questore. Questa interpretazione ha indubbiamente allargato ad un mezzo ordinario il potere di divieto del Questore.
Detto in altri termini, la giurisprudenza di legittimità non ha trovato sufficienti appigli per corroborare una diversa interpretazione volta a valorizzare l’intenzione originaria del Legislatore e superare un dato testuale così tecnicamente chiaro. In questo modo, non ha potuto che fondarsi un diritto vivente per cui i telefoni mobili, rientrando nell’ambito della locuzione di legge, possono essere oggetto di un divieto totale o parziale di possesso ed utilizzo.
Questa capacità espansiva, che la nozione tecnica ha dimostrato, non è, però, priva di conseguenze ed il giudizio in questione può rappresentare solo la punta d’iceberg del problema che tale vis expansiva comporta. Gli apparati di comunicazione radioelettrici sono oggi utilizzati in una vasta gamma di applicazioni, come la comunicazione tra stazioni radio, la comunicazione tra veicoli e stazioni di controllo, la comunicazione tra aerei e torri di controllo, la comunicazione tra navi e porti, la radiodiffusione, la televisione, la domotica e qualsivoglia trasmissione tra sensori intelligenti. Si considerino quanti nuovi apparecchi radio l’innovazione tecnologia abbia messo a disposizione dei cittadini: oltre agli smartphone e ai tablet, vi sono smartwatch ed ogni altro tipo di sensore di cui le nostre abitazioni e le nostre città ormai abbondano. Per cui se il Questore può vietare ai sensi di legge davvero qualsiasi “apparato di comunicazione radiotrasmittente” (esclusi, dopo la sentenza in oggetto, i telefoni mobili) ci troviamo davanti ad un potere che finirà con essere esorbitante e toccare molteplici tecnologie tra cui anche quelle serventi all’Internet of Things (IoT), all’IA e alla robotica.
Inoltre, occorre anche considerare che la realtà, già oggi con il diffondersi del 5G, è quella dell’integrazione tra reti fisse e reti mobili o radiotrasmittenti[4]. Il che finisce per rendere inutile qualsiasi distinzione e certamente ancor meno giustificata un’espressione che si riferisce alle apparecchiature che veicolano gli impulsi solo su reti radioelettriche. Non solo perché non c’è più nulla di eccezionale ma anche perché le reti fisse sono sempre più integrate da pezzi di rete mobile e viceversa.
Infine, sia anche consentito dire che la trasformazione è avvenuta anche con riferimento agli strumenti (o apparecchiature) atti a compiere il disegno criminoso. Per rimanere sulla questione dei telefoni mobili, più che il divieto in sé del possesso ha oggi senso nell’ottica di limitare le capacità di occultamento delle proprie azioni semmai vietare taluni software o talune app specifiche che promettono la non captazione dei messaggi. L’art. 3, c. 4, del Codice antimafia già prevede che il Questore con l’avviso orale possa vietare programmi informatici ed altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni e messaggi. Dobbiamo aspettarci quindi un nuovo diritto vivente che allarghi il potere di divieto ad alcune app di messaggistica online?
È evidente dunque allora che, aldilà del diritto vivente che si è venuto a creare nel caso di specie o potrebbe affermarsi in futuro, la pronunzia qui in esame con cui la Corte costituzionale dichiara l’incostituzionalità della norma nella parte in cui include i telefoni cellulari tra gli “apparati di comunicazione radiotrasmittente” mostra anche quanto tale terminologia e la norma in sé meritino una rapida revisione da parte del Legislatore.
Non già perché le espressioni usate non siano chiare quanto piuttosto perché l’evoluzione tecnologia ha finito con ricondurre al loro interno strumenti tutt’altro che straordinari modificandone la portata e la ratio.
- La violazione della garanzia costituzionale della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 15 Cost. come presupposto della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, c. 4, del Codice antimafia
La Corte costituzionale fonda, come si è anticipato, l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale proposta sull’art. 15 Cost. che, come noto, richiede che ogni limitazione della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sia disposta dall’autorità giudiziaria, con le procedure, le modalità e i tempi che compete al legislatore prevedere, nel rispetto della riserva di legge assoluta prevista dalla Costituzione.
L’assunto di partenza nel ragionamento della Corte costituzionale è che le regole generali «attinenti al mezzo che, per comunicare, venga di volta in volta utilizzato sono cosa in sé diversa dalla disciplina relativa al diritto fondamentale»[5]. Il che significa che non tutte le restrizioni normative all’utilizzo di uno specifico mezzo di comunicazione si convertono automaticamente in una restrizione del diritto di comunicare.
Ciò sicuramente accade, per la Corte, quando il mezzo disciplinato riveste, come nel caso del telefono mobile, un particolare rilievo «a livello relazionale e sociale». In questo caso, infatti, la disciplina del mezzo, sempre citando testualmente la Corte, «finisce per penetrare all’interno del nucleo essenziale del diritto», così determinando «evidenti ricadute restrittive sulle libertà tutelate in Costituzione».
In altri termini, le restrizioni all’uso del telefono mobile si convertono sempre, considerata la diffusione dello strumento in ogni ambito della nostra vita lavorativa, familiare e personale, in restrizioni del diritto fondamentale qui oggetto di considerazione.
Tali restrizioni possono essere ritenute legittime, secondo l’argomentare del giudice costituzionale, solo se fondate su interessi pubblici costituzionalmente rilevanti e se sono rispettate le garanzie costituzionali.
Con riferimento al primo profilo, ossia al fondamento sostanziale delle restrizioni disciplinate nell’art. 3, c. 4 del Codice antimafia, la Corte afferma che le esigenze di prevenzione e difesa sociale sono certamente interessi di natura costituzionale astrattamente idonei a fondare restrizioni che incidono sui diritti fondamentali in generale e sulla libertà di comunicazione nello specifico[6].
Del pari, però, le restrizioni all’uso di questo specifico mezzo debbono rispettare le garanzie costituzionali che, ai sensi dell’art. 15 Cost., sono la riserva assoluta di legge e la riserva di giurisdizione che, come noto, impone che la misura limitativa nei confronti del singolo individuo sia disposta «con atto motivato dell’autorità giudiziaria»[7].
La Corte non si esprime sulla base legale della restrizione. In termini formali non può dubitarsi del rispetto della riserva di legge assoluta visto che la fonte su cui si fonda la restrizione è un decreto legislativo. Certo, l’ordinanza della Cassazione poneva in dubbio il fatto che la norma rispettasse il criterio legale posto dal test di legittimità elaborato dalla CEDU, nella misura in cui l’art. 3, c. 4, non consente la prevedibilità della restrizione, mancando i termini massimi e minimi della misura del Questore. Qui c’è tutta la distanza che intercorre tra la riserva di legge assoluta che in ambito interno è formale e il criterio di legalità ricostruito dalla Corte di Strasburgo che è, invece, tutto sostanziale[8].
In ogni caso, la Corte costituzionale evidenzia come certamente la riserva di giurisdizione di cui all’art. 15 Cost. non possa dirsi rispettata, posto che l’avviso orale, con cui si vieta l’uso ed il possesso del mezzo, è disposto dal questore che è, a tutta evidenza, un’autorità amministrativa. Ciò viola, secondo la Corte costituzionale, l’obbligo secondo il quale deve essere il giudice con atto motivato ad imporre la limitazione. Tale obbligo per costante giurisprudenza è sempre da intendersi a monte del provvedimento e non a valle del medesimo, nel senso di un controllo giurisdizionale. Questo vale in ogni caso in cui la Costituzione prevede una riserva di giurisdizione, ma a maggior ragione per l’art. 15 Cost., che proprio a fini di estrema garanzia, non prevede nemmeno la possibilità, come ad esempio per la libertà personale o per la libertà di stampa, che le forze di pubblica sicurezza o gli ufficiali di polizia giudiziaria possano procedere alla limitazione, salvo conferma successiva del giudice[9].
Per cui, anche il fatto come rammenta l’Avvocatura di Stato nelle sue difese, che avverso l’avviso orale sia possibile ricorso davanti al Giudice – ed una delle ordinanze di rimessione scaturisce proprio da tale ricorso – non è di per sufficiente a superare la censura proposta[10].
La decisione della Corte costituzionale che dichiara l’incostituzionalità della legge nella parte in cui, per diritto vivente, include il telefono mobile tra gli oggetti che il Questore può vietare è ovviamente ampiamente condivisibile e sana un’illegittimità che ha negli anni recenti ingiustamente ristretto la libertà di comunicazione di soggetti destinatari di tale divieto disposto in via amministrativa.
Del pari assai opportuno è il ragionamento della Corte (e dei giudici a quo) con cui si sottolinea la necessità di valutare con estrema attenzione le restrizioni all’uso di terminali (quali i telefoni mobili) che rappresentano oggi la porta d’accesso alla società digitale. Questo diverrà sempre più importante, e non solo nell’ambito delle misure di prevenzione, quando si riuscirà a far emergere nel dibattito quanto possa essere afflittivo oggi il divieto dell’utilizzo delle rete. In questo senso la pronunzia della Corte segna un passaggio fondamentale per l’emersione della questione.
Ciò non toglie però che dall’argomentare della Corte costituzionale, per giungere alle sue conclusioni, possano sorgere alcune rilevanti perplessità soprattutto laddove alcuni passaggi del reasoning divenissero un modus operandi.
La prima perplessità è legata alla distinzione che la Corte sembra operare tra mezzi che hanno un particolare rilievo, a livello relazionale e sociale, e mezzi che ne sono privi. Per i primi, ogni divieto d’uso comporterebbe una restrizione del diritto (per la Corte del suo nucleo essenziale) che, invece, non vi sarebbe per i secondi o, almeno, non sarebbe “automatico”. Solo nel primo caso sembrerebbe allora sorgere l’obbligo di rispettare le garanzie costituzionali, per imporre la restrizione ossia la riserva di legge assoluta e la riserva di giurisdizione.
Per cui, se si interpreta correttamente l’argomentare della Corte, eventuali restrizioni all’uso di altri mezzi di comunicazione, che certamente oggi non sono così rilevanti a livello relazionale, familiare e lavorativo, come, ad esempio, i walkie talkie, non comporterebbero restrizioni del diritto e, quindi, sarebbero esentate dal rispetto delle garanzie dell’art. 15 Cost.
Una tale lettura non sembra essere in linea con quella prevalente in dottrina, secondo cui l’art. 15 Cost., tutela l’uso anche di mezzi arcaici e superati dal progresso tecnico e di mezzi non convenzionali, come sempre si usa esemplificare, sono i segnali di fumo ed i piccioni viaggiatori[11]. D’altra parte che l’intenzione dei Costituenti fosse quella di estendere le garanzie costituzionali all’uso di qualsivoglia mezzo di comunicazione è testimoniato dal fatto che dopo aver centrato la norma sulla corrispondenza inserirono la clausola valvola dell’«ogni altro mezzo di comunicazione»[12].
In questo senso la distinzione tra mezzi rilevanti e non rilevanti che sembra leggersi in controluce nel reasoning della Corte parrebbe un criterio di limitazione della clausola aperta dell’art. 15 Cost. Un criterio che però non è corredato di indici di valutazione per ricondurre ogni singolo mezzo in una o l’altra categoria.
La diversa rilevanza sociale e relazionale dei mezzi di comunicazione è certamente da tenere in conto nel senso che il Legislatore, nel disciplinare l’utilizzo di uno specifico mezzo, laddove intenda imporre limitazioni o divieti, deve espressamente valutare come le sue scelte possano incidere, in modo diverso a seconda del mezzo oggetto di disciplina, sui diritti sottostanti. In questo modo verificando l’impatto delle restrizioni sul diritto, anche alla luce dei test di legittimità adottati dalla Corte di Strasburgo. Altra cosa però è ritenere che se il mezzo non è attualmente rilevante dal punto di vista sociale o relazionale allora la restrizione d’uso può essere disciplina da una fonte non legislativa ed imposta da un’autorità amministrativa.
A maggior ragione, il criterio del “particolare rilievo relazionale e sociale” di un mezzo non può comunque, ad avviso di chi scrive, essere ribaltato sulla riserva di giurisdizione prevista nell’art. 15 Cost., poiché essa opera non in astratto, ma in concreto rispetto alla limitazione imposta nei confronti di una specifica persona. Una diversa lettura comporterebbe un’attenuazione della garanzia costituzionale della riserva di giurisdizione che invece opera a presidio delle libertà individuali perché ha lo scopo di verificare, caso per caso, in concreto se ricorrono le condizioni per la limitazione previste dalla legge in astratto[13].
Per cui, ad avviso di chi scrive, come è il giudice a dover vietare al singolo l’uso del telefonino così è il giudice a dover disporre il divieto individuale (a meno che la legislazione non vieti l’uso in sé dello strumento) del walkie talkie o di altro mezzo di comunicazione. D’altra parte, nessuno dubita che un’eventuale limitazione della corrispondenza epistolare debba essere disposta sempre dal giudice – non fosse altro perché essa è l’archetipo della corrispondenza dell’art. 15 Cost., anche se nessuno può sostenere che tale mezzo sia oggi rilevante a livello relazionale e sociale[14].
Naturalmente, la Corte costituzionale, nella pronuncia qui in commento, si limita a pronunciarsi sui telefoni mobili e, quindi, quanto qui sopra detto potrebbe ritenersi solo un “inutile caveat” dell’Autore rispetto all’argomentare del giudice costituzionale.
Il fatto però che il giudice costituzionale non abbia optato, come pure forse avrebbe potuto, per una pronuncia di illegittimità consequenziale della norma, nella parte in cui facoltizza il Questore a vietare l’uso di qualsivoglia apparato di comunicazione radio elettrica, impone di porsi almeno il problema[15].
È se, infine, questa scelta fosse stata dettata da una comprensibile linea di prudenza per non privare il Questore di uno strumento significativo, allora questo mostrerebbe ancora di più la necessità di un intervento legislativo di riforma della fattispecie legale per rimettere la medesima in asse sia con l’innovazione tecnologica che con le garanzie costituzionali.
- Lo sviluppo contraddittorio del sistema di prevenzione
Nel momento in cui l’osservatore si appresta a svolgere qualche riflessione più generale sul nostro sistema di prevenzione è colpito da una serie di marcate e inquietanti contraddizioni, che riguardano almeno due lati della questione, uno storico-istituzionale e uno più giuridico. Contraddizioni che, vale la pena insistere, sono tipicamente italiane, senza che questo significhi disconoscere talune tendenze comune rilevabili in altri ordinamenti, riferite a quelle che sono state definitive le misure di exprisonment[16].
Da un punto di vista storico-istituzionale, basta porsi una domanda: rispetto al periodo liberale e a quello fascista, pur limitandoci alle misure di prevenzione personali, possiamo dire di essere stati spettatori di una decisa contrazione o anche di una cauta riduzione, oppure lo scenario è di accrescimento, di allargamento? Ancora più specifica, la domanda: se guardiamo al numero di misure di prevenzione personali e ai possibili destinatari, come siamo messi oggi rispetto a ieri?
Si potrà sostenere, con buone ragioni, che il problema non è di quantità ma di qualità e che, quindi, il legislatore è intervenuto in un’ottica di razionalizzazione, con provvedimenti mirati e specifici, insomma che esistono oggi problemi che non esistevano ieri e che, di conseguenza, l’intervento del legislatore è comprensibile, anche giustificabile. Se esistono più misure di prevenzione personali e più destinatari è perché i problemi da affrontare sono aumentati, non diminuiti.
Questa può essere una chiave di lettura. Non di meno, ed è qui il senso di vertigine che sprigiona una fortissima contraddittorietà, è mai possibile che esistano oggi delle misure di prevenzione che non esistevano ieri e che la platea dei possibili destinatari è cresciuta in modo esponenziale e soprattutto irrazionale, senza che si riesca a comprendere alcun “preciso” disegno di politica criminale?
D’altro canto, le misure di prevenzione personali non costituiscono una eccezione. A chi non verrebbe di accostare la crescita esponenziale dei destinatari delle misure di prevenzione personali alla crescita altrettanto incessante dei reati ricompresi nel catalogo di cui all’art. 4 bis, c. 1, dell’ordinamento penitenziario? Così come non risulta comprensibile prevedere un unico regime, quello ostativo, per l’associazione di tipo mafioso, la tratta di persone, la pornografia minorile, la violenza sessuale di gruppo e la riduzione in schiavitù, allo stesso modo è mai possibile che una specifica misura di prevenzione personale possa essere utilizzata nei confronti di autori di furti, rapine e truffe, verso chi detiene e cede in modo illecito degli stupefacenti, e ancora autori di reati sessuali contro minorenni, di fatti di ubriachezza, di atti osceni, di invasione di edifici e di reati in ambito familiare?
A poco servirebbe sottolineare che nel primo caso (regime ostativo) si tratta di un accostamento voluto da una (precisa?) scelta nel tempo del legislatore, mentre nel secondo (misure di prevenzione personali) l’accostamento è figlio della stessa idea che sorregge la prevenzione, vale a dire la (sospetta) pericolosità, riferendosi a quella generica e a quella rispetto alla sicurezza pubblica[17]. Non servirebbe a molto poiché la conclusione sarebbe identica: qui non sono in discussione gli sforzi tassativizzanti in particolare della Cassazione, e nemmeno la necessità di giungere ad uno statuto unitario dell’apprezzamento della pericolosità sociale[18], quello che si vuole dire è che spostare il fuoco di mira della prevenzione dallo status sociale e politico (oziosi, vagabondi, dissidenti) alla (sospetta) pericolosità ha comportato una gigantesca crescita della platea dei destinatari della prevenzione, peraltro senza che da questo punto di vista possa fare alcuna differenza la competenza questorile o giudiziaria di volta in volta prevista.
Del resto, la cruciale riforma del 2008, grazie alla quale si è reso possibile applicare disgiuntamente misure di prevenzione personali e patrimoniali, aveva solo in teoria tra i propri scopi anche quello di circoscrivere l’utilizzo delle prime (sempre che avesse davvero questo scopo). Lo dimostra la solerzia con la quale il legislatore ha prontamente inventato nuove misure di prevenzione personali, rispetto agli atti persecutori e alla violenza domestica, un legislatore che in ogni caso aveva già introdotto il DASPO in occasione di eventi sportivi, che ad oggi conosce pure la variante del DASPO urbano. Fino ad alcune recenti innovazioni, come l’ammonimento questorile per prevenire e contrastare il cyberbullismo (e abbiamo rischiato di avere la sorveglianza speciale anche per gli invasori di terreni per raduni pericolosi…).
Mettiamola in questo modo, senza esasperare alcuna posizione. Se anche fosse vero che non sta scritto da nessuna parte che la prevenzione andrebbe limitata, usarla per le più disparate ipotesi fa solo male alla stessa prevenzione. Anche chi ritiene non debba esplodere, dovrà convenire che così finirà per implodere[19].
- Il problema del fondamento costituzionale
Esiste anche un altro profilo che restituisce una significativa contraddittorietà. In questo caso il problema è di natura giuridica. Proviamo a riassumerlo. Il punto di partenza non può non essere la Costituzione. Questo non significa che prima non esistevano problemi, al contrario, come dimostrano le posizioni critiche di Francesco Carrara, alle quali si è soliti accostare in posizione più permissiva quelle di Oreste Ranelletti, anche se in certi passaggi cautamente permissiva[20].
La questione è che con la Costituzione davvero cambia tutto, e questo perché il primo problema che non poteva non essere affrontato era costituito dalla compatibilità costituzionale in sé delle misure di prevenzione, delle quali in modo esplicito il testo costituzionale non se ne occupa. In effetti, ieri come oggi, il primo problema rimane questo: le misure di prevenzione, se vogliamo specifichiamo personali, stanno dentro o fuori il perimetro della Costituzione, e se stanno dentro dove cercarne la base giustificatrice? Una avvertenza di cautela è d’obbligo: bisogna far dire alla Costituzione quello che non dice in modo esplicito, cosa che si può fare, ma muovendosi appunto con cautela, atteggiamento obbligatorio di fronte al “non normato” costituzionale[21].
Lo scenario contraddittorio che si presenta ai nostri occhi è il seguente, ed è stato come sempre magistralmente evidenziato da Francesco Palazzo[22]. Questa la domanda: ma è mai possibile che, nella ricerca del fondamento costituzionale del sistema della prevenzione, un ruolo di particolare rilievo è stato nel corso del tempo assunto dall’art. 2 Cost., proprio la disposizione che più di altre è in grado di mostrare la consapevole scelta dei nostri costituenti di trovare un pregevole equilibrio tra l’ispirazione liberale e l’ispirazione solidaristica a fondamento dell’intera architettura costituzionale? Se il fondamento costituzionale delle misure di prevenzione è rintracciato nell’art. 2 Cost., cosa ne resta del principio personalista, che si innerva di tutta quella ispirazione liberale-garantistica non certo estranea ai nostri costituenti? Non è forse vero che finisce per assurgere a ruolo tiranno quello della difesa sociale, che pur si può considerare presente nell’istanza solidaristica?
Una vera e propria contraddizione. Plateale, radicale, e questo proprio perché, passi la semplificazione, per richiedere l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, dentro ai quali si potrebbero pure intravedere le esigenze di prevenzione, si finisce con il sacrificare, in alcuni casi parzialmente, in altri del tutto, quelli che sono i diritti inviolabili della persona, singolarmente considerata e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Si potrà anche sostenere che non si realizza alcuno schiacciamento, che non è vero che la difesa sociale finisca con il divorarsi lo sviluppo della personalità dei singoli. Certo, non sempre si arriva a tanto, ma resta che in alcuni casi è esattamente quello che succede (ad esempio, ma solo ad esempio, vietando senza limiti di tempo l’utilizzo di un cellulare), ed appunto trovarne il fondamento costituzionale riferendosi all’art. 2 Cost. è assai contraddittorio.
D’altro canto, il riferimento all’art. 2 Cost. è importante anche sotto un diverso angolo di visuale. Nella ricerca del fondamento costituzionale della prevenzione si è sostenuto che le misure di prevenzione personali applicate dal questore potevano essere disposte proprio dal questore, e non dall’autorità giudiziaria, poiché non andavano ad intaccare diritti e libertà per i quali la Costituzione prevede espressamente, insieme alla riserva di legge, anche la riserva di giurisdizione. Il riferimento correva soprattutto all’art. 16 Cost., ai sensi del quale, per “motivi di sicurezza”, è possibile limitare la circolazione e il soggiorno in qualsiasi parte del territorio nazionale, limitazione che può essere disposta in via generale dalla legge, senza alcuna espressa menzione di un obbligatorio e preventivo intervento dell’autorità giudiziaria[23].
Ora, i motivi di sicurezza dei quali discorre l’art. 16 Cost. hanno molto a che fare con la difesa sociale, quanto meno con la pericolosità, possono pertanto ricondurci dentro l’art. 2 Cost., in questo modo facendo riemergere nuovamente la contraddizione. Se ci si “avvicina” all’art. 2 Cost. non è per confermare la sufficienza della sola riserva di legge, semmai per reclamare la necessità anche della riserva di giurisdizione!
Si consideri pure inconsistente il riferimento ai doveri inderogabili di solidarietà, e ci si riferisca all’art. 2 Cost. nella parte in cui assegna alla Repubblica il compito di garantire i diritti inviolabili. Lasciamo anche stare il problema della fattispecie aperta o chiusa. Partiamo dall’assunto che dentro l’art. 2 Cost. esista il fondamento del sistema di prevenzione, proprio perché così la Repubblica garantisce i diritti inviolabili.
Resta che non è questo il modo di ragionare nemmeno della Corte costituzionale, e la sentenza qui in commento è perfettamente coerente con un determinato modo di approcciare la questione, che sembra proprio (non a caso) voler scansare il riferimento all’art. 2 Cost. Si potrà criticare l’approccio da sempre seguito dalla Corte, dalla capostipite e lontanissima sentenza n. 27 del 1959, in base al quale la prevenzione è una esigenza e una regola fondamentale di ogni ordinamento, e come tale pervade la Costituzione, che vuole garantire un ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti tra i cittadini[24]. Non di meno, una cosa è sostenere l’immanenza della prevenzione in ogni ordinamento, altra è dire che trova fondamento nel principio personalistico-solidaristico. Non possiamo in definitiva disgiungere l’art. 2 Cost., riconoscere e garantire i diritti formano una endiadi unitaria. E se non è possibile che si disgiunga, allora non aggiunge granché rafforzare il riferimento alle misure di sicurezza contenuto nell’art. 16 Cost. richiamandosi all’art. 2 Cost., il quale ad essere precisi non pare proprio dica che per limitare un determinato diritto sia sufficiente la sola riserva di legge.
- Misure di prevenzione e misure di sicurezza
Un’ultima osservazione per quanto riguarda il fondamento costituzionale del sistema della prevenzione. Constatate le difficoltà di riferirsi all’art. 2 Cost., e preso atto che il riferimento all’art. 16 Cost. era comunque pur sempre esperibile se limitato ad una delle diverse libertà costituzionalmente presidiate, si è esplorato un diverso tentativo ricostruttivo, rivolto all’art. 25 Cost., il cui c. 3 espressamente si riferisce alle misure di sicurezza, prevedendo unicamente la garanzia della riserva di legge, non anche di giurisdizione.
Questo tentativo ha dalla sua un punto di appoggio più stabile, meno sfuggente, rispetto al riferimento all’art. 2 Cost.: bastava estrapolare la pericolosità a base delle misure di sicurezza ed estenderla a base delle misure di prevenzione e il gioco era fatto. Una accertata, l’altra supposta, ma sempre di sicurezza si tratta, anche se nel secondo caso sotto forma di prevenzione.
In entrambi i casi, questa la tesi, il legislatore era legittimato dalla Costituzione ad intervenire, e questo proprio perché ciò che contava era la pericolosità della persona, da considerare tanto prima quanto dopo la commissione di un reato. Un concetto onnivoro quello della pericolosità, che si associa al “concetto-sfinge” della difesa sociale[25], ma che riusciva a giustificare l’intervento statale prima e dopo il delitto. La prevenzione e la sicurezza hanno scopi differenti, ma ciò che conta è la possibilità per il legislatore di intervenire a fronte della pericolosità della persona.
Va da sé che anche in questo caso una qualche contraddizione è innegabile, non fosse altro per il fatto che la Costituzione si riferisce alle sole misure di sicurezza, non a quelle di prevenzione, peraltro ben conosciute ai nostri costituenti. Non è mai consigliabile far dire al testo quello che il testo non dice, ma se il testo è la Costituzione non può essere negata cittadinanza a concetti che si riescono a ricavare in via di interpretazione sistematica. Fermo restando che così facendo si dovrebbero anche valutare le conseguenze sul favor libertatis, il modo antico per giustificare la più recente massima estensione dei diritti.
Ad ogni modo, questa sorta di fusione tra misure di sicurezza e misure di prevenzione si è prodotta anche a livello di legislazione ordinaria. Ed è proprio il caso di specie oggetto di questo commento a dimostrarlo. Non vi è dubbio che l’avviso orale costituisca una misura di prevenzione (personale), ma quando assume la veste rinforzata è perché le prescrizioni che si possono imporre e che il preposto è tenuto a rispettare, pena la commissione di un reato, possono essere disposte solo nei confronti di persone definitivamente condannate per delitti non colposi. Quali siano questi delitti nessuno lo può sapere in anticipo, così come nessuno può sapere quanto e se conterà il tempo trascorso dalla condanna definitiva, non di meno le condanne (definitive) esistono e quindi si può vietare il possesso e l’utilizzo del cellulare per evitare altri reati a chi potrebbe commetterne di nuovi. Questa è la prevenzione travestita da sicurezza. Il mescolamento è palese[26].
Trova copertura nel c. 3 dell’art. 25 Cost. un siffatto sistema di prevenzione mescolato con un sistema di sicurezza? Una domanda non semplice, sulla quale la Consulta nella sentenza qui in commento non prende posizione, accontentandosi di affermare che «le esigenze di prevenzione e di difesa sociale ben possono giustificare (…) misure restrittive, e queste possono incidere anche sui diritti fondamentali». La Corte poteva non dire alcunché rispetto all’art. 25, c. 3, Cost., non essendo stato invocato come parametro dalle ordinanze di rimessione. Ciononostante, quello appena riportato è l’unico passaggio motivazionale esplicito grazie al quale la Corte “fonda” la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione, il che è forse sintomo di un qualche disagio. Non si richiama l’art. 2 Cost., troppo alto il rischio di pervenire ad esiti contraddittori, ma nemmeno ci si riferisce all’art. 25, c. 3, Cost., e questo forse perché si avverte un qualche disagio o, ulteriore ipotesi, perché la prevenzione è immanente nel sistema, quasi a dire che la prevenzione è comunque giustificata, indipendentemente da questo o quest’altro articolo costituzionale al quale ci si vuole riferire.
In altri termini, è come se la Corte sviasse il problema del fondamento costituzionale delle misure di prevenzione, quanto meno in termini di riferimento testuale, per occuparsi in modo spedito della impossibilità di limitare nello specifico la libertà di comunicazione, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria, salva la riserva di legge. Questa è un’altra possibile interpretazione, la quale però non riesce a mascherare quella che potrebbe essere ancora una diversa prospettiva di interpretazione: non è che la Corte, incardinando tutto il suo ragionamento dentro l’art. 15 Cost., è anche riuscita a non prendere posizione sulla riserva di legge in sé, almeno in termini di garanzia della prevedibilità/proporzionalità della misura, questione che pure era stata espressamente sollevata e che la Corte ha ritenuto assorbita? Non è che la Corte, nel caso in cui si fosse riferita anche alla qualità della legge, intesa in termini di prevedibilità, avrebbe dovuto prendere una qualche posizione in riferimento all’eventuale collocamento delle misure di prevenzione dentro le misure di sicurezza, visto che il c. 3 dell’art. 25 Cost. prevede espressamente solo (appunto) la riserva di legge[27]?
Quelle esposte sono unicamente delle domande, questioni sulle quali riflettere, ma che per l’ennesima volta riconsegnano uno scenario contraddittorio: pochi rimpiangeranno il potere del questore di vietare l’uso del cellulare, non di meno siamo proprio sicuri che quello che non poteva fare il questore ora lo possa fare tranquillamente l’autorità giudiziaria, vale a dire disporre il divieto senza alcuna prestabilita fissazione della sua durata, nel minimo e nel massimo? Una contraddizione: si sposta la competenza dal questore all’autorità giudiziaria, e questo va bene, ma l’oggetto della competenza in discussione rimane del tutto illeso, come se bastasse il giudice a rendere costituzionalmente legittima una misura in sé applicata senza garanzie di prevedibilità, meno che mai di proporzionalità. Leopoldo Elia ci mise in allerta quando, prendendo posizione in tema di misure di prevenzione, discusse del «mito della giurisdizionalità», di «virtù taumaturgiche» dell’intervento giurisdizionale, del «fascino del principio di giurisdizionalità»[28].
Meglio oggi rispetto a ieri, va ripetuto. Ma sembra proprio che “morto il Re, viva il Re”, se riguardiamo la questione nell’ottica della prevedibilità e proporzionalità. Nel prosieguo vedremo se, in assenza di un intervento del legislatore, il giudice, dopo la sentenza della Corte, può davvero vietare il cellulare entro l’avviso orale rinforzato disposto dal questore. Qui si vuole dire un’altra cosa, evidenziare che il problema forse sta addirittura più in alto, al cuore classico e tradizionale della legalità: una legge può attribuire ad un giudice un potere sconfinato, cosa ne rimane della soggezione del giudice alla legge, nel momento in cui il giudice può decidere quello che vuole rispetto alla durata di un determinato divieto, non di poco momento, come è quello di non poter utilizzare, oggi, un cellulare? Siamo dentro la costituzionalmente ammessa discrezionalità del giudice, oppure siamo più vicini ad un vero e proprio arbitrio, visto che non esiste alcun perimetro entro il quale il giudice è chiamato a decidere? Arbitrio è un termine impegnativo, ma qui lo si utilizza in un preciso significato, vale a dire riferito ad una scelta non perimetrata, senza cornice[29].
Forse questo è il destino più generale del sistema della prevenzione. Lo si giurisdizionalizza e certo non si manca di tassativizzarlo, ma a tutto esiste un limite, che non è tanto la razionalizzazione constatativa e prognostica (l’inquadramento in una delle fattispecie di pericolosità, generica o qualificata, e la attuale pericolosità per la sicurezza pubblica), quanto la possibilità di attribuire un potere ad un organo che non potrebbe proprio avere, vale a dire quello di limitare un diritto garantito dalla Costituzione senza alcuna preventiva conoscibilità da parte dell’interessato di quanto durerà nel tempo siffatta limitazione[30].
Non molto differente da quanto accaduto in tema di pena perpetua. Da parte di molti si è sostenuta la incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, e va bene. Alla fine anche la Consulta è stata di questa opinione. Ma ci si dovrebbe oggi accorgere che il prezzo pagato è stata la granitica conferma dell’ergastolo in sé. In molti dicevano che il problema non era l’ergastolo, ma l’ergastolo ostativo. Anzi, il secondo era un problema proprio perché il primo non lo era. Speculare accade rispetto alla misura di prevenzione personale qui in discussione. Una delle prescrizioni che prima poteva imporre il questore oggi la può disporre unicamente l’autorità giudiziaria, rimanendo in capo al questore in ipotesi la sola possibilità di proposta. Ma questo non significa una granitica conferma della prescrizione in sé, indipendentemente dalla esistenza di una calibrazione temporale rispetto alla durata?
E se proprio la si vuole dire tutta: così come continua ad essere problematica la possibilità per il giudice della cognizione di pronunciare condanna ad una pena che ha come fine pena il “mai”, non dovrebbe apparire problematica allo stesso modo la possibilità per il giudice della prevenzione di prescrivere un divieto senza alcuna durata? La duplice domanda può essere riassunta in una, di straordinaria importanza: se il costituzionalismo è prima di tutto limite al potere, ad ogni tipo di potere, punitivo e preventivo non fa differenza, possiamo ritenerci soddisfatti ogni qual volta osserviamo l’esistenza di un potere che punisce o previene senza alcuna limitazione temporale? Consideriamo anche immanente nel sistema il potere preventivo, ma non dovrebbe essere in ogni caso esercitabile dando la possibilità ai destinatari delle prescrizioni imposte di prevederne la durata, di comprenderne la proporzionalità?
- La riserva di legge in termini di prevedibilità e di proporzionalità
Vediamo a questo punto qualche ulteriore riflessione a proposito delle argomentazioni della Consulta. In primo luogo, la Corte svolge subito in apertura qualche puntualizzazione per meglio delimitare l’oggetto del sindacato, vale a dire unicamente la possibilità per il questore di vietare in tutto o in parte il possesso o l’utilizzo del cellulare nei confronti del destinatario di un avviso orale rinforzato. Il “piccolo” problema poteva scaturire dal fatto che l’ordinanza della Cassazione, nel dispositivo, censurava l’intero pacchetto di divieti che può disporre il questore, ma la Corte chiarisce che, in realtà, la motivazione dell’ordinanza non lascia alcun dubbio a proposito, e quindi l’oggetto del giudizio costituzionale è solo il divieto riguardante il cellulare, non gli altri. E aggiunge, sempre la Corte: il presupposto «del tutto corretto» dal quale partono entrambe le ordinanze è che il questore possa vietare anche solo uno o alcuni degli oggetti vietabili. Non vi è dubbio che sia così, il questore può decidere di vietare un solo oggetto, più oggetti o anche tutti gli oggetti, quello che fa la differenza è la motivazione riguardante il nesso tra il divieto o i divieti e la pericolosità.
A tale proposito vale la pena aggiungere uno spunto. Ad oggi, nessuno è a conoscenza di come nel corso del tempo i diversi questori hanno deciso di intervenire. Si tratta di una ricerca non ancora portata a compimento, sempre sia possibile compierla, visto che le questure dovrebbero dare la possibilità di analizzare, per motivi di ricerca e di studio, gli avvisi orali rinforzati. Al massimo, ci si può riferire ad alcune pronunce nelle quali i giudici di legittimità hanno annullato con rinvio ordinanze di rigetto della opposizione avverso un avviso orale rinforzato, il quale applicava in modo congiunto tutti i divieti applicabili. Un esempio, l’ordinanza n. 13765 del 25 febbraio 2020 della I sezione penale della Cassazione: il giudice doveva esprimersi sul divieto di possedere o utilizzare «mezzi di trasporto modificati al fine di aumentare la potenza o la capacità offensiva», applicato dal questore congiuntamente a tutti gli altri divieti. Nel caso di specie – che, ripetiamo, non sappiamo se è più o meno frequente nella prassi, in termini di indistinta applicazione di tutti i divieti – prima il questore e dopo il giudice avevano ragionato come si fa con la pesca a strascico, applicando tutti i divieti, e nello specifico non avevano considerato che il ricorrente lavorava presso un’impresa di autosoccorso, che utilizzava mezzi di trasporto appositamente modificati![31].
Come che sia, e dopo aver esaminato il diritto vivente rispetto alla inclusione dei cellulari dentro gli apparati di comunicazione radiotrasmittente ed aver ricostruito il senso complessivo dell’art. 15 Cost.[32], la Corte ritiene che la inviolabilità della libertà di comunicazione significa che il suo contenuto essenziale può subire restrizioni solo quando necessarie alla tutela di un interesse pubblico costituzionalmente rilevante, nel rispetto della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione.
In cosa consiste questo interesse pubblico costituzionalmente rilevante? Ecco il passaggio della Corte, già richiamato in precedenza: «Le esigenze di prevenzione e difesa sociale ben possono giustificare, si è detto, misure restrittive, e queste possono incidere anche sui diritti fondamentali».
Non una parola in più. Se si cercasse nella pronuncia della Corte il fondamento costituzionale della prevenzione quello che si troverebbe sarebbe solo questa frase. Certo, si tratta di un assunto che la Corte fa proprio basandosi sulla sua precedente giurisprudenza. Nulla di nuovo. Ma è sufficiente? L’impressione è che la Corte intenda tagliar corto sulla faccenda per giungere velocemente alla (giusta) dichiarazione di incostituzionalità. Il punto è però che in questo modo qualcosa non torna.
Nel momento in cui le esigenze di prevenzione e di difesa sociale giustificano misure restrittive (rectius preventive), che possono incidere sui diritti fondamentali, siamo sicuri sia sufficiente la loro giurisdizionalizzazione? E torniamo al problema della assenza di una durata prestabilita dei divieti imposti con l’avviso orale rinforzato. Sicuramente, la Corte esclude in modo molto chiaro la possibilità che il successivo intervento del giudice possa emendare il suo mancato intervento preventivo. La famosa “fattispecie a formazione progressiva” non è quindi sufficiente, il giudice deve intervenire all’atto di limitare il diritto, non (eventualmente) dopo quando il diritto è stato limitato.
Il problema è però che se si rimuove il potere del questore e lo si sostituisce con quello del giudice non si capisce bene come possano stare insieme la riserva (assoluta) di legge e la riserva di giurisdizione. Il giudice assicura il contraddittorio e il diritto di difesa, questo è certo. Ma in che modo si può valutare un divieto che nasce senza alcuna durata prestabilita, se non come carente di prevedibilità e di proporzione? A queste domande la Corte non risponde, visto che assorbe il dubbio di costituzionalità riferito a siffatto problema, e si limita a dire che «la decisione (di vietare il possesso o l’utilizzo del cellulare, ndr) non può che essere dell’autorità giudiziaria, con le procedure, le modalità e i tempi che compete al legislatore prevedere, nel rispetto della riserva di legge prevista dalla Costituzione».
Certo, la Corte chiama in causa un futuro intervento del legislatore, ma a conti fatti lascia in piedi, fino a quando il legislatore deciderà di intervenire, un sistema che non appare affatto rassicurante, essendo ad oggi solo due le alternative immaginabili: o nessuno potrà vietare, dentro un avviso orale, il possesso o l’utilizzo di un cellulare, considerata l’assenza di un qualsiasi modello legale di riferimento, oppure, se lo può fare il giudice, il suo margine di azione appare sconfinato, riferendosi alla possibilità di vietare il cellulare senza alcuna durata prestabilita, nel minimo e nel massimo[33].
Proprio su questo problema serve qualche ulteriore considerazione. Che il problema esista pare fuori discussione. Non sarebbe corretto sostenere che la Corte ha deciso per l’assorbimento perché in qualche modo ora l’autorità giudiziaria sarà in grado di riferirsi ad una disposizione legislativa utile, al fine di porre una durata minima e massima del divieto di possedere o utilizzare in tutto o in parte il cellulare. Non è così, la Corte assorbe e basta, limitandosi a dire che spetta al legislatore prevedere le procedure, le modalità e i tempi dell’intervento dell’autorità giudiziaria.
Il punto è che l’assorbimento deciso dalla Corte appare troppo tranchant. Non dice in alcun modo quello che moltissime altre volte ha detto, ossia che il problema esiste ma non può essere il giudice costituzionale ad intervenire, pena violazione della discrezionalità del legislatore. Ben vero che i moniti della Consulta spesso restano inascoltati, non di meno una cosa è evidenziare il problema e poi tirare il freno a mano, altra è assorbire senza spendere alcuna parola sopra una questione di indiscutibile delicatezza.
Si dirà: lasciando in disparte il non potersi sostituire al legislatore (che, ribadiamo, non viene affermato), la Corte ha deciso di assorbire perché non poteva fare altrimenti. Non poteva riferirsi alla durata della sorveglianza speciale, che è misura diversa rispetto all’avviso orale. Non poteva richiamare la precedente durata nel massimo di tre anni dello stesso avviso orale, poiché tutto dipendeva dal fatto che era il presupposto della sorveglianza speciale, che poteva essere disposta al massimo entro tre anni dall’applicazione dello stesso avviso orale[34]. E non poteva certo dire che il divieto di utilizzare il cellulare non intaccava alcuna libertà costituzionalmente presidiata, e che di conseguenza si poteva non prevedere alcuna prestabilita durata minima e massima. Ancora: non poteva dire che sarà il giudice, caso per caso, a decidere la durata minima e massima del divieto, e questo perché avrebbe significato un implicito accostamento tra potestà punitiva e potestà preventiva. Pochi nutrirebbero dubbi sulla possibilità per il legislatore di prevedere una pena senza alcuna durata prestabilita, nel minimo e nel massimo. Sarebbe una pena sicuramente incostituzionale, sproporzionata per definizione. Ma, appunto, la prevenzione è un’altra cosa, non entrano in gioco direttamente la responsabilità penale, la colpevolezza, la rieducazione.
E però, si potrebbe controbattere: tutto vero, ma il principio di eguaglianza, che genera la proporzionalità, vale sempre, anche nel campo della prevenzione e, del resto, questo era il parere dell’ordinanza di rimessione della Cassazione. D’altro canto: possibile che possa durare per tutta la vita del destinatario un divieto contenuto in un avviso orale, proprio quella che di solito è definita come la più blanda tra le misure di prevenzione personali[35]?
Le Corte, rifacendosi al principio di eguaglianza/proporzione, poteva/doveva valutare la questione della mancanza di una durata prestabilita del divieto. Un divieto è ingiusto quando si applica senza durata prestabilita: se è la legge, anche dopo un intervento della Consulta, a permettere ad un giudice di operare in questo modo, la legge è incostituzionale.
Non si potevano rinvenire agganci ad altre disposizioni legislative presenti nell’ordinamento? La Corte aveva le mani legate? Sta tutto qui il senso dell’assorbimento? La verità è che il motivo dell’assorbimento non lo sapremo mai, la Corte non lo spiega in modo esplicito, limitandosi come detto ad affermare che compete al legislatore stabilire procedure, modalità e tempi dell’intervento dell’autorità giudiziaria.
Si badi però che in realtà l’assorbimento non dipende affatto dalla impossibilità per la Corte di invadere il campo spettante al legislatore, visto che in modo esplicito si dice solo che «la rimozione del potere di decisione spettante al questore, infine, comporta l’assorbimento delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale sollevate», tra le quali appunto quella relativa alla possibilità di porre il divieto senza un limite minimo e massimo di durata.
L’assorbimento utilizzato del resto non pare essere figlio di scelte legate ad una qualche economia processuale. E non pare proprio potersi discutere di implicazione né logica né consequenziale tra motivo assorbente e motivo assorbito, visto che l’assenza di durata prestabilita del divieto esisteva prima quando lo poteva imporre il questore ed esiste ora che lo può disporre solo l’autorità giudiziaria. Assorbire come ha fatto la Corte non significa solo non pronunciarsi sul chiesto, ma significa anche lasciare in piedi un sistema che non accontenta nessuno: ci sarà il contraddittorio, ci sarà la difesa, ci sarà ora tutto quello che prima non poteva esserci, non di meno ci sarà un giudice che avrà le mani libere, potrà fare scelte (sulla durata del divieto) da nessuno prevedibili. Dicendo questo non si vuole “attrarre” il sistema preventivo dentro il sistema penale, si vuole unicamente comprendere se il primo in sé sta dentro o fuori il sistema costituzionale, dove l’eguaglianza vale sempre, la riserva (assoluta) di legge deve significare anche prevedibilità e la soggezione del giudice alla legge significa accettazione della discrezionalità e rifiuto dell’arbitrio[36].
In definitiva. Prima che il Parlamento intervenga, il sistema che fuoriesce dalla pronuncia della Consulta è il seguente. Il questore decide l’avviso orale e se del caso anche di imporre una o più restrizioni, tranne quella di vietare il possesso e l’utilizzo in tutto o in parte del cellulare. Per questa sarà l’autorità giudiziaria a decidere, e ad oggi non è nemmeno chiaro se il questore può fare una qualche proposta (si dovrebbe estendere in via analogica la possibilità prevista per la sorveglianza speciale). Il risultato è quindi questo: un avviso orale rinforzato deciso dal questore, che potrebbe contenere un divieto prescritto dal giudice. Un avviso orale rinforzato dal duplice volto, uno questorile e uno giurisdizionale. Ovviamente, il legislatore resta libero di intervenire come meglio ritiene e quindi, ragionando in astratto, può stabilire limiti di durata riguardanti tanto i divieti posti dal questore quanto il divieto prescritto dal giudice. Fino a questo (auspicabile) intervento, rimane in vita una irragionevole possibilità di vietare il cellulare, senza indicare alcuna durata minima e massima. Il che significa la possibilità di limitare la libertà di comunicazione in modo del tutto arbitrario. Per ovviare a questo, senza un intervento del legislatore, non resta che tornare alla Consulta.
- Osservazioni conclusive
Qualche breve osservazione conclusiva appare necessaria. Da un lato, la sentenza della Corte qui analizzata non può che essere accolta con grande soddisfazione, in quanto realizza insieme due obbiettivi che in pochi potrebbero ritenere di scarsa rilevanza. Rafforza nel suo complesso la tutela costituzionale della libertà e della segretezza della comunicazione, in modo particolare le capitali garanzie rappresentate dalla riserva (assoluta) di legge e dalla riserva di giurisdizione. E lo fa intervenendo in materia di misure di prevenzione personali applicate dal questore, riferendosi all’avviso orale rinforzato e ad un divieto che questo può contenere, quello di possedere e utilizzare il cellulare, davvero oggi uno strumento senza il quale si corre il rischio di essere in qualche modo esclusi dal tessuto sociale, che poi significa mettere a repentaglio lo svolgimento della personalità sia come singolo sia nelle formazioni sociali.
Dall’altro lato, la decisione della Corte apre una serie di interrogativi di rilevante significato, alla cui risoluzione non può che essere preposto in prima battuta il legislatore, tanto per quanto attiene all’intervento su «ogni altra forma di comunicazione» (diversa dal cellulare), quanto per quello che attiene alla garanzia dei principi di proporzionalità e di prevedibilità del limite ora imponibile dell’autorità giudiziaria. Sono questi interventi che il legislatore non può rimandare. A differenza di altri casi, non appare semplice intravedere un qualche “chiarimento” che potrebbe offrire i giudici comuni. Chiaro pertanto che se il legislatore tarderà, non sembra implausibile ipotizzare una nuova chiamata in causa della Corte costituzionale, uno scenario del resto non infrequente in tema di misure di prevenzione, anche rimanendo a quelle personali[37].
* Le osservazioni nel testo sono frutto del confronto tra i due Autori. I paragrafi 2, 3 e 4 sono specificamente ascrivibili a Marco Orofino e i paragrafi 5, 6, 7 e 8 Davide Galliani.
[1] Si v., ex multis, anche per i riferimenti dottrinari M. Cavino, Diritto vivente, in Dig. Pubbl., 2010. Un’interessante analisi dei casi in cui la Corte ha fatto ricorso a tale categoria è quella di L. Salvato, Profili del diritto vivente nella giurisprudenza costituzionale, St. n. 276, febbraio 2015, in cortecostituzionale.it/studiRicerche.do
[2] La disciplina delle reti private e delle reti pubbliche è oggi estremamente differenziata. Questa distinzione normativa è legata ai processi di liberalizzazione europea che si diffondono negli anni novanta e che hanno un primo consolidamento nel Framework 2002 e una successiva codificazione nel Codice europeo delle comunicazioni elettroniche.
[3] Non a caso gli altri oggetto di possibile divieto sono, ai sensi di legge, radar e visori notturni, indumenti e accessori per la protezione balistica individuale, mezzi di trasporto blindati o modificati al fine di aumentarne la potenza o la capacità offensiva, ovvero comunque predisposti al fine di sottrarsi ai controlli di polizia, armi a modesta capacità offensiva, riproduzioni di armi di qualsiasi tipo, compresi i giocattoli riproducenti armi, altre armi o strumenti, in libera vendita, in grado di nebulizzare liquidi o miscele irritanti non idonei ad arrecare offesa alle persone, prodotti pirotecnici di qualsiasi tipo, nonché sostanze infiammabili e altri mezzi comunque idonei a provocare lo sprigionarsi delle fiamme, nonchè programmi informatici ed altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni e messaggi.
[4] D’altra parte già oggi, laddove residua un telefono che noi definiamo fisso in quanto collegato alle reti che tradizionalmente indichiamo come reti fisse, siamo, in realtà, davanti a reti ibride. Ciò, in senso tecnico, non è nemmeno una novità se si pensa che i telefoni cordless esistono da venti anni.
[5] Si tratta di un’argomentazione diversa rispetto a quella pacifica in dottrina per cui l’art. 15 Cost. non riconosce al titolare del diritto di comunicare la disponibilità dei mezzi tecnici per farlo (il cd. diritto al mezzo). Tale dottrina si sviluppa soprattutto con riferimento all’art. 21 Cost. e di qui poi è applicata all’art. 15 Cost. V. in proposito C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1958, 27, nt. 58 e V. Crisafulli, Problematica della libertà d’informazione, in Il Politico, 1964, 291 Argomento però sempre temperato, dal favor per la «tendenziale espansione della possibilità di comunicazione» come ricorda M. Olivetti, Diritti fondamentali, Torino, 2020, 235, citando a questo proposito la sentenza della Corte cost. n. 1030/1988.
[6] Si rinvia sul punto alle osservazioni di D. Galliani nei prossimi paragrafi.
[7] Secondo alcuni anche la riserva di giurisdizione dovrebbe essere considerata assoluta perché non tollererebbe alcuna eccezione. Si v. la ricostruzione di M. Olivetti, Diritti fondamentali, cit., 236 e, in particolare, l’analisi dell’unico caso in cui la Corte costituzionale nella sent. 1114/1966 sembrò orientarsi in maniera diversa nello scrutinio della legge che consentiva all’amministrazione postale il fermo provvisorio (non il blocco né l’apertura) della corrispondenza (v. art. 13 Cod. post).
[8] Questa differenza ha come rovescio della medaglia il fatto che ai sensi della Convenzioni restrizioni ai diritti fondamentali possano discendere da norme giuridiche non di rango primario, purché sia rispettato il principio di prevedibilità, mentre la nostra Costituzione, a maggior garanzia in taluni casi richiede la fonte primaria. V. sulla distinzione M. Betzu, La riserva assoluta di legge come principio politico e la legge come principio gnoseologico, in Costituzionalismo, 2, 2013, 10. Sia consentito rinviare sul punto anche M. Orofino, La libertà di espressione tra Costituzione e Carte europee dei diritti, Torino, 2014, 46-48.
[9] V. sull’interpretazione della scelta del Costituente come orientata dalla necessità di offrire alla libertà di comunicazione maggiori garanzie di tutela perché nel caso della comunicazione esiste per definizione anche un terzo coinvolto v. A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, II, Padova, 1992.
[10] Ben potrebbe il Questore, afferma la Corte – quasi suggerendo al Legislatore una possibilità di intervento – suggerire l’adozione di un tale provvedimento, ma dovrebbe essere il giudice ad adottarlo.
[11] V. sul punto la ricostruzione riassuntiva di F. Donati, Art. 15, in R. Bifulco – A. Celotto – M. Olivetti (a cura di), Commentario della Costituzione, Torino, 2006, 364.
[12] La «clausola aperta o valvola» aveva come scopo proprio garantire l’applicabilità del paradigma ad ogni mezzo idoneo a realizzare una comunicazione di tipo interpersonale senza dover ricorre a forzature interpretative. V. P. Giocolo Nacci, La libertà di corrispondenza, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, vol. XII, Padova, 1990, 121. V. in proposito su come questa apertura sia stato voluta dai Costituenti, anche R. Zaccaria – A. Valastro – E. Albanesi, Diritto dell’informazione e della comunicazione, Padova, 2013, 75-76. L’unico limite all’applicazione della clausola potrebbe essere riferito a mezzi o oggetti che non sono specificamente atti a comunicare. V. però anche contro tale possibile limitazione della norma costituzionale P. Barile I diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, Bologna, 1984, 165.
[13] V. in proposito anche per i rimandi dottrinari, F.G. Pizzetti, Giurisdizione: riserva di (voce), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, vol. III, Milano, 2006, 2740 ss.
[14] Se non per le persone detenute in carcere per le quali, stante l’impossibilità di utilizzare altri mezzi, la corrispondenza epistolare permane il mezzo più rilevante. Il che chiaramente rappresenta un’osservazione che dovrebbe spingere anche ad interrogarsi sugli effetti della privazione totale dell’accesso alle nuove tecnologie per tali persone.
[15] Le opinioni in dottrina sull’illegittimità consequenziale sono oscillanti come d’altra parte la giurisprudenza. Esse riguardano se dare un’interpretazione più o meno ampia all’art. 27 della legge n. 87 del 1953. Così A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2001, 289 Le ragioni a sostegno di un’interpretazione più ampia sono esigenze di economia processuale, certezza del diritto e, soprattutto, la necessità espungere dall’ordinamento costituzionale il maggior numero possibile di norme illegittime per tutela tempestivamente i valori costituzionali. V. sul punto G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 214
[16] Si veda H. Noorda, Exprisonment: Deprivation of Liberty on the Street and at Home, in Criminal Justice Ethics, 2023, 1 ss.
[17] Se stiamo all’avviso orale, la giurisprudenza dei TAR non lascia alcun dubbio. La misura può essere motivata con riferimento «anche a semplici sospetti a carico del destinatario, purché basati su elementi di fatto che ne facciano ragionevolmente ritenere l’appartenenza a una delle menzionate categorie», vale a dire quelle della pericolosità generica. Non solo: «il giudizio sulla pericolosità sociale del soggetto avvisato non richiede la commissione di specifici reati, essendo sufficiente che l’Autorità di polizia sospetti semplicemente della presenza di elementi tali da ritenere la configurabilità, nel soggetto destinatario dell’avviso, di una personalità propensa a seguire particolari comportamenti antigiuridici». Tanto il giudizio constatativo (quello che inquadra nella pericolosità generica) quanto quello prognostico (quello sulla attuale pericolosità per la sicurezza pubblica) sono quindi basati sul semplice sospetto. Quando l’avviso diviene rinforzato deve esserci stata condanna definitiva per almeno due delitti non colposi: non uno, ma due o più, come si esprime in modo inequivoco l’art. 3, c. 5, del codice antimafia, e come del resto si è espressa la giurisprudenza di legittimità. Si veda per citazioni della giurisprudenza dei TAR, compresi i passaggi sopra citati: F. Basile, Manuale delle misure di prevenzione. Profili sostanziali, con la collaborazione di E. Zuffada, II ed., Torino, 2021, 93 ss.
[18] Si veda R. Magi, Per uno statuto unitario dell’apprezzamento della pericolosità sociale. Le misure di prevenzione a metà del guado?, in Diritto Penale Contemporaneo, 3, 2017.
[19] Si veda R. Bartoli, Misure di prevenzione: costituzionalmente legittime soltanto per le organizzazioni criminali, intervista condotta da L. Tombelli, in C. Conti (a cura di), Criminalità mafiosa: memoria e cultura della legalità. Nel ricordo di Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi, Milano, 2022, 121 ss., secondo il quale le misure di prevenzione possono essere applicate solo alla criminalità organizzata, e questo perché solo qui, una volta che perdura l’organizzazione, si possono ricavare i sospetti di reato dai precedenti, potendosi sganciare la misurazione dell’attualità del pericolo e riferirla alla persistenza o meno di legami con la stessa organizzazione, da accertare in termini reali ed effettivi. Valutare la pericolosità senza l’accertamento di un fatto rischia di girare a vuoto in presenza di reati istantanei e mono-soggettivi.
[20] La più esauriente ricostruzione resta quella di D. Petrini, La prevenzione inutile. Illegittimità delle misure praeter delictum, Napoli, 1996, in specie si veda tutto il cap. I dedicato a Carrara e il cap. II al dibattito nella dottrina classica.
[21] Si veda A. Ruggeri, Il “non normato” costituzionale e le sue specie (2022), ora in Id., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. XXVI. Studi dell’anno 2022, Torino, 2023, 568.
[22] Si veda F. Palazzo, Per un ripensamento radicale del sistema di prevenzione ante delictum, in Criminalia, 2017, 133 ss.
[23] Si usa il verbo al passato, rispetto al riferimento all’art. 16 Cost., poiché è fuorviante giustificare la competenza questorile dal momento che per limitare la libertà di circolazione e soggiorno è sufficiente la riserva di legge, dichiarandosi soddisfatti dal successivo ed eventuale intervento dell’autorità giudiziaria, la famosa fattispecie a formazione progressiva. Quello che occorre fare è comprendere di volta in volta quale diritto costituzionalmente presidiato finisce con il limitare questo o quest’altro divieto contenuto nell’avviso orale rinforzato, per restare alla nostra misura personale. Si potrà anche sostenere che non sempre è necessaria la riserva di giurisdizione, ma ancora una volta questo per caso significa che allora si può prevedere qualsiasi cosa in una legge? Discutere di prevenzione significa discutere pertanto di limiti, anche fuori dalle garanzie della riserva di legge e di giurisdizione, ad esempio di limiti legati alla ragionevolezza e alla proporzionalità.
[24] Si veda M. Ruotolo, Art. 13, in R. Bifulco – A. Celotto – M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., 321 ss.
[25] Così F. Bricola, Forme di tutela “ante-delictum” e profili costituzionale della prevenzione (1975), ora in Id., Politica criminale e scienza del diritto penale, Bologna, 1997, 35.
[26] Dire che la sicurezza ha un campo più ampio di intervento della prevenzione è dire cosa vera, riferendosi alle ipotesi previste dal legislatore. Ma dirlo significa accedere alla prima contenitore anche della seconda, non solo della seconda, ma anche della seconda.
[27] Anche perché nella altalenante giurisprudenza costituzionale sul riferimento testuale dal quale derivare le legittimità della prevenzione è comunque capitato un qualche deciso riferimento al c. 3 dell’art. 25 Cost., dal momento in cui misure di prevenzione e di sicurezza appartengono a «due species di un unico genus…ferme restando le differenze di struttura, settore di competenza e modalità applicative»: sentenza n. 291 del 2013, che introduce l’obbligo di rivedibilità ex officio della pericolosità nel caso di una misura di prevenzione rimasta sospesa per la detenzione della persona). Da ultimo, sulla giurisprudenza costituzionale si vedano G.P. Dolso, Le misure di prevenzione personali nell’ordinamento costituzionale, in F. Fiorentin (a cura di), Misure di prevenzione personali e patrimoniali, Torino, 2018, 41 ss. e E. Zuffada, La prevenzione ante delictum: alla ricerca di un fondamento costituzionale, in Criminalia, 2020, 253 ss.
[28] Senza determinatezza legislativa, aggiungeva, la giurisdizionalità si trasforma in mito, «anzi in una species appartenente alla più ampia categoria del mito della imparzialità»: si veda L. Elia, Libertà personale e misure di prevenzione (1962), ora in Id., Studi di diritto costituzionale (1958-1966), introduzione di G. Zagrebelsky, Milano, 2005, 475.
[29] Questo è il termine impiegato anche da Leopoldo Elia, quando sosteneva che non poteva la giurisdizionalità surrogare o compensare l’attenuazione della legalità, intesa soprattutto come determinatezza. Ad ogni modo, il ragionamento era (ed è) impeccabile, e lo si può riferire anche alla prevedibilità-proporzionalità: «non si può parlare di vera giurisdizionalità laddove non si realizza in pieno il principio di legalità. Altrimenti si riesce piuttosto a dislocare la sede dell’arbitrio, che a creare nuovi strumenti di garanzie per i cittadini» (L. Elia, Libertà personale e misure di prevenzione, cit., 497). Arbitrario era il potere del questore, arbitrario è il potere del giudice, nel momento in cui la legge permette di applicare un divieto senza alcun limite prestabilito di durata. Peraltro, analizzando il passato, e proprio in riferimento all’ammonizione, antesignana dell’avviso orale, anche Giuliano Amato ha utilizzato il termine arbitrio. Il riferimento correva al sistema preventivo messo in piedi con il TUPS del 1865, il primo del Regno d’Italia. Una volta che l’individuo rientrava in una delle tre categorie di sospetti suscettibili di ammonizione, il pretore era il dominus di tutta la procedura: «nel complesso perciò dominava l’arbitraria segretezza dell’inquisizione dei tempi passati», giustificata richiamandosi all’indole amministrativa del procedimento, e pertanto si confermano i «limiti del nostro rinnovamento liberale, che purificò il processo dall’arbitrio ma, anziché eliminarlo, lo ribattezzò agilità amministrativa» (si veda G. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale (1968), Milano, 1976 (ristampa inalterata), 232).
[30] Un ultimo appunto sul fondamento costituzionale della prevenzione. Sinceramente, il riferimento alla rieducazione è sempre apparso alquanto discutibile. Ma non tanto perché oramai alcune misure di sicurezza non hanno nulla a che fare con la rieducazione (e quindi cade la possibilità di associare sicurezza e prevenzione), quanto perché di concretamente rieducativo il sistema preventivo ha pochissimo, anzi nulla. Una volta si sosteneva che spingeva le persone a commettere reati, e questo oggi non è scomparso, ma resta che, vista con gli occhi di chi incappa nelle maglie del sistema preventivo, realmente la rieducazione è solo un riferimento astratto, teorico, illusorio e beffardo. Si veda quanto riportato in A. Barbano, L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene, Venezia, 2022 e P. Cavallotti – L. Ceva Valla – M. Romeo (a cura di), Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia, prefazione di S. D’Elia, Bologna, 2022.
[31] L’auspicata ricerca sulla prassi seguita dai questori in merito all’imposizione nell’avviso orale rinforzato di uno, di più o di tutti i divieti non avrebbe affatto una valenza meramente storico-ricostruttiva. Ad oggi, solo il divieto riguardante il cellulare è stato spostato alla competenza dell’autorità giudiziaria. Una meritevole ricerca sulla prassi delle misure di prevenzione, circoscritta alla prassi milanese, è quella di E. Mariani, Le misure di prevenzione personale nella prassi milanese, in Diritto Penale Contemporaneo, 10, 2018, entro la quale però, rispetto alle misure personali, non si affronta il tema dei divieti imposti con l’avviso orale rinforzato, immaginiamo per la impossibilità di poter disporre direttamente degli avvisi.
[32] Si vedano i paragrafi precedenti di Marco Orofino.
[33] Si deve ragionare in attesa di un intervento del legislatore, e quindi su quelli che sono gli effetti immediati nel breve periodo della decisione della Corte. Ebbene, o il cellulare si vieta in riferimento però alla sorveglianza speciale (ove esistono limiti minimi e massimi di durata), oppure il questore dentro l’avviso orale rinforzato dovrà chiedere al giudice (collegiale?) di applicare anche il divieto riguardante il cellulare. Ma, in questo secondo caso, senza alcuna possibilità di riferirsi ad alcuna previsione legislativa utilizzabile per limitare nel minimo e nel massimo la durata del divieto. Ripetiamo: in assenza di un intervento del legislatore, questo è lo scenario che consegue all’assorbimento deciso dalla Corte, uno scenario non rassicurante, che forse richiederà di tornare nuovamente alla Consulta.
[34] La storia (recente) dell’avviso orale è certo singolare. Da un lato, diviene autonoma misura di prevenzione personale solo con il codice antimafia, poiché in precedenza era il presupposto per la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza disposta nei confronti delle persone inquadrate in una delle fattispecie di pericolosità generica, persone che, nonostante l’avviso, non avevano cambiato condotta. Soprattutto, dall’altro lato, prima del codice antimafia, l’avviso orale aveva durata massima di tre anni, in quanto il questore non poteva più disporre la sorveglianza speciale una volta spirati tre anni dall’avviso orale
[35] Questa la domanda che si pone E. Zuffada, I divieti connessi alla misura questorile dell’avviso orale al vaglio della Corte costituzionale: verso una nuova censura del sistema ante delictum?, in Sistema Penale, 3 febbraio 2022, 11, il quale sostiene la necessità di limitare temporalmente non solo tutti i divieti applicabili, ma direttamente lo stesso avviso orale. Ad ogni modo, nella già richiamata sentenza n. 28551/2020 della I sezione penale della Cassazione, il caso di specie era alquanto significativo. Non sappiamo se è la normalità o l’eccezione, in ogni caso l’avviso orale era stato emesso dal questore il 28 aprile 2014, notificato il 19 novembre 2014 ed era stato assunto violato in data 29 ottobre 2018, quindi a distanza di cinque anni.
[36] Si vedano le osservazioni di Leopoldo Elia in precedenza riportate. Parole dure sono anche quelle che Francesco Palazzo ha scagliato contro il sistema di prevenzione italiano, da ultimo in F. Palazzo – F. Viganò, Diritto penale. Una conversazione, Bologna, 2018, 42 ss.
[37] Il riferimento obbligato è al seguito della sentenza n. 24 del 2019. Non appare possibile operare in termini di tassatività, a fronte di una disposizione che la stessa Corte giudica «affetta da radicale imprecisione» (cons. dir., § 12.3). Peraltro, la Corte giunge a questo esito proprio sostenendo che la tassativizzazione è invece riuscita sul «vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose». Pertanto, l’incostituzionalità dell’«essere abitualmente dediti a traffici delittuosi» non potrà che estendersi anche all’avviso orale e al foglio di via, una volta che saranno sollevate le rispettive questioni di costituzionalità.