Il giornalismo d’inchiesta tra verità e deontologia: un’analisi dell’ordinanza n. 30522/2023 della Corte di Cassazione

Corte di Cassazione, sez. I civ., 3 novembre 2023, n. 30522

In tema di diffamazione a mezzo stampa, nel c.d. giornalismo d’inchiesta – che ricorre allorquando il giornalista non si limiti alla divulgazione della notizia ma provveda egli stesso alla raccolta della stessa dalle fonti, attraverso un’opera personale di elaborazione, collegamento e valutazione critica, al fine di informare i cittadini su tematiche di interesse pubblico – il requisito della verità (anche putativa) va inteso in un’accezione meno rigorosa, implicando una valutazione non tanto dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede gravanti sul giornalista (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, in relazione a un articolo contenente un’inchiesta giornalistica sulla gestione dei voli di Stato, aveva ritenuto diffamatorie le notizie divulgate in merito all’alto ufficiale posto a capo della relativa organizzazione – definito, tra l’altro “dominus” e “boiardo dei cieli” -, omettendo di considerare che le suddette notizie erano state autonomamente acquisite dall’autore, attraverso fonti riservate ed ufficiali e riesaminando documenti pubblici o già noti, e che i relativi elementi di indagine erano stati, poi, posti a base di provvedimenti giurisdizionali successivi).

 

Sommario: 1. Introduzione. – 2. I fatti oggetto di causa e lo svolgimento dei primi due gradi di giudizio. – 3. Il giornalismo d’inchiesta nella giurisprudenza della Corte di cassazione: dove eravamo rimasti. – 4. La prospettiva della Corte di cassazione: il particolare statuto del giornalismo d’inchiesta. – 5. La deontologia quale argine alla diffamazione a mezzo stampa. – 6. Osservazioni conclusive.

 

 

  1. Introduzione

Con l’ordinanza che si annota, la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare il tema del giornalismo d’inchiesta, fornendone una definizione che si rivela in parziale discontinuità con i precedenti della giurisprudenza di legittimità.

La decisione, in particolare, amplia i confini interpretativi del concetto di “inchiesta”, affermando che possa definirsi tale anche la mera «autonoma valutazione critica», da parte del giornalista, di circostanze note e di pubblico dominio, senza la necessità di svolgere in prima persona le attività investigative tipiche di tale peculiare fattispecie giornalistica.

Secondo la Corte, pertanto, perché la pubblicazione di una notizia lesiva della reputazione del soggetto a cui si riferisce sia scriminata nell’ambito di quello che può essere definito “giornalismo d’inchiesta”, sarà sufficiente che il giornalista, nello svolgimento della propria attività, sia guidato ad esempio dal sospetto di illeciti che «non siano obiettivamente del tutto assurdi», abbia attinto alla notizia ispirandosi ai «criteri etici e deontologici della sua attività professionale»[1].

 

  1. I fatti oggetto di causa e lo svolgimento dei primi due gradi di giudizio

L’ordinanza n. 30522/23 della I sezione civile della Cassazione riguarda il caso di un ex Comandante dell’aeronautica militare, divenuto poi dirigente della Presidenza del Consiglio e amministratore della società “Compagnia Aerea Italiana” (“Cai”), che riteneva di essere stato diffamato a mezzo stampa.

In particolare, tale dirigente lamentava di essere stato descritto con termini offensivi in un articolo pubblicato dal settimanale “L’Espresso” – appartenente al gruppo editoriale GEDI S.p.A., anch’esso convenuto – nell’ambito di un’inchiesta sulla gestione dei voli di Stato e sull’attività della sopramenzionata Compagnia.

Stando alla ricostruzione prospettata dal settimanale, l’ex Comandante, nella sua veste di amministratore della Cai, sarebbe stato il soggetto preposto alla gestione della flotta aerea destinata all’uso dei servizi segreti e di non meglio precisate «personalità politiche»[2]. Lo “j’accuse” lanciato dall’autore dell’articolo si sostanziava nell’impiego della locuzione «boiardo dei voli di Stato» con la quale l’attore era descritto: a lui veniva ricondotto il potere di decidere, con ampia discrezionalità, i tempi e i modi dei voli della “casta”, attraverso la concessione (o il diniego) dell’autorizzazione al decollo.

L’ex pilota si difendeva dalle accuse contenute nell’articolo agendo in giudizio innanzi al Tribunale di Roma, al quale chiedeva la condanna dell’editore e del giornalista al risarcimento dei danni arrecati alla propria reputazione, derivanti dalla pubblicazione dello stesso. Il Tribunale, tuttavia, respingeva la domanda risarcitoria formulata, rilevando che l’articolo contestato fosse riconducibile alla fattispecie del giornalismo investigativo, poiché esso riportava gli esiti di una complessa inchiesta su questioni di interesse pubblico.

Secondo la motivazione del giudice del primo grado, al giornalista che conduce un’inchiesta, infatti, doveva essere riconosciuta e garantita una diversa applicazione di alcune delle norme fondamentali sull’esercizio del diritto di cronaca giornalistica: da un lato, il rispetto del requisito della verità della notizia doveva essere interpretato in modo meno rigoroso, essendo sufficiente la sussistenza della verità anche solo “putativa” del fatto; dall’altro, l’apprezzamento da parte del giornalista sull’attendibilità della fonte dalla quale aveva tratto la notizia poteva essere meno attento e scrupoloso. Ritenendo che tali condizioni fossero state rispettate, il Tribunale rigettava la domanda risarcitoria promossa dall’ex Comandante, che dunque promuoveva appello.

All’esito del giudizio di secondo grado, la Corte d’appello di Roma riteneva al contrario non integrata la scriminante e, dunque, riformava la sentenza condannando giornalista ed editore in solido al risarcimento del danno non patrimoniale subìto dall’appellante.

La Corte d’appello muoveva dall’espressa menzione della celebre “sentenza decalogo” della Cassazione, che oltre quarant’anni fa ha fissato i presupposti per poter invocare la scriminante del corretto esercizio del diritto di cronaca: utilità sociale dell’informazione, corrispondenza al vero dei fatti narrati e forma civile nell’esposizione[3].

Accertato il rispetto del primo dei tre requisiti, secondo il giudice del gravame lo scritto non rispondeva al criterio della verità, neppure nell’accezione putativa della stessa, e integrava altresì una violazione reiterata del principio di continenza.

La stessa Corte, procedendo alla disamina dei principi di matrice giurisprudenziale in materia di scriminante in tema di “giornalismo d’inchiesta”, considerava quest’ultima non applicabile alla fattispecie in esame poiché il giornalista – e ciò merita particolare rilievo – non aveva compiuto quelle autonome attività d’indagine che la giurisprudenza consolidata individua come presupposto ineludibile per poter accedere a tale qualificazione.

Stando alla prospettiva della Corte d’appello (in linea, del resto, con quella fino ad allora adottata anche dalla Cassazione), per poter invocare la particolare declinazione del diritto di cronaca applicato al giornalismo d’inchiesta, la pubblicazione dello scritto avrebbe dovuto essere preceduta dalla acquisizione autonoma di tutti i fatti menzionati nell’articolo senza la mediazione di altre fonti; nel caso di specie risultava invece che il giornalista avesse attinto le informazioni da inchieste giudiziarie o da altri resoconti giornalistici, cioè da fonti mediate che, proprio in quanto tali, stando sempre alla ricostruzione della Corte d’appello, avrebbero richiesto la meticolosa verifica della loro attendibilità.

Avverso tale decisione, i convenuti proponevano ricorso per Cassazione, adducendo sei differenti motivi[4]. Con le prime tre censure, essi lamentavano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 21 Cost., 2043 c.c., nonché degli artt. 51 e 595 c.p. e 11 della Legge sulla stampa[5], in relazione al rispetto del parametro della verità dei fatti nell’ambito delle inchieste giornalistiche, ai principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di esercizio del diritto di critica e alla modalità di valutazione di uno scritto di cui si contesta la natura diffamatoria.

 

  1. Il giornalismo d’inchiesta nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: dove eravamo rimasti 

La decisione in commento si pone nel solco di un’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità sul giornalismo d’inchiesta, della quale si ribadiscono i tratti essenziali e, al contempo, si precisano i contenuti. In particolare, la Cassazione riconosce la rilevanza del ruolo svolto dal giornalismo d’inchiesta che, oltre a rappresentare la forma «più alta e nobile dell’attività di informazione»[6], diviene fondamentale nella stimolazione del dibattito e nella formazione dell’opinione pubblica.

Proprio in virtù del ruolo riconosciuto a questa particolare declinazione di giornalismo e, allo stesso modo, in virtù anche delle attività investigative svolte dal professionista al fine di acquisire le notizie, già da tempo la Corte ha ritenuto necessario operare una distinzione in relazione ai limiti che regolano in via generale l’esercizio del diritto di cronaca e di critica[7]. Nello specifico, i giudici di legittimità hanno stabilito che il giornalismo d’inchiesta debba essere valutato secondo una «meno rigorosa, e comunque diversa, applicazione della condizione di attendibilità della fonte della notizia»[8], perché ricercata direttamente e autonomamente dal giornalista e non «mediata dalla ricezione “passiva” di informazioni esterne»[9]. Secondo la prospettiva maturata nel tempo dalla Corte di Cassazione, la condizione per scriminare l’attività del giornalista d’inchiesta consiste allora nel fatto che, nell’acquisizione della notizia, lo stesso debba «ispirarsi ai criteri etici e deontologici della sua attività professionale»[10].

La Corte di Cassazione, pertanto, ha tracciato e consolidato nel tempo un orientamento ben definito, sempre pressoché unanime: la valutazione circa la veridicità e l’attendibilità della notizia direttamente acquisita dal giornalista può essere meno rigorosa, ma nell’esercizio di tale attività egli deve essere guidato dai criteri etici e deontologici propri della sua professione.

Anche nell’ordinanza in esame la Corte ribadisce a più riprese tali assunti ma, come si vedrà di seguito, ne amplifica ed estende i confini.

 

  1. La prospettiva della Corte di Cassazione: il particolare statuto del giornalismo d’inchiesta

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione accoglie i primi tre motivi di ricorso e cassa con rinvio la sentenza impugnata.

Nel motivare tale pronuncia, la Suprema Corte ribadisce la propria interpretazione del concetto di “giornalismo d’inchiesta” riconducendolo all’art. 21 della Costituzione e, in particolare, al diritto di cronaca. Tuttavia, pur confermando il proprio orientamento rispetto alla liceità del giornalismo d’inchiesta, in quest’occasione la Corte ne descrive l’ambito di applicazione in modo piuttosto ampio, al di là di quelli finora tipicamente riconosciuti dalla sua stessa giurisprudenza anteriore.

Secondo la Cassazione, ciò che contraddistingue il giornalismo investigativo è l’apprensione immediata delle notizie, che avviene «autonomamente, direttamente e attivamente da parte del professionista, senza la mediazione di fonti esterne»[11] e, quindi, senza l’intervento di un soggetto terzo.

Proprio in ragione di tale – fino ad ora – imprescindibile caratteristica, i giudici di legittimità hanno da sempre riconosciuto a tale forma di giornalismo una «meno rigorosa e comunque diversa» applicazione dei limiti enucleati dalla sentenza “decalogo”, ritenendo che, proprio per l’assenza di mediazione da parte di fonti terze, i parametri di valutazione dell’attività di verifica compiuta dal giornalista in merito all’attendibilità della propria fonte debbano essere meno rigidi [12].

Nel sostenere tale assunto, la Corte di Cassazione, tuttavia, conferma l’importanza di un elemento assai significativo: la deontologia professionale. Il giornalista, infatti, nell’attingere alla fonte della notizia, dovrà ispirarsi ai criteri etici e deontologici propri della sua attività.

In tale ambito, la Corte richiama espressamente i precetti stabiliti dalla Carta dei doveri del giornalista – approvata dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana l’8 luglio 1993 –, e dall’Ordinamento della professione di giornalista, introdotto dalla legge 3 febbraio 1963 n. 69.

Come anticipato nel precedente paragrafo, il richiamo al rispetto dei principi stabiliti dalle norme di deontologia professionale non rappresenta una novità nell’orizzonte giurisprudenziale, essendo ormai molteplici le pronunce intervenute a conferma di tale orientamento. In particolare, alcuni recenti sentenze evidenziano che la giurisprudenza della Corte di Cassazione «riconosce ampia tutela ordinamentale al giornalismo d’inchiesta, il quale implica il minor rigoroso apprezzamento della veridicità della notizia e valorizza il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e di buona fede»[13] e che sia proprio l’osservanza di tali precetti ad assumere rilevanza[14].

Dopo aver ribadito tale orientamento, i giudici di legittimità fanno leva su un ulteriore principio, ad esso conseguente e complementare: «è scriminato il giornalista che eserciti la propria attività mediante la denuncia di sospetti di illeciti»[15].

Perché l’inchiesta non si sostanzi in un’invettiva gratuita e infamante, il giornalista dovrà fondare la propria indagine su questioni di interesse generale che egli ritenga meritevoli di approfondimento anche giudiziario, in quanto integranti possibili violazioni di legge. Tali sospetti, inoltre, dovranno essere da lui motivati e argomentati «sulla base di elementi obiettivi e rilevanti» – la cui sussistenza dovrà essere valutata caso per caso dal giudice di merito – e dovranno altresì rispettare il requisito di continenza[16].

Tuttavia, il passaggio forse più rilevante e inedito del ragionamento della Corte attiene all’interpretazione dei concetti di “inchiesta” e di “attività investigativa”. La Corte, invero, per la prima volta afferma che, affinché possa ritenersi integrata la fattispecie del giornalismo d’inchiesta – e come tale scriminata la condotta –, sarà sufficiente che il giornalista ponga in essere una mera valutazione critica di dati e notizie anche già noti ed esistenti, senza che vi sia la necessità di svolgere in prima persona le attività investigative, come ad esempio l’ascolto di conversazioni ritenute rilevanti, l’assunzione diretta di testimonianze di persone informate sui fatti o la ricerca e l’utilizzo di documenti inediti; piuttosto, per qualificare uno scritto quale “inchiesta” risulterà sufficiente l’interpretazione inedita, da parte del giornalista, degli atti e dei documenti ottenuti, anche se questi siano stati acquisiti da terzi[17].

In sostanza, sarà considerata quale inchiesta giornalistica (e, dunque, beneficerà dell’applicazione meno severa dei requisiti che governano il diritto di cronaca) anche l’attività del giornalista che, venuto a conoscenza di fatti di interesse pubblico, abbia compiuto «ogni diligente accertamento per verificare la verosimiglianza dei fatti riferiti»[18] (non più, dunque, necessariamente acquisiti in via diretta dallo stesso) e abbia ritenuto sussistente, in conseguenza di tale valutazione, anche il mero “sospetto di illeciti”.

Per tali ragioni, come anticipato, con la pronuncia in commento la Corte ha riconosciuto la fondatezza delle doglianze del giornalista ricorrente, giungendo a una valutazione opposta a quella effettuata dalla Corte d’appello di Roma.

 

  1. La deontologia quale argine alla diffamazione a mezzo stampa 

Nell’ordinanza in esame, la Suprema Corte afferma a più riprese che il giornalismo d’inchiesta, al pari di ogni altra forma di giornalismo, deve garantire il rispetto della persona, della sua dignità e della sua riservatezza e deve ispirarsi ai criteri etici e deontologici della sua attività professionale[19].

Nella ricostruzione della Corte, perché possa dirsi scriminato – e, quindi, tutelato – l’esercizio dell’attività d’inchiesta giornalistica che leda la reputazione di un soggetto, risulta fondamentale il rispetto dei precetti imposti dalle norme di settore. In particolare, esigere il rispetto di tali “doveri deontologici” significa chiedere l’applicazione della legge professionale n. 69/1963 e della Carta dei doveri del giornalista, per le quali appare necessaria una precisazione.

Innanzitutto, occorre rilevare che la legge professionale n. 69/1963 enuclea i doveri in modo particolarmente generico: invero, tale legge si limita a prescrivere l’osservanza delle «norme di legge dettate a tutela della personalità altrui», l’«obbligo inderogabile» del «rispetto della verità sostanziale dei fatti», i «doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede»[20].

In secondo luogo, è opportuno ricordare che la Carta dei doveri del giornalista non costituisce neppure un atto legislativo, trattandosi invece di uno strumento di autoregolazione privatistica volto a disciplinare l’attività degli appartenenti all’Ordine dei giornalisti.

Con l’ordinanza in commento, tuttavia, la Corte conferma la tendenza a considerare testi di questo tipo anche al di fuori dell’ambito strettamente deontologico-privatistico, facendovi così assumere in concreto tratti simili a quelli di vere e proprie fonti del diritto[21]. Gli obblighi imposti da una carta deontologica dovrebbero in effetti vincolare solo chi, nell’esercizio della propria autonomia, abbia scelto di aderirvi attraverso l’iscrizione all’Ordine, e la violazione di tali doveri dovrebbe assumere rilievo solo dinanzi agli organi disciplinari dell’Ordine stesso; tuttavia, in verità la Carta dei doveri si rivela capace di orientare – come nel caso di specie – anche l’autorità giurisdizionale, civile e penale, nella valutazione del corretto esercizio del diritto di cronaca[22].

Pertanto, nell’accertare se la diffusione a mezzo stampa di una notizia diffamatoria debba essere scriminata in quanto ascrivibile alla species del giornalismo d’inchiesta (e quindi in virtù del bilanciamento operato tra il diritto del singolo e il diritto della collettività a essere informata), il giudice dovrà anche valutare l’avvenuto rispetto, da parte dell’autore del servizio o dello scritto, dei doveri deontologici sanciti dalle ricordate norme di settore.

 

  1. Osservazioni conclusive

 

Le potenzialità della libera stampa d’inchiesta sono ormai note e conclamate dai tempi del caso “Watergate[23]. Il ruolo civile che il giornalismo – e, in particolare, il giornalismo d’inchiesta – svolge nelle democrazie moderne, infatti, rende evidente la responsabilità sociale alla quale sono chiamati i giornalisti[24].

Il fine del giornalismo d’inchiesta, invero, risulta essere proprio quello di «promuovere una presa di coscienza dell’opinione pubblica riguardo ad una particolare situazione o vicenda, al fine di far maturare in essa una certa capacità critica di discernimento»[25].

Nel ragionamento della Corte, tale principio non solo è evidente, ma è più volte ribadito attraverso il riferimento al «ruolo civile e utile alla vita democratica di una collettività» che l’inchiesta giornalistica riveste, stimolando e favorendo il dibattito pubblico[26]. Si tratta di un riconoscimento rilevante, che merita di essere considerato di buon auspicio nell’era di crisi del giornalismo investigativo[27].

Tuttavia, a fronte di un atteggiamento così favorevole rispetto all’attività giornalistica, non si può dimenticare che l’ingente valore dei diritti e degli interessi coinvolti richiede comunque particolare cautela, sotto molteplici aspetti.

In primo luogo, si rileva che, nel tracciare i confini del giornalismo d’inchiesta, l’ordinanza in esame fornisce un’interpretazione dichiaratamente ampia del concetto di “inchiesta”, considerando ora ascrivibile a tale categoria anche l’autonoma fruizione di informazioni già note e di pubblico dominio; dunque, anche le condotte in cui il giornalista non diffonda alcun dato sconosciuto o che egli abbia raccolto direttamente, senza intermediazioni.

Tuttavia, occorre ricordare che, come più volte ribadito dalla stessa Corte nella medesima ordinanzaciò che ontologicamente dovrebbe connotare tale particolare forma di giornalismo è il ruolo attivo nell’indagine e la conseguente acquisizione autonoma delle notizie. L’attenuazione del canone della verità, operata in virtù della tutela di un più ampio interesse – quello collettivo alla circolazione delle notizie e al confronto democratico che ne consegue – e, allo stesso modo, la mitigata verifica dell’attendibilità e della veridicità della fonte, trovano fondamento e giustificazione nella mancata mediazione della fonte stessa. In altre parole, poiché le informazioni oggetto di pubblicazione vengono ricavate dal giornalista direttamente e autonomamente, la necessità di valutare l’attendibilità e la veridicità delle notizie risulta affievolita, perché non mediata.

Di contro, se si afferma – come pure fa ora la Corte – che l’acquisizione delle notizie possa passare anche attraverso informazioni ottenute da terzi, senza ricerche personali e autonome, ma con la sola interpretazione originale di dati già esistenti, la valutazione circa l’attendibilità e la veridicità della notizia potrebbe (e dovrebbe) tornare a essere necessaria.

Premesso che il ricorso ad altre fonti giornalistiche non rappresenta di per sé una scriminante, nel caso di specie il giornalista aveva fondato la propria indagine anche su resoconti giornalistici di altre testate, addirittura riconducibili alla cronaca giudiziaria, rispetto alla quale la Cassazione ha da sempre adottato criteri estremamente rigorosi nel valutare l’invocabilità della scriminante in commento[28]: si tratta di principi e regole di fatto ignorati nell’ordinanza in esame, nella quale si qualificano come “giornalismo d’inchiesta” le conclusioni a cui è addivenuto il giornalista basandosi in parte rilevante su quanto riportato da fonti di diversa natura.

Inoltre, è opportuno rammentare che il ricorso ad altre fonti giornalistiche non rappresenta di per sé una scriminante: secondo un principio consolidato, «se una notizia è già stata pubblicata su un altro giornale o diffusa da altri media, non per questo il cronista non ha l’obbligo di vagliarne l’attendibilità e di operare la consueta verifica tra fatti accaduti e fatti da narrare»[29].

Qualificare il prodotto di tale attività come “giornalismo d’inchiesta” (e dunque, di conseguenza, ritenere sufficiente che esso rispetti uno standard di verità attenuato) solo in virtù della rielaborazione di informazioni acquisite da terzi sembra comportare un sacrificio eccessivo del diritto all’onore e alla reputazione dei soggetti cui la notizia si riferisce, che non pare possa giustificarsi in nome del pur fondamentale “ruolo civile e utile alla vita democratica”[30] dell’inchiesta. Un’impostazione di questo tipo, infatti, potrebbe legittimare la lesione dei diritti della personalità dei soggetti protagonisti dei fatti narrati nell’inchiesta giornalistica anche nel caso in cui questi si rivelino inveritieri sul piano oggettivo, ma senza che ciò serva a garantire davvero uno spazio all’autonoma attività investigativa del giornalista, che potrebbe essersi limitato all’assemblamento di dati diffusi da altri. In altri termini, il sacrificio dei diritti delle persone diffamate non sarebbe davvero compensato dalla volontà di assicurare una più ampia circolazione di fatti e notizie che altrimenti resterebbero sotto riserbo, posto che quei fatti e quelle notizie erano già conoscibili anche senza l’inchiesta giornalistica (da intendersi nei termini ora precisati) che si è limitata a riproporli al pubblico.

In secondo luogo, la Corte ribadisce che, perché possa parlarsi di giornalismo d’inchiesta, debba sussistere un non meglio precisato “sospetto di illeciti”[31]. In particolare, i giudici di legittimità sostengono che tali sospetti debbano limitarsi a non essere «obiettivamente del tutto assurdi»[32]. L’ampiezza e la genericità di tale locuzione, nella quale è pertanto possibile ricomprendere ogni dubbio che non sia aberrante, potrebbe portare con sé il rischio di considerare scriminata la pubblicazione di articoli che, pur essendo privi di un solido fondamento investigativo, ledano la reputazione delle persone oggetto della notizia.

Da ultimo, occorre sottolineare la scelta della Corte di non pronunciarsi sul rispetto del requisito della continenza, che la Corte d’appello aveva ritenuto violato. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, all’attenuazione del canone della verità della notizia non fa seguito una simmetrica attenuazione dei requisiti dell’interesse pubblico alla notizia e della continenza dell’esposizione, dei quali si richiede invece il pieno rispetto[33]. Si tratta di un aspetto sul quale proprio il Giudice del rinvio, cui la Cassazione ha restituito la causa, potrebbe tornare a pronunciarsi.

 

[1] § 2.2. dell’ordinanza in commento.

[2] È tutt’ora possibile consultare una trascrizione dell’articolo contestato: G. Di Feo, Volo gratis e segreto (come ti frego rigor montis) – supermario tarpa le ali ai politici amanti che fino all’anno scorso viaggiavano ovunque in aereo con i soldi dei contribuenti grazie al funzionario Raffaele Di Loreto, “scoperto” da Craxi – ma ecco la genialità dell’uomo del Monti: da oggi i voli di Stato vanno pubblicati online – dramma? Macché: Di Loreto mette a disposizione gli aerei dei servizi segreti, in Dagospia.com, 16 marzo 2012.

[3] Cass. civ., sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259.

[4] Con la terza censura, tra l’altro, i ricorrenti lamentavano altresì l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti, che nello specifico era costituito dall’articolo oggetto del procedimento. Con gli ulteriori tre motivi, infine, i ricorrenti contestavano la ritenuta sussistenza del danno non patrimoniale accertato dalla Corte d’appello, nonché i capi della sentenza con cui la stessa Corte aveva condannato i ricorrenti al pagamento della pena pecuniaria di cui all’art. 12 della l. 47/1948, e a pubblicare la pronuncia emessa.

[5] L. 47/1948.

[6] Cass. civ., sez. III, 9 luglio 2010, n. 16236.

[7] Limiti, come si è già fatto cenno, fissati a partire dalla celeberrima Cass. civ., sent. 5259/1984 e poi ribaditi costantemente da una consolidatissima giurisprudenza.

[8] Tra le altre, Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1205 e la già citata Cass. civ., sent. 16236/2010.

[9] Cass. civ., sez. XVIII, 14 dicembre 2022, n. 18434.

[10] Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 2021, n. 4036.

[11] Cass. civ., sez. I, ord. 27 ottobre 2023, n. 30522, § 2.2.

[12] G. E. Vigevani, L’informazione e i suoi limiti: il diritto di cronaca, in G. E. Vigevani – O. Pollicino – C. Melzi d’Eril – M. Cuniberti – M. Bassini, Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2022, 34.

[13] Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 2021, n. 4036. Del medesimo orientamento, si vedano anche App. Milano, sez. II, 3 ottobre 2023, n. 2803; Cass. civ., sent. 16236/2010, cit.

[14] In questo senso, Cass. civ., sez. III, 11 luglio 2023, n. 19611, nella quale si afferma: «nel giornalismo d’inchiesta occorre valutare non tanto l’attendibilità e la veridicità della notizia quanto piuttosto il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede».

[15] § 2.3 della pronuncia in esame, nel quale si cita, tra le altre, la già menzionata Cass. civ., sent. 19611/2023.

[16] Ibidem, § 2.3 della pronuncia in esame, nel quale si menziona, in particolare, la già citata Cass. civ., sent. 27592/2019.

[17] § 2.6.

[18] Cass. civ., sent. 27592/2019, cit.

[19] Nell’affermare tale assunto, l’ordinanza in commento poggia su alcuni precedenti della Corte stessa. In particolare, Cass. civ., sent. 16236/2010, in Foro it., I, 2010, 2667.

[20] L. 69/1963, art. 2.

[21] M. Cuniberti, La professione del giornalista, in G. E. Vigevani – O. Pollicino – C. Melzi d’Eril – M. Cuniberti – M. Bassini, Diritto dell’informazione e dei media, cit., 273.

[22] Si tratta di una tendenza che non emerge solo nella vicenda in esame. V. anche, ad es., la recente Cass. civ., ord. 19611/2023: «nel “giornalismo d’inchiesta” occorre valutare non tanto dell’attendibilità e veridicità della notizia, quanto piuttosto il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede».

[23] Sul punto, S. Barillari (a cura di), Sette pezzi d’America. Dal Watergate a Scientology, i grandi scandali americani raccontati dai Premi Pulitzer, Roma, 2015.

[24] R. Marini, Lo spazio della responsabilità sociale nelle teorie neo-critiche del giornalismo, in comunicazionepuntodoc, 15, 2016, 47 ss.; C. Ruggiero – F. Wille – A. Porrovecchio, La responsabilità sociale dei giornalisti, ivi, 2016.

[25] M. Ricatti, Il giornalismo d’inchiesta in Italia e uno dei maggiori esponenti italiani: Fabrizio Gatti, in openstarts.units.it, 2010.

[26] § 2.7.

[27] M. Morcellini, Neogiornalismo. Tra crisi e rete, come cambia il sistema dell’informazione, Milano, 2011.

[28] Cass. civ., sez. III, 12 aprile 2022, n. 11769. Secondo la Cassazione, «la notizia deve essere fedele al contenuto del provvedimento e […] deve sussistere la necessaria correlazione tra fatto narrato e quello accaduto, senza alterazioni o travisamenti di sorta, non essendo sufficiente la mera verosimiglianza, in quanto il sacrificio della presunzione di non colpevolezza richiede che non si esorbiti da ciò che è strettamente necessario ai fini informativi». Nello stesso senso, fra le tante, Cass. civ., sez. VI, 9 dicembre 2021, n. 39082 e Cass. civ., sez. III, 12 ottobre 2020, n. 21969.

[29] R. Razzante, Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, Vicenza, 2022, 255. Come evidenziato nel testo, nello stesso senso «si ricordano almeno due pronunce della Corte di cassazione. Il 16 giugno 1980 i Supremi giudici hanno chiarito che la precedente diffusione della notizia da parte di altri media […] non vale ad esentare il giornalista dall’obbligo di controllo, “altrimenti le fonti di informazione troverebbero attendibilità in loro stesse, dandosi credito reciprocamente tra di loro”. Dello stesso tenore una pronuncia della Cassazione datata 19 aprile 1985, nella quale si ribadisce che “colui che pubblica un articolo (…) non può ritenere vera una notizia pubblicata da altri, ma deve, prima di utilizzarla per le sue valutazioni, accertarne l’attendibilità”».

[30] § 2.7 della pronuncia in commento.

[31] Il riferimento alla necessaria presenza di un “sospetto di illeciti” non è una novità: «è scriminato il giornalista che eserciti la propria attività mediante la denuncia di sospetti di illeciti, allorquando tali sospetti, secondo un apprezzamento caso per caso riservato al giudice di merito, risultino espressi in modo motivato e argomentato sulla base di elementi obiettivi e rilevanti e mediante il ricorso, attraverso una ricerca attiva, a fonti di notizia attendibili». Così, tra le altre, la sopracitata Cass. civ., ord. 19611/2023.

[32] § 2.3 dell’ordinanza in commento.

[33] G. Gardini, Le regole dell’informazione. Verso la Gigabit Society, Milano, 2021, 108-109.

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