L’omicidio della giovane Sarah Scazzi – avvenuto nell’ormai lontano agosto 2010 – e la lunga vicenda giudiziaria che ne è seguita – terminata solo nel febbraio 2017, con la sentenza della Cassazione – hanno visto impegnati per anni giornali e televisioni, intenti a tenere costantemente informati i lettori e gli ascoltatori su quei fatti, gravi e certamente di interesse pubblico.
A distanza di anni, un’importante azienda cinematrografica ha deciso di realizzare una serie tv sulla vicenda, intitolandola “Avetrana – Qui non è Holllywood”, riprendendo in tal modo il nome del paese (in provincia di Taranto) in cui si è consumato il delitto e in cui vivevano tutti i soggetti coinvolti nella lunga e complessa vicenda giudiziaria che ne è conseguita.
Il richiamo al nome della cittadina nel titolo dell’opera televisiva ha suscitato la reazione della comunità locale, che, attraverso il Comune, si è rivolta alla magistratura, chiedendo un’inibitoria urgente. Il Tribunale di Taranto ha emesso un’ordinanza urgente – inaudita altera parte – con cui ha ordinato alla società produttrice la sospensione della messa in onda della serie tv “Avetrana. Qui non è Hollywood” ove non fosse stata eliminato dal titolo il nome della cittadina Avetrana.
Trattandosi di un provvedimento emesso senza previo contraddittorio, l’ordinanza in parola non può che consentire un’analisi parziale della vicenda, perché manca la spiegazione dei fatti fornita da chi, sino a questo momento, non ha avuto modo di difendersi e di far valere le proprie ragioni. Ciò premesso, l’aspetto più interessante si ricava in quella parte del provvedimento in cui il giudice scrive che l’inserimento del nome della cittadina nel titolo dell’opera cinematografica sarebbe stato celato dalla casa produttrice all’ente territoriale (il Comune di Avetrana) e che tale omissione sarebbe stata «verosimilmente dettata dalla consapevolezza che tale intitolazione avrebbe indotto il fruitore dei media ad associare la cittadina alla vicenda di cronaca nera (già foriera di pregiudizio per la comunità locale, come sentenziato dal giudice penale) e quindi a suscitare nell’utente l’idea di una comunità potenzialmente criminogena, oltre che retrograda ed omertosa», in tal modo recando «discredito» e «pregiudizio» all’immagine della comunità locale, intesa come «positiva espressione di valori culturali e di risorse socio-economiche identitari di una popolazione».
Si tratta di un’affermazione piuttosto netta che suscita invero qualche perplessità. Il fatto che il giudice ritenga che, a prescindere dal merito, vale a dire dai contenuti dell’opera e dal modo in cui gli autori della serie tv hanno deciso di raccontare i fatti, il semplice utilizzo del nome della cittadina nel titolo di un’opera cinematografica che – pacificamente – vuole ripercorrere e raccontare la storia di un grave fatto di cronaca verificatosi in quel luogo, possa valere a connotare in termini fortemente negativi l’intera comunità territoriale, tanto da qualificarla come «potenzialmente criminogena, retrograda e omertosa», appare difficile da comprendere e da accettare: se da un lato, infatti, si pone il tema della tutela di interessi diffusi – quella della collettività di Avetrana – di cui il Comune ricorrente è considerato ente esponenziale, dall’altro si pone e si impone la necessaria tutela della libertà di manifestazione del pensiero, diritto costituzionalmente garantito dall’art. 21 della Carta fondamentale, qui declinato nella duplice veste di diritto di cronaca (che non viene meno per il solo fatto di essere esercitato a distanza di anni dai fatti) e di espressione artistica.
In tale ottica, la posizione espressa dal giudice cautelare pare compiere un’operazione logica davvero ardita, soprattutto alla luce della mancanza di contraddittorio: non è dato comprendere, infatti, quale sia il motivo per cui l’accostamento – oggettivo e quindi di per sé neutro – tra la vicenda e il nome della cittadina in cui quella vicenda si è verificata e svolta dovrebbe determinare, da sola, quei gravi effetti sull’immagine della collettività locale di cui si è prima riferito. Un conto è se tale effetto fosse legato alle modalità e ai contenuti della narrazione, ma non è ciò che si ricava dal provvedimento, che si limita a porre una relazione causa/effetto tra l’inserimento del nome della cittadina nel titolo della serie tv e discredito che ne deriverebbe all’intera comunità locale.
Una simile affermazione appare tanto più discutibile ove si consideri che, nel linguaggio della cronaca (di cui la serie tv è indiscutibile espressione), si è sempre fatto ricorso, nel passato più o meno recente, all’accostamento tra determinati fatti di cronaca e le località in cui quegli accadimenti si sono verificati, senza che ciò sia stato censurato a livello giudiziario; ne sono esempi gli innumerevoli resoconti giornalistici e televisivi sul “mostro di Milwaukee” o, per restare in Italia, il “mostro di Foligno” e, in tempi più risalenti, la “saponificatrice di Correggio”.
Come detto, la naturale cautelare del provvedimento e la (a dir poco) limitata valutazione del merito della trattazione della vicenda da parte della serie televisiva in oggetto non consentono allo stato valutazioni più approfondite, ma desta sicuramente perplessità la scelta tranchante operata al momento dal giudice.