La nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro» contenuta all’art. 3, par. 1, lett. a), della direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che in essa rientrano delle dichiarazioni rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di personale, purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico.
La direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi di detta direttiva, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa.
Sommario: 1. La strada scelta dalla Corte di giustizia tra i discorsi d’odio e il principio di non discriminazione. – 2. Le linee principali della decisione e le sue contraddizioni interne. – 3. Discorsi d’odio e non discriminazione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. – 4. Discorsi d’odio e non discriminazione nella giurisprudenza italiana. – 5. Una nuova veste per il principio di non discriminazione e le conseguenze possibili sul ruolo della Corte di giustizia
1. La strada scelta dalla Corte di giustizia tra i discorsi d’odio e il principio di non discriminazione
Il principio di non discriminazione costituisce, come noto, uno dei capisaldi dell’Unione europea – insieme a pluralismo, giustizia, tolleranza, solidarietà e parità tra uomo e donna[1] – rappresentando nondimeno un chiaro obiettivo del processo d’integrazione europea, soprattutto in chiave politica e sociale[2].
È, questo, un dato ritenuto ormai scontato, ma per nulla prevedibile alle origini, quando Istituzioni europee e Stati membri si erano prefissi come unico scopo la realizzazione di un mercato comune. Tanta strada quindi è stata percorsa, diventando il principio di non discriminazione l’elemento chiave per un’unione sempre più stretta tra i popoli.
Con la sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia NH c. Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI-Rete Lenford[3], si compie un ulteriore e sorprendente balzo in avanti: la non discriminazione si arricchisce di significati forieri di trasformazioni del modo di essere “costituzionale” degli ordinamenti nazionali, compromettendo in parte i principi che li caratterizza.
Più in particolare, al cuore della vicenda c’è il problema di come conciliare la libertà d’espressione con i suoi potenziali risvolti lesivi dell’eguaglianza, a cui questa decisione fornisce una soluzione scivolosa. Detto molto in sintesi, la Corte di giustizia giunge a riconoscere che le dichiarazioni rese nel corso di una trasmissione radiofonica di chi sosteneva che mai sarebbero stati assunti nel proprio studio professionale persone di un determinato orientamento sessuale, rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 in materia di occupazione e di lavoro (in particolare dell’art. 3, par. 1, lett. a) relativo alle «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro»), sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione del personale. L’importante, chiosa la Corte di giustizia, è che il giudice nazionale verifichi nel caso di specie che il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro non sia ipotetico.
Stante alla lettura del dispositivo non ci sarebbero motivi per credere che il riconoscimento del principio di non discriminazione abbia trovato un’espansione applicativa: viene esplicitamente richiesta la verifica del nesso di causalità tra le parole dette e gli effetti prodotti in concreto e ciò è quanto mai opportuno dato che, in generale, le limitazioni alla manifestazione del pensiero sono acconsentite qualora beni di pari rango subiscano un’ingiustificata o eccessiva compressione. Tuttavia, le argomentazioni addotte offrono alcuni spunti di riflessione non solo in ordine a una possibile “nuova” accezione del principio di non discriminazione in seno all’Unione europea, ma soprattutto in relazione al ruolo che la Corte di giustizia riveste come “giudice dei diritti”, chiamata a bilanciare libertà individuali quali la manifestazione del pensiero con l’iniziativa economica privata.
La non discriminazione si prepara ad assumere nuove sembianze? E in ossequio a ciò, la Corte di giustizia che lessico dei diritti utilizza? Rimane ancorata ai vecchi schemi di giudice dell’Unione europea, oppure riesce a imprimere un nuovo registro linguistico ponendosi come giudice dei diritti prima ancora che come giudice dei trattati?
Queste sono le domande che guideranno il presente contributo, alle quali si cercherà di rispondere valutando i fatti del caso di specie e le conclusioni a cui è giunta la Corte di giustizia alla luce del più ampio panorama del Consiglio d’Europa e del contesto specifico italiano da cui la vicenda ha preso le mosse. Ciò perché la sentenza in questione pare essere “contaminata” dalle posizioni istituzionali e giurisprudenziali nazionali e sovranazionali degli ultimi tempi in tema di discorsi “discriminatori”, meglio conosciuti come discorsi d’odio (o che dir si voglia di hate speech), espressivi di una certa intolleranza nei confronti di collettività accomunate dall’appartenenza a una certa nazionalità, convincimento religioso, etnia, oppure orientamento sessuale. Si tratta di una fattispecie ascritta tra la più ampia categoria dei reati d’opinione la cui caratteristica principale, appunto, non è tutelare una posizione individuale, come ad esempio l’onore, la reputazione o la riservatezza[4].
Tenendo in conto di queste prime coordinate definitorie, in via preliminare è utile analizzare i passaggi salienti della sentenza della Corte di giustizia.
2. Le linee principali della decisione e le sue contraddizioni interne
Con la sentenza che si commenta anche la Corte di giustizia, per la prima volta, si trova a giudicare di un caso di hate speech. Infatti, la vicenda muove dalle dichiarazioni di Carlo Taormina, noto avvocato italiano, che durante la trasmissione radiofonica “La Zanzara”, andata in onda il 16 ottobre 2013 su Radio24, affermava che mai avrebbe assunto nel suo studio omosessuali[5].
Può un’affermazione del genere, dal sapore certamente omofobo e quindi irrispettoso nei confronti di una certa categoria di persone, costituire una discriminazione nell’accesso al lavoro? È questa in sostanza la questione (la seconda invero) che la Cassazione italiana pone in via pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Come anticipato, la Corte europea risponde affermativamente, col limite sopra ricordato della verifica del nesso di causalità. Ciononostante, l’esito era poco prevedibile, indice la scelta di un percorso argomentativo che presenta alcune forzature.
Innanzitutto, viene data primariamente risposta alla seconda delle due domande pregiudiziali. In realtà, il giudice rimettente chiedeva preliminarmente se l’Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford (d’ora in avanti l’Associazione) costituisse un ente esponenziale ai sensi dell’art. 9, par. 2, della direttiva 2000/78[6], per verificare la sua legittimazione ad agire in difesa di interessi di singoli o di gruppi nonostante la sua attività fosse anche a scopo di lucro; solo successivamente si poneva il dubbio circa l’ambito d’applicazione della direttiva relativamente alle dichiarazioni rilasciate da Taormina.
L’ordine delle domande così come prospettato dalla Cassazione aveva una sua logica. Chiarire in prima battuta se un organismo ha la capacità giuridica per denunciare una presunta discriminazione ai danni di un indeterminato gruppo di persone avrebbe contestualmente potuto chiarire se le dichiarazioni come quelle rese nel caso di specie costituivano una discriminazione ai sensi dell’art. 2 della direttiva[7]. È vero, come fa notare la Corte di giustizia, che «nel procedimento principale viene in discussione non già il punto se le dichiarazioni rese da NH rientrino nella nozione di discriminazione, […], bensì la questione se, tenuto conto delle circostanze nelle quali tali dichiarazioni sono state effettuate, esse rientrino nell’ambito di applicazione materiale di detta direttiva là dove questa contempla, all’art. 3, par. 1, lett. a), le «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro […], compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione»[8]. Ma è altrettanto verosimile che il giudice italiano abbia formulato la seconda questione tralasciando l’interrogativo sulla natura discriminatoria delle dichiarazioni non tanto perché le riteneva essere tali, ma perché evidentemente presupponeva che sarebbe stata la stessa Corte di giustizia a risolvere il punto grazie alla risposta alla prima domanda. Infatti, in assenza di un ricorso adito direttamente da un soggetto determinato che ritiene di aver subito una disparità di trattamento si sarebbe dovuto necessariamente riflettere sulla nozione di discriminazione, al fine di sapere se è possibile denunciarne la sua sussistenza anche in astratto. Ovvero, la Corte avrebbe dovuto illustrare come mai le dichiarazioni estemporanee fatte da chi non aveva in programma di assumere del personale costituissero di per sé stessa una discriminazione. Avrebbe dovuto chiarire, cioè, sul piano giuridico, i motivi per cui anche le parole debbano essere considerate degli atti concreti e non il preludio di un’eventuale (non si sa quanto probabile) lesione dell’eguaglianza. Invece, decidendo di invertire l’ordine delle risposte, la Corte ha potuto soprassedere sul punto, a ben vedere fondamentale per i casi di hate speech. È sottinteso nel ragionamento della Corte di giustizia che parlare un linguaggio omofobo equivale a discriminare in modo diretto. Questo è un punto da tener presente e che condizionerà tutto il ragionamento successivo. Vediamo come.
Per stabilire se le dichiarazioni di Taormina rientrano nell’ambito d’applicazione della direttiva relativamente alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, la Corte di giustizia specifica che l’interpretazione letterale della disposizione non è sufficiente. Infatti, posto che lo scopo della direttiva è la lotta alle discriminazioni per offrire ad ogni persona le giuste condizioni per entrare nel mondo del lavoro, una interpretazione restrittiva non sarebbe possibile, pena l’esclusione di situazioni pregiudizievoli che altrimenti non sarebbero punite. Di conseguenza, la delimitazione dell’ambito applicativo va individuato considerando il contesto di riferimento: secondo la Corte non è decisivo che vi sia una procedura di selezione in corso o programmata per stabilire se delle dichiarazioni siano relative ad una determinata politica di assunzioni[9]; invece, è necessario che tali affermazioni condizionino le modalità di assunzione. È per questo, ad avviso della Corte, che va cercato il collegamento non ipotetico tra le dichiarazioni e le condizioni di accesso al posto di lavoro.
Fin qui nulla da eccepire, se non fosse che i criteri determinanti per verificare tale nesso – suggeriti dalla stessa Corte – sono tutti indicativi di un preciso modo di intendere le espressioni intolleranti e senza dubbio inaccettabili sul piano etico. Vale a dire, per il sol fatto di essere pronunciate producono determinati effetti negativi. Specificamente, il contrasto alle discriminazioni – obiettivo principale della direttiva – passa attraverso il contrasto al linguaggio anche quando non è detto che questo produca in concreto situazioni di disparità, potendosi arrestare al piano delle minacce, o più semplicemente presentarsi in una forma di ammissione del proprio disprezzo. Infatti, nessuno dei requisiti che la Corte di giustizia suggerisce al giudice del rinvio di verificare ha la caratteristica di provare il sicuro intendimento da parte del datore di lavoro di non assumere persone omosessuali. Analizziamoli uno per uno.
In primo luogo, rileverebbe lo status dell’autore delle dichiarazioni e la veste nella quale si è espresso. Come suggerito nelle conclusioni dell’Avvocato Generale, se lo stesso tipo di dichiarazioni fossero rese da chi svolge un’attività differente da quella a cui le frasi si rivolgono, queste non avrebbero lo stesso impatto in quanto non eserciterebbero un’influenza determinante sulla politica di assunzioni. Stando all’esempio dell’Avvocato Generale, qualora «l’autore dell’affermazione “se fossi un avvocato, non assumerei mai persone LGBTI nel mio studio legale” fosse un architetto, anziché un avvocato, e non ricoprisse alcun ruolo in uno studio legale, tale affermazione, per quanto deplorevole, non presenterebbe alcun nesso effettivo con l’accesso all’occupazione»[10]. Ciò perché, come puntualizzerà poi la Corte, il dichiarante dev’essere «quantomeno, suscettibile di essere percepito dal pubblico o dagli ambienti interessati come capace di esercitare un’influenza siffatta»[11]. Fermiamoci a riflettere meglio su queste parole. Come misurare l’influenza di un qualunque professionista, pur noto nell’ambente, su innumerevoli datori di lavoro titolari di studi professionali sparsi nel territorio nazionale? Chissà quanti, tra questi, hanno preso o prenderebbero le distanze da certe posizioni. Come potrebbe allora il giudice nazionale valutare l’impatto di tale requisito? Non gli rimarrebbe che affidarsi a sue proprie percezioni. Potrebbero forse aiutare delle mirate indagini statistiche per capire a quanto ammonta il numero di omosessuali a cui, dopo le dichiarazioni di Taormina, è stata negata un’assunzione negli studi legali. Ma, verosimilmente, simuli studi non sono stati effettuati, quindi il problema di considerare in termini oggettivi il requisito suggerito dalla Corte di giustizia pare irrisolvibile.
In secondo luogo, si suggerisce di considerare la natura e il contenuto delle dichiarazioni in questione. Nello specifico, «queste ultime devono riferirsi alle condizioni di accesso all’occupazione e al
lavoro presso il datore di lavoro di cui trattasi e dimostrare l’intenzione di tale datore di lavoro di discriminare sulla base di uno dei criteri previsti dalla direttiva 2000/78»[12]. Come interpretare questo criterio, il quale in realtà pare essere scollegato dagli altri indicati? È a tutti chiaro che Taormina non abbia parlato in qualità di datore di lavoro che si accingeva ad assumere del personale nel suo studio. Delle due l’una, o il contenuto delle sue dichiarazioni devono essere valutate in seno a procedure di assunzione presso altri studi, al momento ipotetici, oppure a suo esclusivo pregiudizio per la manifesta intenzione di non voler assumere in futuro personale con un preciso orientamento sessuale[13]. Al di là di tutto, in assenza di una situazione concreta di diniego di assunzione di una persona omosessuale in uno studio professionale, le dichiarazioni di Taormina, pur ipoteticamente discriminatorie, non presentano alcun nesso con una specifica e reale situazione. L’unica indicazione chiara che proviene dalla segnalazione di questo requisito è di fare attenzione al modo di essere delle dichiarazioni incriminate, per riconoscerne la “natura” discriminatoria, a prescindere dal dispiegamento dei loro effetti in concreto.
Da ultimo, è rilevante «il carattere pubblico o privato delle dichiarazioni, od anche il fatto che esse siano state oggetto di diffusione tra il pubblico, a prescindere che ciò sia avvenuto attraverso i media tradizionali oppure tramite social network»[14]. Al contrario di quello precedente, questo è un requisito essenzialmente collegato al primo, in quanto più un’informazione è pubblica e ha un certo grado di diffusione tra i media – che siano classici oppure di nuova generazione poco importa – più ha capacità d’influenzare chi deve decidere.
L’elencazione dei criteri rivela l’inclinazione della Corte di giustizia che, come si vedrà a breve, non è estranea al resto del mondo del diritto, in particolare alle altre Corti, a proteggere le persone più deboli vessate dagli atteggiamenti tracotanti di taluni. Ciò per assicurare loro il posto che spetta nella società. Da come impostata l’intera decisione, è come se il problema legato alla discriminazione risiedesse a monte, più che a valle. Ovvero, le dichiarazioni di natura discriminatoria dissuaderebbero le categorie oppresse alla ricerca di un impiego, contravvenendo allo scopo principale della direttiva che ambisce alla piena partecipazione dei cittadini alla vita economica, culturale e sociale
Il senso di umiliazione sofferto da alcune categorie spinge a vigilare attentamente sull’ambiente circostante, pretendendo anche giuridicamente di creare e mantenere un clima sociale privo di conflitti, tanto che si ritiene rispettato il principio di proporzionalità rispetto all’ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione. Come sostiene la Corte «non si va oltre quanto è necessario per realizzare gli obiettivi di tale direttiva, vietando unicamente le dichiarazioni che costituiscono una discriminazione in materia di occupazione e di lavoro»[15].
L’approccio scelto dalla Corte di giustizia non è affatto isolato e può comprendersi appieno se si esaminano le recenti tendenze della Corte di Strasburgo e delle corti italiane sul bilanciamento tra libertà d’espressione e non discriminazione, rivelatrici entrambe di una concezione paternalistica dello Stato, il quale si sente in dovere di censurare certi tipi di linguaggio.
3. Discorsi d’odio e non discriminazione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo
La Corte europea dei diritti dell’uomo è stata tra le prime a riconoscere limiti stringenti ai discorsi d’odio, potendo adottare un approccio ben diverso rispetto a quello che la Corte di giustizia è stata costretta a seguire. A differenza di questa, che per le caratteristiche del sistema entra nella questione dei diritti incidentalmente nonostante la vincolatività della Carta di Nizza[16], il compito esclusivo affidato a Strasburgo è vigilare sulla tutela delle libertà fondamentali. Pertanto, per essa è fisiologico “misurare” i diritti tra di loro, cercando di valutare caso per caso se i limiti esplicitamente richiamati nei singoli articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti CEDU) siano stati valicati. La conseguenza è che alla Corte Edu vengono proposti svariati motivi per denunciare l’offensività dei discorsi d’odio, tanto da non aver mai dovuto finora giustificare la loro limitazione per lesione del principio di non discriminazione, sebbene questo sia esplicitamente previsto all’art. 14 CEDU e al Protocollo aggiuntivo n. 12.
In particolare, questa Corte può attingere al lungo elenco delle restrizioni contemplate al secondo comma dell’art. 10 CEDU[17], oltre che alla clausola di salvaguardia sull’abuso di diritto ex art. 17, che scatta qualora i ricorsi abbiano il reale scopo di annientare la libertà di cui si denuncia la lesione[18]. Nel caso della manifestazione del pensiero, la Corte applica tale disposizione per quelle dichiarazioni che vengono utilizzate all’unico scopo di raggiungere fini contrari al testo e allo spirito della Convenzione. Quando, cioè, la Corte teme che la richiesta di protezione di un diritto fondamentale sia strumentale a raggiungere lo scopo opposto di distruggerlo, essa dichiara l’inammissibilità della questione per incompatibilità ratione materiae.
In definitiva, Strasburgo usa categorie che esulano dalle posizioni civilistiche di accesso al lavoro, alle prestazioni sociali etc. e che presuppongono una discriminazione ai danni dei soggetti coinvolti. I beni oggetti di tutela sono individuati tenendo conto dell’obiettivo principale della Convenzione, ovvero la salvaguardia della democrazia. Perciò, la censura dei discorsi d’odio si giustifica nella misura in cui questi mettano in pericolo l’ordine democratico. Eppure, come si vedrà, proprio in vista della sua protezione la Corte ha, in tempi più recenti, giustificato la sanzione dei discorsi d’odio per evitare disparità di trattamento tra i consociati. Ossia, la parola diventa atto di discriminazione che fomenta il conflitto, scompaginando l’ordine sociale.
Detto in sintesi, nei primi anni di attività la Corte compiva uno scrutinio molto attento sugli indici di pericolosità che potevano minacciare la tenuta del sistema democratico, richiamandosi alla dottrina del clear and present danger elaborata dalla giurisprudenza della Corte suprema statunitense[19]. In definitiva, i discorsi d’odio venivano limitati quando il rischio si riteneva “attuale”; ad esempio quando all’istigazione seguivano veri e propri disordini violenti[20]. Successivamente, il principio a cui la Corte si è sempre ispirata, secondo cui la massima espansione della libertà d’espressione è ingrediente essenziale per la realizzazione del processo democratico – tanto da giustificare le opinioni più scioccanti, che inquietano, che disturbano – è stato ridimensionato e a tratti rinnegato. Nei tempi attuali i pensieri scomodi sono censurati proprio per preservare lo Stato democratico. Per questo, il criterio del clear and present danger è stato man mano sostituito con quello dell’indirect harm, il quale ammette la punibilità di idee che incitano all’odio o alla violenza, anche quando non costituiscono una minaccia attuale alla democrazia, perché potrebbero comunque rappresentare una minaccia futura.
Ma quanto futura? Solo ipotetica oppure “pressoché” certa? Avendo imboccato la strada della protezione anticipata, la Corte cerca comunque di rimanere prudente per contenere i rischi di un’eccessiva, se non addirittura inutile limitazione ai pensieri che potrebbero rivelarsi poi innocui. A tal fine essa si serve di due tipi di test: l’incitement test, il quale prova la “quasi” imminenza del danno conseguente all’adozione di un registro verbale intenzionalmente provocatorio e offensivo; il bad tendency test, attraverso cui s’individuano le espressioni d’odio, che lungi dall’avere un reale intento sovversivo, sono considerate “tendenzialmente” portatrici sane di discriminazione e violenza, come ad esempio la diffusione di stereotipi che col tempo rafforzano attitudini e atteggiamenti discriminatori già esistenti o ne alimentano di nuovi[21]. I discorsi d’odio limitabili sono quelli che non superano il primo dei due.
Ciononostante, lo scrutinio che la Corte compie non è sempre lineare, dato che alla prova dei fatti questi test si sono rivelati poco attendibili per la difficoltà di demarcare una netta linea di confine tra di loro. Soprattutto due precisi filoni giurisprudenziali, che interessano l’uno l’odio espresso nei confronti della minoranza ebraica (in particolare attraverso il negazionismo), l’altro l’odio rivolto ai migranti extracomunitari, provano come la Corte europea si spinga oltre la barriera dell’incitement test, applicando restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero anche quando non producono conseguenze negative solo nel breve periodo[22].
In tal modo, la protezione della democrazia passa non tanto attraverso la prevenzione di atti sovversivi indotti dall’utilizzo di un linguaggio istigante all’odio, quanto piuttosto grazie alla prevenzione di conflitti sociali dovuti all’esplicito mancato riconoscimento di determinati gruppi deboli. Detto in altri termini, la Corte, negando protezione ai discorsi d’odio, tutela il danno indiretto da discriminazione, pur non dichiarandone la violazione degli articoli della Convenzione ad essa dedicati. Basta il passaggio di questa sentenza per capire l’approccio ormai scelto da Strasburgo: «Attacchi che si concretizzano in insulti, la messa in ridicolo o la calunnia ai danni di specifici gruppi di una popolazione sono motivi sufficienti per le autorità per combattere l’hate speech, sfavorendo così la libertà d’espressione esercitata in maniera irresponsabile»[23].
Dietro a decisioni in cui si punisce chi non ha rispetto per le minoranze, paventando un “eventuale” pericolo di discriminazione nei loro confronti, si cela l’esigenza di proteggerle da vessazioni e risentimenti. Sembrano allora confermate le parole del costituzionalista inglese McCrudden, il quale già in un articolo del 1995 avvertiva della china paternalistica su cui iniziava a scivolare la Corte di Strasburgo[24], quando ancora i paesi europei non immaginavano affatto di dover fronteggiare i problemi relativi ai flussi immigratori e al terrorismo di matrice islamica.
4. Discorsi d’odio e non discriminazione nella giurisprudenza italiana
Anche i giudici italiani tentano di seguire la strada europea, ritenendo opportuno condannare il pensiero discriminatorio e non solo l’azione discriminatoria.
Se, come visto, per Strasburgo a fare da grimaldello è stata esclusivamente la tutela dell’ordine democratico, per il nostro ordinamento si è potuta adottare anche una prospettiva molto più vicina a quella della Corte di giustizia.
Inizialmente i discorsi d’odio venivano punti sulla base della legge penale n. 654/1975, oggi abrogata per essere stata inserita nel codice penale agli articoli 604-bis e 604-ter. Questa legge, che col tempo aveva subito ulteriori modifiche[25], era stata interpretata nel senso di proteggere l’ordine pubblico. Successivamente, grazie a un’interpretazione evolutiva della giurisprudenza – favorita dall’accostamento della fattispecie della propaganda d’idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, alla fattispecie dell’istigazione a commettere “atti di discriminazione” per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi – i beni oggetto di tutela sono diventati la dignità sociale e l’eguaglianza, oltre che l’ordine pubblico[26].
Poiché il rispetto dell’eguaglianza passa anche e soprattutto attraverso la tutela del principio di non discriminazione, non stupisce che gli hate speeches abbiano finito con l’essere sanzionati altresì nei procedimenti civili. Ciò è potuto accadere per aver inserito nel decreto legislativo n. 215/2003 – che dà attuazione alla direttiva comunitaria 2000/43/CE «per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica» – il divieto di molestia per discriminazione qualora questa si sostanzi in un «comportamento indesiderato posto in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo»[27].
L’interpretazione data dai giudici civili a tale disposizione va nel senso di considerare come “comportamenti” molesti non solo l’adozione di atti materiali di discriminazione, ma anche la comunicazione verbale o scritta di messaggi discriminatori. Tra l’altro, mentre i giudici penali sono costretti a valutare l’elemento soggettivo del dolo (generico o specifico) e quello oggettivo del pericolo (astratto o concreto) – nonostante entrambi siano sempre più ricordati in modo apodittico senza che se ne appuri la loro reale incidenza nel caso di specie – i giudici civili sono esentati dal motivare il nesso di causalità tra pensiero razzista e atto materiale di discriminazione. Infatti, la generica formula “comportamento indesiderato” a cui fa riferimento il testo legislativo consente loro di attribuire alla diffusione di un messaggio (in forma scritta o verbale) una valenza di per sé discriminatoria[28].
Questa impostazione ha potuto facilmente essere adottata anche per valutare l’incidenza dei discorsi omofobi sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, disciplinata dal decreto legislativo n. 215/2003, che ha dato attuazione alla direttiva 2000/78/CE e che rappresenta altresì la normativa di riferimento per la risoluzione del caso di specie che in questa sede si sta commentando.
Nientemeno, la definizione offerta dal testo legislativo che identifica la discriminazione diretta come quella situazione in cui «una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga»[29], introduce, a parere dei giudici, sia una comparazione attuale, che una meramente ipotetica. Di conseguenza, «è atta a integrare discriminazione anche una condotta che, solo sul piano astratto, impedisce o rende maggiormente difficoltoso l’accesso all’occupazione»[30].
Il punto su cui più s’insiste maggiormente è l’effetto demoralizzante e dissuasivo delle dichiarazioni discriminatorie rese nei confronti di quelle persone che si vorrebbero escludere. O, meglio, il tipo «di pregiudizio, anche soltanto potenziale, che una categoria di soggetti potrebbe subire in termini di svantaggio o di maggiore difficoltà, rispetto ad altri non facenti parte di quella categoria, nel reperire un bene della vita, quale l’occupazione»[31].
Concludendo, sia per Strasburgo sia per i giudici italiani i discorsi che usano parole sgradite, non confacenti a un registro verbale polite[32], non possono essere ritenute manifestazioni di opinioni costituzionalmente garantite, perché considerate pensieri-non pensiero, bensì pensieri-azione. Viene così rispolverata la vecchia dottrina penalistica dei limiti logici all’art. 21 Cost[33]. A differenza però di quando fu formulata, tale teoria oggi acquista una nuova veste in quanto il pensiero che si fa azione non consiste necessariamente in un atto violento, ma anche, come ormai chiaro, in un atto discriminatorio. Le manifestazioni d’odio non sarebbero “logicamente” pensieri perché espressioni irrazionali che inducono chi ascolta a rifiutare il prossimo, invece che riconoscerlo come un proprio pari. La difesa della pari dignità sociale, i rischi psico-sociali, il mutuo riconoscimento sono quindi gli argomenti per giustificare la limitazione della libertà d’espressione[34].
5. Una nuova veste per il principio di non discriminazione e le conseguenze possibili sul ruolo della Corte di giustizia
Considerata la prospettiva appena descritta, il bilanciamento tra libertà d’espressione e il principio di non discriminazione proposto dalla Corte di giustizia non rappresenta affatto una nota dissonante rispetto agli orientamenti di Strasburgo e della giurisprudenza ordinaria italiana. Eppure, il modo di argomentare di Lussemburgo nel caso in questione risulta essere fuori dal coro rispetto alla sua propria giurisprudenza pregressa. Le affermazioni relative ai limiti ammessi alla libertà d’espressione e l’interpretazione data al principio di non discriminazione dimostrano come la Corte di giustizia si trovi una volta di più di fronte a una crisi identitaria, divisa tra il suo classico ruolo di custode dei Trattati e quello peculiare di giudice dei diritti, certamente non inedito, ma che fatica ad assumere una forma regolare[35]. Guardare più da vicino a questi aspetti aiuta a cogliere meglio il punto.
-Lo schema di giudizio adottato per valutare la libertà d’espressione
Per valutare la compressione della libera manifestazione del pensiero viene richiamata la sua natura non assoluta e la conseguente e necessaria verifica del principio di proporzionalità tra i limiti apposti e gli obiettivi da perseguire.
Questi argomenti sono entrambi previsti dalla Carta di Nizza al primo paragrafo dell’art. 52 e utilizzati tipicamente da qualunque Corte costituzionale, così come da Strasburgo. Si pensi ad esempio alla giurisprudenza del nostro giudice delle leggi a tal riguardo. Nella sua prima sentenza aveva affermato che «il concetto di limite è insito nel concetto di diritto»[36], senza però farsi sfuggire l’occasione di dichiarare successivamente che le limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero possono trovare fondamento solo in altri diritti, beni, interessi o valori di rango costituzionale[37].
Come si accennava, è la stessa tecnica che la Corte di giustizia adotta, se non fosse che l’osservanza del criterio della proporzionalità viene solo annunciato, ma non affatto verificato in concreto. Ci si limita ad asserire da un lato che il contenuto essenziale della libertà d’espressione è rispettato visto che le limitazioni applicate «si applicano unicamente al fine di raggiungere gli obiettivi della direttiva 2000/78, ossia garantire il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale»[38]; dall’altro lato che «limitazioni siffatte rispettano altresì il principio di proporzionalità, nella misura in cui […] l’ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione non va oltre quanto è necessario per realizzare gli obiettivi di tale direttiva, vietando unicamente le dichiarazioni che costituiscono una discriminazione in materia di occupazione e di lavoro»[39].
La proporzionalità sarebbe cioè rispettata per il sol fatto che vengono censurate esclusivamente le dichiarazioni relative “all’argomento” lavoro, non per la loro incidenza effettiva sulle condizioni di accesso a un determinato posto occupazionale. Come già spiegato più volte, non ci si pone il problema di verificare il nesso causa-effetto, che rappresenterebbe invero il tratto peculiare dello schema di giudizio della proporzionalità. L’effetto è insito nella causa: frasi dal sapore discriminatorio si sostanziano in un trattamento sfavorevole perché automaticamente dissuadono i destinatari a cui sono rivolte dal candidarsi a un posto di lavoro. Il bilanciamento è solo apparante, non proponendo ad esempio nessun argomento per misurare l’eventuale incidenza sul principio del pluralismo, altrettanto caposaldo di riferimento dell’integrazione europea e citato accanto alla non discriminazione come valore fondante dell’Unione. Manca, in sostanza, un ragionamento che è proprio di un giudice costituzionale.
-Lo schema di giudizio adottato per valutare il principio di non discriminazione
Se il pressapochismo del giudizio sulla limitazione della libertà d’espressione sconcerta – così come sconcerta quello fatto proprio da Strasburgo e dai giudici comuni italiani – ancora più sbalorditivo risulta essere lo schema di giudizio (non) adottato per valutare la sussistenza della discriminazione denunciata.
Come noto, la discriminazione diretta si caratterizza per il trattamento sfavorevole riservato a una persona. Ad esempio, per il rifiuto dell’accesso a un ristorante o esercizio commerciale, l’attribuzione di una pensione o retribuzione inferiore, l’età di pensionamento più alta o più bassa, l’impossibilità di accedere a una determinata professione, il divieto di indossare simboli religiosi, il rifiuto o la revoca di prestazioni previdenziali. Tuttavia, ai fini della discriminazione, tale trattamento sfavorevole assume rilievo nella misura in cui possa essere raffrontato col trattamento riservato a un’altra persona che si trovi in situazione analoga. Pertanto è necessario avere un termine di confronto, vale a dire una persona in circostanze “materiali” paragonabili, che si differenzi dalla presunta vittima principalmente per la caratteristica che forma oggetto del divieto di discriminazione[40].
Appare evidente come nel caso di specie non solo manchi tale termine di confronto, ma manca nientemeno la eventuale vittima. Infatti, giova ripeterlo, la discriminazione denunciata è solo presunta ed ipotetica.
Cosa spinge allora la Corte a proporre l’argomentazione utilizzata nella sentenza e che prescinde del tutto da questo schema? È vero che il principio di non discriminazione ha gradualmente indossato nuove vesti, divenendo dapprima – in via pretoria – un principio generale dell’ordinamento tale da tutelare situazioni che sarebbero altrimenti rimaste escluse dall’ambito delle competenze dell’Unione se si fosse stati costretti a basarsi solo sulla verifica dell’efficacia diretta delle direttive[41]; in seguito divenendo un valore fondante dei trattati che ha legittimato esplicitamente l’adozione di direttive con effetti diretti orizzontali. Tuttavia, arrivare a sostenere la sussistenza di una discriminazione in assenza di un caso concreto – come fa oggi la Corte di giustizia nel caso Taormina – potrebbe rappresentare il canale per moltiplicare i ricorsi attraverso cui vengono rivendicati i diritti in sede europea[42] e sui cui la Corte mostra di non essere attrezzata per effettuare un adeguato bilanciamento e per fornire i giusti rimedi[43].
Vi è da chiedersi se questa nuova tendenza non sia semplicemente il frutto di una politica “protettiva” delle istituzioni sovranazionali e nazionali nei confronti dei gruppi deboli – Corte di giustizia compresa – e che le porta tutte a prendere le distanze da certi atteggiamenti immorali censurandoli giuridicamente. Oppure, se questa è una strada che sarà percorsa anche in giudizi futuri relativi alla protezione di tanti altri diritti fondamentali intrecciati alla non discriminazione. Se così fosse, il confronto tanto richiesto dalla Corte costituzionale italiana, concretizzatosi sia con il promovimento delle questioni pregiudiziali da parte sua stessa alla Corte di giustizia sia con lo strumento della doppia pregiudizialità a disposizione dei giudici comuni, si rivelerebbe proficuo, nonostante irto di conflitti e d’incertezze[44].
La protezione dei diritti fondamentali da parte delle giurisdizioni costituzionali nazionali e da parte della Corte di giustizia necessita quanto mai di un serrato contraddittorio. Le debolezze del giudizio europeo sono ormai evidenti quando in gioco ci sono i diritti fondamentali, soprattutto per la propensione della Corte ad allargare le competenze dell’Unione, invece che contenerle in stretti confini[45]. Non sarebbe allora peregrino ragionare attorno all’ultima proposta di Weiler e Sarmiento i quali, criticando la mancanza dell’appellabilità delle decisioni della Corte di giustizia, ritengono necessario prevedere un secondo grado di giudizio limitato a casi eccezionali – che interessano le attribuzioni in tema di diritti – e valutato da una Corte composta sia da giudici della Corte di giustizia sia da giudici costituzionali o delle Supreme Corti nazionali[46].
[1] Cfr. art. 2, TUE.
[2] Cfr. art. 3, par. 2, lett. a), TUE.
[3] CGUE, C-507/18, NH c. Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford (2020).
[4] In genere, i reati d’opinione proteggono la personalità dello Stato (tra cui il prestigio delle istituzioni, come il vilipendio) – oppure l’ordine pubblico (come l’istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, l’apologia di delitti, la diffusione di notizie false e tendenziose). In dottrina, per tutti, C. Fiore, I reati d’opinione, Padova, 1972; E. Lamarque, I reati d’opinione, in Aa. Vv., Percorsi di diritto dell’informazione, Torino, 2011, 141 ss.; M. Cuniberti, Il buon costume e i reati di opinione, in Aa. Vv., Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, 171 ss.
[5] Nello specifico Taormina dichiarava: «se la tenga lei l’omosessualità […], l’importante è che non mi stiano intorno […]. Mi danno fastidio […]. Parlano diversamente, si vestono diversamente, si muovono diversamente, è una cosa assolutamente insopportabile. È contro natura».
[6] L’art. 9 della citata direttiva è compreso nel capo II di quest’ultima, relativo ai mezzi di ricorso e all’attuazione delle norme. Intitolato “Difesa dei diritti”, tale articolo prevede, al par. 2, quanto segue: «Gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva».
[7] L’art. 2 così recita: «1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1. 2. Ai fini del paragrafo 1: a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che: i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (…)».
[8] CGUE, causa C-507/18, cit., § 28.
[9] Un’affermazione questa che la Corte di giustizia mutua da un suo precedente, che esplicitamente cita nella decisione in commento (v. §§ 40-41), ovvero CGUE, C‑81/12, Asociaţia Accept (2013). Anche in questo caso non si era alla presenza di una selezione pubblica di assunzione o di una trattativa privata; tuttavia, le dichiarazioni omofobe erano state rese da un’azionista della stessa società (calcistica) che in seguito non aveva ingaggiato un calciatore proprio perché, presumibilmente, omosessuale. Quindi, differentemente dal caso NH, il collegamento tra le dichiarazioni e la politica delle assunzioni si poteva misurare in concreto.
[10] Conclusioni dell’Avvocato generale Sharpston, C-507/18, NH, 31 ottobre 2019, § 52.
[11] CGUE, C-507/18, cit., § 44.
[12] Ivi, § 45.
[13] È questa d’altronde la conclusione a cui in primo e in secondo grado erano giunti i giudici italiani. Cfr. Trib. Bergamo, ord. 6 agosto 2014; App. Brescia, sez. lav., 11 dicembre 2014.
[14] CGUE, causa C-507/18, cit., § 46.
[15] Ivi, § 52.
[16] Cfr. l’art. 51, par. 1, della Carta che nello specifico stabilisce che l’ambito applicativo della Carta si estende «alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze».
[17] Cfr. art. 10, par. 2, CEDU che dispone: «L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario»
[18] In generale per la genesi e l’applicazione di tale articolo cfr. C. Pinelli, Art. 17. Divieto dell’abuso di diritto, in S. Bartole – B. Conforti – G. Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001; S. Bartole – P. De Sena – V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, Padova, 2012. In particolare sull’impatto che l’art. 17 ha sulla libertà di manifestazione del pensiero, H. Cannie – D. Voorhoof, The Abuse Clause and Freedom of Expression in the European Human Rights Convention: An Added Value for Democracy and Human Rights Protection, in N.Q.H.R., 29, 2011, 54 ss.; D. Keane, Attacking hate speech under Article 17 of the European Convention on human rights, ivi, 25, 2007, 641 ss.
[19] Il clear and present danger è da intendersi come l’istigazione alla commissione di un reato. La sua prima formulazione risale all’opinione dissenziente del giudice Holmes espressa nella storica sentenza Abrams v. United States degli inizi del novecento (Abrams v. United States, 250 U.S., 1919). Per un commento sulla giurisprudenza prodotta in applicazione di tale dottrina, R. J. Williams Jr., Burning crosses and blazing words: Hate Speech and the Supreme Court’s free speech clause jurisprudence, in Seton Hall L. J., 5, 1999, 609 ss.
[20] A tal proposito, si veda il filone dei casi turchi che vedeva coinvolta la popolazione curda, la quale rivendicava attraverso manifestazioni violente la propria indipendenza. Tra i molti, Zana c. Turchia, ric. 18954/91 (1997); Surek. C. Turchia (n. 1), ric. 26682/95 (1999) e Surek c. Turchia (n.3), ric. 26682/95 (1999), Falakaoglu e Sajgili c. Turchia, ric. 77365/01 (2007).
[21] Cfr. le opinioni dissenzienti nel caso Asku c. Turchia, ricc. 4149/04 e 41029/04 (2010). Significativo è il passaggio in cui i giudici dichiarano che: «Stereotypes are ready-made opinions that focus on peculiarities, and prejudices are preconceived ideas that lead to bias: they are dangerous because they reflect or even induce an implicit discrimination» (§ 2 dell’opinione dissenziente dei giudici Tulken, Tsotsoria e Pardalos). In dottrina, S. Sottiaux, Bad tendencies in the ECtHR’s hate speech jurisprudence, in Eu. Const. L. Rev., 7, 2011, 40 ss.
[22] Non è questa la sede per una loro compiuta analisi. Sia quindi consentito il rimando a P. Tanzarella, Discriminare parlando. Il pluralismo democratico messo alla prova dai discorsi d’odio razziale, Torino, 2020, spec. 99-110.
[23] Feret c. Belgio, ric. 15615/07 (2009), § 73. Il ricorrente è il Presidente del partito politico belga Front National il quale, durante una campagna elettorale, oltre a comizi dai toni efferati, aveva fatto distribuire degli stampati in cui si illustrava con veemenza il programma di governo incentrato sull’opposizione all’islamizzazione del Belgio. Questo prevedeva, tra i diversi punti, il rimpatrio forzato degli immigrati e la concessione dell’asilo politico ai soli cittadini europei. I giudici interni lo condannano quindi a scontare una pena detentiva di dieci mesi, a svolgere attività di volontariato per un totale di 250 ore in un centro per l’integrazione di stranieri migranti, e all’interdizione dall’elettorato passivo per sei anni. Strasburgo dà ragione allo Stato, non riscontrando quindi la violazione dell’art. 10 CEDU. Sul concetto di esercizio “responsabile” della libertà di manifestazione del pensiero d’odio, C. Frances Moran, Responsibility and freedom of speech under article 10, in Eu. Hum. Rights Law Rev., 1, 2020, 67 ss.
[24] C. McCrudden, Freedom of Speech and Racial Equality, in P.B. H. Birks (ed.), Pressing Problems in the Law, vol. 1, Criminal Justice and Human Rights, Oxford, 1995, 125 ss.
[25] La prima modifica si è avuta con la legge n. 205/1993, meglio nota come “legge Mancino”; la seconda con la legge n. 85/2006, aspramente criticata in dottrina. C. Fiore, I limiti di espressione dell’antagonismo politico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2016, 893 ss.; A. Spena, Libertà di espressione e reati di opinione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2007, 689 ss.; M. Pellissero, Osservazioni critiche sulla legge in tema di reati di opinione: occasioni mancate e incoerenze sistematiche, in Dir. pen. proc., 8, 2006, 960 ss.; D. Pulitanò, Riforma dei reati d’opinione?, in Corr. giur., 6, 2006, 745 ss.
[26] Per la rassegna di tale giurisprudenza sia consentito il rimando a P. Tanzarella, Discriminare parlando, cit., 136-169.
[27] Art. 2, c. 3, l. 215/2003.
[28] Diverse sono le ordinanze pronunciate dai giudici civili. Ad es., Trib. Brescia, sez. volontaria giurisdizione, ord. 31 gennaio 2012; Trib. Milano, sez. I civ., ord. 28 maggio 2012; Trib. Pescara, sez. civ., 21 giugno 2013; Trib. Roma, sez. I civ., 16 febbraio 2015; Trib. Milano, sez. I civ., ord. 16 aprile 2016; Trib. Milano, sez. I civ., 22 febbraio 2017. Sulle motivazioni proposte se si vuole si rimanda ancora a P. Tanzarella, Discriminare parlando, cit., 169-183.
[29] Art. 1, d.lgs. 216/2003.
[30] Trib. Bergamo, ord. 6 agosto 2014, cit.
[31] App. Brescia, sez. lav., 11 dicembre 2014, cit.
[32] Sui rischi dell’uso spropositato del politally correct e dei suoi effetti controproducenti, E. Capozzi, Politicamente corretto. Storia di un’ideologia, Venezia, 2018.
[33] G. Bettiol, Sui limiti penalistici alla libertà di manifestazione del pensiero, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1965, 641 ss.; G. Zuccalà, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della libertà di pensiero, in Riv. it. dir. proc. pen., 1966, 1154 ss. Insiste sull’opportunità di distinguere tra le forme espressive lecite e quelle illecite anche Nuvolone, il quale ritiene che resterebbero escluse dalla protezione costituzionale della libera manifestazione del pensiero le espressioni «attivizzanti, teleologicamente orientate a suscitare nei destinatari comportamenti modificatori della realtà». P. Nuvolone, Il problema dei limiti della libertà di pensiero nella prospettiva logica dell’ordinamento, in Aa.Vv., Legge penale e libertà del pensiero, Padova, 1966, 350 ss., spec. 353.
[34] La teorizzazione di questa rinnovata dottrina dei limiti logici arriva dagli Stati Uniti. Particolarmente influenti sono i membri della Critical Race Theory, i quali partono dal presupposto che le offese gratuite a danno delle minoranze creano gravi disagi a livello psicologico e sociale in termini di autostima e di accettazione, tali non solo da ledere la dignità umana, ma da contaminare anche l’ambiente circostante, provocando il rischio di disordini con una conseguente instabilità politica. Su una puntuale esplicazione della teoria v. R. Delgado – J. Stefancic, Critical Race Theory. An introduction, New York, 2012. Tra gli studiosi italiani cfr. G. Pino, Discorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, in Pol. dir., 2008, 307 ss. Particolarmente suggestiva è anche la tesi di Jeremy Waldron, il quale sostiene che una società oltre che “essere”, deve anche “apparire” ordinata, tanto da non ritenere necessario che per punire i discorsi d’odio alla loro diffusione debbano seguire atti discriminatori tangibili. J. Waldron, The Harm in Hate Speech, Cambridge, 2012.
[35] Naturalmente si fa qui riferimento al modo in cui la Corte di giustizia si è per prima costruita il ruolo di giudice dei diritti in via pretoria dal caso Stauder in poi per assicurare il principio del primato del diritto dell’Unione attraverso il richiamo alle tradizioni costituzionali comuni e ai diritti contemplati nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per tutti, cfr. M. Cartabia, L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione europea, in Ead. (a cura di), I diritti in azione, Bologna, 2007.
[36] Corte cost., sent. 1/1956. Molto critico rispetto a tale assunto Esposito il quale avvertiva del pericolo di giustificare in via generale limiti alle libertà costituzionalmente garantite e in particolare alla libertà di manifestazione del pensiero. C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, 15.
[37] Cfr. ex multis, Corte cost., sentt. 19/1962 e 9/1965. Per una carrellata dei limiti impliciti utilizzati per la tutela di beni di rango costituzionale individuati dalla giurisprudenza costituzionale cfr. E. Lamarque, I reati d’opinione, cit., 155-157.
[38] CGUE, causa C-507/18, cit., § 51.
[39] Ivi, § 52.
[40] Sulla necessità di individuare un «termine di confronto» idoneo insiste la giurisprudenza della Corte di giustizia nel caso in cui la vittima della discriminazione sia una donna in gravidanza. Leading case CGUE, C-177/88, Dekker c. Stichting Vormingscentrum voor Jong Volwassenen (VJV-Centrum) Plus (1990); nello stesso senso CGUE, C-32/93, Webb c. EMO Air Cargo (UK) Ltd (1994). In dottrina, sui casi relativi all’antidiscriminazione, tra i molti, E. Ellis – P. Watson, EU Anti-Discrimination Law, Oxford, 2012; S. Fredman, Discrimination Law, Oxford 2002.
[41] Leading case CGUE, C-144/04, Werner Mangold c Rüdiger Helm (2005). Tra i commentatori, L. Cappuccio, Il caso Mangold e l’evoluzione della giurisprudenza comunitaria sul principio di non discriminazione, in M. Cartabia (a cura di), Dieci casi sui diritti in Europa, cit., 111 ss; A. D’Aloia, Il principio di non discriminazione e l’integrazione europea «attraverso» la Corte di Giustizia: riflessi del caso Mangold, ivi, 125 ss.
[42] Sulla spinta che la normazione europea ha dato ai cittadini per ricorrere a Lussemburgo e rivendicare la protezione dei diritti fondamentali, E. Muir – C. Kilpatrick – J. Miller – B. de Witte (eds.), How EU Law Shapes Opportunities for Preliminary References on Fundamental Rights: Discrimination, Data Protection and Asylum, in EUI Working Paper, 7, 2017.
[43] A tal proposito, cfr. M. Dawson – E. Muir – M. Claes, Enforcing the EU’s Rights Revolution: The Case of Equality, in Eur. H. R. Law Rev., 3, 2012, 276 ss.
[44] Non è questa la sede per ripercorrere i passi compiuti finora in termini di dialogo tra le due Corti. Basti ricordare la saga Taricco e quanto è scaturito dall’obiter dictum della sentenza della Corte cost. n. 269/2017. Tra i diversi commenti in dottrina, ex multis, R. Conti, La Cassazione dopo Corte cost. n. n. 269/2017. Qualche riflessione, a seconda lettura, in Forum di Quad. Costituzionali, 2017; G. Di Federico, La “saga Taricco”: il funzionalismo alla prova dei controlimiti (e viceversa), in Federalismi.it, 11, 2018, 14 ss.; M. L. Ferrante, La vicenda “Taricco” e la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Diritti fondamentali, 1, 2018; D. Gallo, Efficacia diretta del diritto UE, procedimento pregiudiziale e Corte costituzionale: una lettura congiunta delle sentenze n. 269/2017 e 115/2018, in Rivista AIC, 1, 2019, 220 ss.; A. Guazzarotti, La sentenza n. 269 del 2017: un «atto interruttivo dell’usucapione» delle attribuzioni della Corte costituzionale?, in Quad. costituzionali, 1, 2018, 194 ss.; R. Mastroianni, Da Taricco a Bolognesi, passando per la ceramica Sant’agostino: il difficile cammino verso una nuova sistemazione tra Carte e Corti, in Osservatorio sulle fonti, 1, 2018; M. Nisticò, Taricco II: il passo indietro della Corte di giustizia e le prospettive del supposto dialogo tra le Corti, in Osservatorio Costituzionale, 1, 2018; G. Repetto, Concorso di questioni pregiudiziali (costituzionale ed europea), tutela dei diritti fondamentali e sindacato di costituzionalità, in Giur. Cost., 6, 2017, 2955 ss.; L.S. Rossi, La sentenza n. 269/2017della Corte costituzionale italiana: obiter “creativi” (o distruttivi?) sul ruolo dei giudici italiani di fronte al diritto dell’Unione europea, in Federalismi.it, 3, 2018; A. Ruggeri, Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario assiologicamente pregnanti, attratte nell’orbita del sindacato accentrato di costituzionalità, pur se riguardanti norme dell’Unione self-executing (a margine di Corte cost. n. 269 del 2017), Rivista di Diritti comparati, 3, 2017, 234 ss.; G. Scaccia, Giudici comuni e diritto dell’Unione europea nella sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017, in Osservatorio Costituzionale, 2, 2017, 2948 ss.; C. Schepisi, I futuri rapporti tra le Corti dopo la sentenza n. 269/2017 e il controllo erga omnes alla luce delle reazioni dei giudici comuni, in Federalismi.it, 22, 2018, 2 ss.; D. Tega, La sentenza n. 269 del 2017: il concorso di rimedi giurisdizionali costituzionali ed europei, in Quad. costituzionali, 1, 2018, 197 ss.
[45] Sulla necessità del confronto invece che dello scontro tra giurisdizione europea e giurisdizione costituzionale nazionale insistono anche A. Bogdandy – D. Paris, La forza si manifesta pienamente nella debolezza. Una comparazione tra la Corte costituzionale e il Bundesverfassungsgericht, in Quad. costituzionali, 1, 2020, 9 ss.
[46] D. Sarmiento – J.H.H. Weiler, The EU Judiciary After Weiss-Proposing a New Mixed Chamber of the Court of Justice: A Position Paper, in Int’l J. Const. L. Blog, 2 giugno 2020.