Il bilanciamento tra libertà di espressione degli avvocati e tutela dell’autorità del potere giudiziario: un inquadramento sistematico degli interessi nella prospettiva della Corte europea dei diritti dell’uomo  

Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 ottobre 2019, ric. 24845/13 e 49103/15, L.P. e Carvalho c. Portogallo

La condanna al risarcimento del danno per diffamazione disposta nei confronti di un avvocato per aver criticato, nell’ambito del mandato difensivo attribuitogli, l’operato di un giudice, costituisce una violazione del diritto alla libertà di espressione garantito dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Alla luce del particolare status soggettivo attribuito agli avvocati, le sentenze di condanna dei giudici nazionali rappresentano un’ingerenza sproporzionata e non necessaria nell’esercizio della libertà di espressione dei professionisti e non corrispondono ad alcun bisogno sociale imperativo. Inoltre, le sanzioni illegittimamente applicate dalle autorità nazionali rischiano di produrre un effetto deterrente sull’intera professione legale, considerando, in particolare, che le dichiarazioni contestate agli avvocati si inserivano nell’alveo della difesa degli interessi degli assistiti.

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Le vicende all’origine della sentenza. – 2.1. Il caso L.P. – 2.2. La vicenda Carvalho. – 3. La limitazione della libertà di espressione e la tutela dell’autorità del potere giudiziario. – 4. La valutazione dello status soggettivo dei ricorrenti: tra orientamenti della Corte europea e standard internazionali. – 5. Osservazioni conclusive.

 

  1. Premessa

Il perimetro di operatività del diritto alla libertà di espressione degli avvocati nei confronti dell’operato delle corti è stato ulteriormente delineato da un’importante pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo con la quale, come vedremo, non solo è stato valorizzato il ruolo dell’avvocato nella fondamentale realizzazione del diritto di difesa di ogni individuo, ma anche la sua funzione nell’attuazione dell’interesse della collettività nella buona amministrazione della giustizia. La sentenza, resa dalla terza sezione della Corte per i casi L.P. e Carvalho c. Portogallo (ricc. 22845/13 e 49103/15) e depositata l’8 ottobre 2019, costituisce, così, da una parte, l’ennesimo passo del percorso con il quale i giudici di Strasburgo hanno proceduto al bilanciamento degli interessi, apparentemente contrapposti, di avvocati e giudici, e, d’altra parte, un significativo apprezzamento del ruolo dei legali nel buon funzionamento del sistema giudiziario, che si inserisce in un dibattito di assoluta attualità, con potenziali sviluppi anche sul piano nazionale, circa l’introduzione di previsioni aggiuntive sulla funzione degli avvocati nella Costituzione[1].

Nonostante i magistrati godano di una posizione particolarmente tutelata – assicurata loro dall’art. 10, par. 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo[2] (di seguito, Convenzione o CEDU) sia in termini di garanzia dell’autorità e dell’imparzialità del potere giudiziario, sia come protezione della reputazione -, agli avvocati deve essere accordata la possibilità di criticare l’operato delle corti, soprattutto qualora tale attività risulti funzionale all’espletamento del mandato difensivo. Una diversa impostazione, a parere della Corte, potrebbe condurre i professionisti a rifiutare gli incarichi più scomodi e, conseguentemente, ad una palese violazione del diritto alla difesa, garantito, per ogni grado e stato del giudizio, dall’art. 6 CEDU[3].

Invero, il citato art. 10 CEDU, se, da una parte, assicura il diritto alla libertà di espressione, senza che lo stesso subisca ingerenze delle autorità pubbliche, d’altra parte, sottopone tale diritto, proprio in virtù dei doveri e delle responsabilità derivanti dall’esercizio dello stesso, a talune restrizioni, tutelando, così, altri valori ritenuti fondamentali. Nello specifico, la libertà di espressione, in quanto elemento funzionale alla garanzia di altri diritti e principi essenziali in una società democratica e pluralista, deve essere limitata qualora l’esercizio abusivo della stessa rischi di compromettere proprio quei diritti[4], con specifico riferimento, per ciò che concerne la presente analisi, alla tutela della reputazione e dell’autorità del potere giudiziario.

Le citate limitazioni alla libertà di espressione[5] hanno carattere eccezionale alla luce dell’importanza del diritto in parola, il quale, come detto, appare strumentale alla realizzazione di altre libertà, che, nel loro insieme, costituiscono elementi essenziali di una società democratica. In particolare, dalla suddetta eccezionalità deriva la necessità di applicare dei criteri ermeneutici restrittivi, in ossequio al principio exceptiones sunt strictissimae interpretationis[6], così come ripetutamente sostenuto dalla Corte[7], la quale, invero, ha costantemente offerto una lettura ampia e liberale dell’ambito di applicazione del diritto garantito dall’art. 10[8].

In questa prospettiva, pertanto, vanno inquadrati gli obblighi gravanti sugli Stati, cui spetta garantire l’effettività dell’ambito applicativo riconducibile alla libertà di espressione. Se, per un verso, agli Stati viene imposto, infatti, un dovere di astensione da ogni ingerenza con l’esercizio del diritto in parola, per altro verso, in determinate circostanze risulta opportuno che gli stessi pongano in essere misure positive nei confronti degli individui, affinché questi ultimi possano concretamente godere della tutela loro accordata dalla Convenzione. Nel determinare un ambiente favorevole alla partecipazione pluralista di tutti i cittadini alla vita della società attraverso l’esercizio del diritto alla libertà di espressione, gli Stati devono contemperare l’interesse generale con quello individuale, considerando, in particolare, le peculiarità delle differenti situazioni e degli status soggettivi.

A tal proposito, e per ciò che concerne specificatamente la presente analisi, la Corte ha avuto occasione di evidenziare come, nonostante l’ampio riconoscimento offerto dalla Convenzione alla libertà di espressione, alcune categorie individuali possono essere oggetto di restrizioni in termini soggettivi, o, al contrario, di un’estensione della portata della tutela di detta libertà, proprio in virtù del ruolo sociale svolto.

È il caso, rispettivamente, di magistrati ed avvocati. Infatti, se, da un lato, la salvaguardia di una buona amministrazione della giustizia conduce ad ampliare i limiti alla libertà di espressione nei confronti dei giudici, dall’altro lato, la funzione svolta dagli avvocati, intermediari tra società e corti, non può non comportare una più intensa protezione degli stessi, qualora, nell’espletamento diretto o indiretto del mandato difensivo, muovano delle critiche nei confronti dell’operato della magistratura.

 

  1. Le vicende all’origine della sentenza

Preliminarmente all’analisi dei limiti all’esercizio della libertà di espressione e del conseguente complesso bilanciamento tra tutela dell’autorità giudiziaria e libertà di critica dell’operato delle corti da parte degli avvocati, appare opportuno ricostruire, seppure brevemente, le vicende che hanno condotto alla pronuncia in esame. I due casi, trattati congiuntamente per via delle analogie tra i ricorsi, si iscrivono in un percorso giurisprudenziale ventennale con cui la Corte ha rafforzato la tutela offerta agli avvocati, alla luce del particolare ruolo svolto dagli stessi – funzionale tanto al buon andamento dell’amministrazione della giustizia, quanto all’esercizio del diritto di difesa –, e limitato, di conseguenza, il potere d’ingerenza degli Stati[9].

 

2.1. Il caso L.P

La prima vicenda affrontata dalla Corte ha avuto ad oggetto il ricorso presentato da un avvocato portoghese che aveva promosso un reclamo nei confronti di un giudice davanti al Conselho Superior da Magistratura. Alla luce di alcuni comportamenti adottati dal magistrato nel corso di un’udienza preliminare, il professionista aveva lamentato delle irregolarità procedimentali. In particolare, l’avvocato aveva contestato l’eccessivo ritardo per la fissazione dell’udienza, la sommaria analisi della documentazione e delle dichiarazioni delle parti, affermando, inoltre, di aver notato un clima di “grande intimità” tra il giudice ed il difensore di controparte. Il reclamo era stato respinto dal Consiglio Superiore della Magistratura portoghese a seguito delle spiegazioni fornite dal giudice, il quale, negando ogni irregolarità, aveva sostenuto che le accuse formulate dall’avvocato non fossero supportate da alcun riscontro probatorio. Quindi, il magistrato aveva citato l’avvocato per diffamazione, asserendo che la faziosità ingiustamente addebitatagli avesse leso la sua reputazione. L’avvocato, in propria difesa, aveva sottolineato come il reclamo al CSM fosse stato avanzato in una procedura non pubblica e nell’ambito del suo mandato di legale, affermando, inoltre, che il clima di intimità fosse riconducibile a varie circostanze, tra cui il fatto che il suo cliente non fosse stato sentito nell’ufficio del giudice, al contrario di quanto accaduto per l’assistito dell’avvocato avversario.

Il Tribunale di Lisbona aveva dichiarato l’avvocato colpevole di diffamazione aggravata, condannandolo al pagamento di Euro 300,00, a titolo di multa, ed alla corresponsione di Euro 750,00 come risarcimento del danno in favore del magistrato. La pronuncia di condanna aveva evidenziato come le accuse relative al clima di intimità costituissero valutazioni prive di basi fattuali e, in quanto tali, idonee a ledere l’imparzialità del giudice ed il suo onore professionale. La sentenza era stata parzialmente – e in peius per l’avvocato – riformata dalla Corte d’appello di Lisbona, che aveva condannato il ricorrente al pagamento del maggiore importo richiesto dal giudice, di Euro 5.000,00, ritenendo le accuse offensive e gravi, e, conseguentemente, oltre l’ambito delle critiche ammissibili, nonostante lo status di difensore di parte.

Infine, la Suprema Corte portoghese, adita in considerazione dell’asserita contraddittorietà della sentenza della Corte d’appello di Lisbona con altro precedente giurisprudenziale, aveva respinto il ricorso, sostenendo che il caso invocato dal ricorrente non potesse essere applicato per via delle circostanze fattuali differenti.

La vicenda, così, è stata sottoposta al vaglio della Corte europea che, come si avrà modo di osservare, ha valutato la condanna nei confronti del ricorrente in contrasto con l’art. 10 della Convenzione.

 

2.2. La vicenda Carvalho

Il secondo ricorso esaminato dalla Corte è stato proposto da un avvocato portoghese, condannato al risarcimento del danno nei confronti di un giudice, per aver leso la reputazione di quest’ultimo. Il legale era costituito quale difensore di due persone di origine gitana, giudicate colpevoli dal Tribunale di Felgueiras dei reati di ingiurie, resistenza a pubblico ufficiale e violenza nei confronti delle forze dell’ordine. Nel formulare la citata sentenza, il giudice aveva tuttavia utilizzato espressioni dure e inappropriate nei confronti degli imputati e, più in generale, della loro comunità. Invero, nella pronuncia del Tribunale, i gitani erano stati qualificati quali folla “ululante”, “clienti del posto” delle forze dell’ordine, gruppo etnico dalla scarsa igiene e, infine, come bugiardi e dipendenti dai sussidi statali. Il magistrato giudicante, inoltre, aveva ritenuto non veritiere le versioni presentate dagli accusati, in quanto parti della commedia “della persecuzione e della vittimizzazione dei poveri zingari”.

La suddetta pronuncia, proprio in virtù delle motivazioni adottate dal giudice, era stata ampiamente riportata e criticata dalla stampa e dai media. L’avvocato, inoltre, aveva rilasciato un’intervista radiofonica nella quale definiva inappropriate le espressioni utilizzate. Successivamente, allo stesso difensore erano state attribuite alcune dichiarazioni relative alla sentenza della Corte d’appello di Porto – che aveva annullato parzialmente la prima decisione -, con le quali aveva ritenuto che le espressioni utilizzate dal giudice di primo grado fossero razziste e xenofobe.

Alla luce del tenore della citata sentenza, l’avvocato, sempre rappresentando i due individui di origine gitana, aveva presentato, da una parte, una denuncia penale per diffamazione e discriminazione razziale e, d’altra parte, una richiesta di risarcimento del danno in sede civile, ambedue nei confronti del giudice. Entrambe le richieste, tuttavia, erano state respinte poiché, nonostante la sentenza contenesse espressioni eccessive e superflue, le stesse non potevano essere considerate attacchi personali, finalizzati a danneggiare l’onore e la reputazione degli imputati.

Il giudice, a seguito di dette azioni, aveva dunque promosso un’azione di responsabilità civile nei confronti dell’avvocato dinanzi al Tribunale di Felgueiras, sostenendo che l’utilizzo da parte dello stesso di alcuni estratti della sentenza e le richieste in sede civile e penale avanzate nei suoi confronti avessero comportato un danno alla sua reputazione. Il Tribunale adito aveva accolto la suddetta richiesta di risarcimento, soffermandosi, in particolare, sulle azioni legali promosse dall’avvocato nell’interesse dei clienti. Invero, i ricorsi per diffamazione erano stati ritenuti inadeguati ed incoerenti poiché inquadrati come comportamenti ultronei rispetto alla critica per il linguaggio utilizzato, presupponendo dei giudizi di valore del giudice nei confronti degli imputati gitani. Il Tribunale aveva sostenuto che, nonostante le eccessive formulazioni contenute nella sentenza, non vi fosse alcuna ragione per ritenere che il magistrato avesse voluto esprimere un’opinione personale finalizzata ad offendere l’onore e la reputazione degli imputati. Tale conclusione era stata peraltro avallata, nella prospettiva del Tribunale, proprio dallo status dell’avvocato che, in quanto tale, avrebbe dovuto dare una lettura più oggettiva delle circostanze fattuali. Al contrario, accettando il patrocinio di azioni legali illegittime, il professionista aveva causato, con grave negligenza, un danno alla reputazione del giudice.

Il Tribunale aveva condannato l’avvocato al pagamento di Euro 16.000,00, a titolo di risarcimento del danno morale subito dal giudice[10].

La sentenza era stata poi appellata dinanzi alla Corte d’appello di Porto, la quale, pur sottolineando l’importanza delle immunità di cui godono gli avvocati nell’esercizio del loro mandato, ai sensi dell’art. 208 della Costituzione[11], aveva riformato solo parzialmente la decisione di primo grado, riducendo la condanna ad Euro 10.000,00. La Corte aveva ritenuto gravante, in capo all’avvocato, l’obbligo di rifiutare mandati finalizzati a scopi illeciti o comunque non professionali. Con le due azioni contestate, al contrario, il difensore aveva posto in essere condotte non giustificate dalla funzione sociale e pubblica della professione ed esorbitanti rispetto ai parametri, giuridici e deontologici, che egli stesso avrebbe dovuto rispettare nell’ambito della difesa degli interessi degli assistiti.

Infine, dopo una pronuncia di irricevibilità adottata dalla Corte Costituzionale portoghese, la vicenda è stata sottoposta all’analisi dei giudici di Strasburgo, i quali, come anticipato, hanno ritenuto opportuno esaminare congiuntamente i due ricorsi citati.

 

  1. La limitazione della libertà di espressione e la tutela dell’autorità del potere giudiziario

Ricostruite le vicende, passiamo a verificare i criteri individuati dalla Corte europea applicabili per rispettare le norme convenzionali e raggiungere un giusto bilanciamento tra i diritti in gioco, ossia libertà di espressione e garanzia dell’autorità e dell’imparzialità dei giudici. Come anticipato, l’art. 10 della Convenzione non stabilisce un diritto assoluto, bensì contempla ipotesi in cui l’esercizio della libertà di espressione, nelle varie declinazioni possibili, risulti in contrasto con altri diritti, riconosciuti dalla stessa Convenzione quali parimenti strumentali allo sviluppo dell’individuo e della società, prevedendo così delle limitazioni.

In questa prospettiva, risulta semplice comprendere le ragioni dell’intensa tutela accordata all’autorità del potere giudiziario, trattata, soventemente, anche in termini di pregiudizio all’altrui reputazione[12]. Ed, invero, dalla mera definizione dell’estensione del concetto di autorità del potere giudiziario offerta dalla Corte, quest’ultima ha riscontrato la necessità di ampliare il perimetro applicativo della limitazione in parola. In particolare, i giudici di Strasburgo hanno affermato che il potere giudiziario «comprises the machinery of justice or the judicial branch of government as well as the judges in their official capacity» e l’autorità dello stesso «includes, in particular, the notion that the courts are, and are accepted by the public at large as being, the proper forum for the ascertainment of legal rights and obligations and the settlement of disputes»[13]. Partendo dalla suddetta qualificazione, la Corte ha riscontrato la necessità che la collettività nutra rispetto e fiducia nei confronti della magistratura e della capacità della stessa di adempiere la fondamentale funzione affidatale.

Tale impostazione, riflettendo la comune visione degli Stati membri di garanzia dell’autorità e dell’imparzialità del potere giudiziario, è stata seguita dalla Corte, che ha inglobato la concezione anglosassone di contempt of court[14]. Questa teoria, in sintesi, è finalizzata a prevenire ogni forma di interferenza con l’amministrazione della giustizia, evitando, nello specifico, gli oltraggi alla corte[15]. L’ambito di operatività di detti principi può pertanto arrivare a ricomprendere l’ottemperanza alle statuizioni emesse dai giudici, la reputazione dell’intero sistema giudiziario e la fiducia delle parti nell’istituzione che amministra la giustizia. Quest’ultimo aspetto, a ben vedere, risulta la vera ragione dell’estensione dei limiti alla libertà di espressione prevista dalla Convenzione. Invero, la necessità che la collettività conservi fiducia nella buona amministrazione della giustizia e, conseguentemente, riconosca l’autorità del potere giudiziario e delle decisioni dallo stesso adottate, costituisce un pilastro portante di ogni Stato di diritto, nel quale, per l’appunto, le controversie vengono rimesse ad organi imparziali e indipendenti, le cui pronunce regolano i rapporti tra privati, nonché tra cittadini e Stato.

Sulla scorta di tali premesse, a partire dalla sentenza del caso Sunday Times, la Corte è intervenuta in molteplici occasioni per delineare i confini delle critiche permesse, in quanto funzionali al controllo dell’operato dei giudici e allo sviluppo di dibattiti di pubblico interesse, individuando, allo stesso tempo, i criteri per ritenere legittime le ingerenze statali all’esercizio della libertà di espressione. In questa direzione si inquadra l’orientamento seguito dai giudici di Strasburgo sin dalla risalente sentenza nel caso Barfod c. Danimarca[16], con cui la Corte ha ritenuto legittima la condanna di un giornalista al pagamento di un’ammenda, per aver sostenuto, senza un sufficiente fondamento probatorio, che i giudici si fossero mostrati di parte durante il giudizio. Invero, in quella vicenda, la critica verso l’operato dei magistrati era stata qualificata quale «defamatory accusation against the lay judges personally, which was likely to lower them in the public esteem and put forward without any supporting evidence»[17] e, conseguentemente, lo Stato aveva legittimamente posto in essere delle misure, necessarie in una società democratica, per tutelare la reputazione dei magistrati e l’imparzialità dell’intero sistema giudiziario. Allo stesso modo, ogni qual volta le critiche mosse nei confronti dei giudici sono risultate prive di una base fattuale e non rilevanti ai fini del pubblico dibattito, la Corte non ha riscontrato alcuna violazione dell’art. 10 della Convenzione. Tale conclusione è stata sostenuta in casi in cui le espressioni utilizzate nei confronti dei giudici travalicavano il perimetro della critica, diventando eccessive o, addirittura, offensive. Nella vicenda Prager e Oberschlick c. Austria[18], ad esempio, alcuni giornalisti avevano definito un giudice “arrogant” e “bullying” nello svolgimento della sua funzione, sostenendo, inoltre, che avesse trattato gli imputati come fossero già condannati sin dall’inizio del giudizio. La Corte, anche in questo caso[19], ha ritenuto che le restrizioni imposte dalle autorità austriache rispondessero ad un bisogno sociale impellente, ovverosia quello di proteggere il giudice –  che, «as the guarantor of justice, a fundamental value in a law-governed State», deve poter vantare della fiducia della società – da «destructive attacks that are essentially unfounded» anche in considerazione del dovere di imparzialità che impedisce ai membri della magistratura di replicare liberamente alle accuse mosse nei loro confronti.

Alla luce di quanto osservato, l’ampiezza della limitazione posta a protezione dell’autorità e dell’imparzialità del potere giudiziario risulta particolarmente estesa, tanto da apparire, ad una prima analisi, quasi in contrasto con il principio di stretta interpretazione delle restrizioni alla libertà di espressione[20]. A ben vedere, tuttavia, la Corte, a nostro avviso, ha operato un corretto bilanciamento degli interessi, applicando criteri che, allo stato, appaiono sempre più definiti, soprattutto in ragione dello status soggettivo degli individui coinvolti e della corrispondenza delle critiche mosse nei confronti dei giudici a fini parimenti tutelati dalla Convenzione[21]. A tal proposito, occorre sottolineare come qualora le osservazioni mosse nei confronti del sistema giudiziario, per quanto aspre, siano mirate a sviluppare un dibattito critico relativamente al funzionamento dello stesso, senza ridursi in attacchi distruttivi, devono ritenersi ricomprese nella tutela offerta dall’art. 10 della Convenzione. In questo senso, infatti, si è espressa la Corte nel caso Kobenter e Standard Verlags GmbH c. Austria[22], nel quale era stata ravvisata una violazione dell’art. 10, dovuta alla sanzione inflitta ad un giornalista ed alla società editoriale per aver criticato, seppure duramente, un giudice che aveva utilizzato in una sentenza espressioni offensive nei confronti degli omosessuali. In particolare, stante il dibattito sviluppatosi inerentemente alla questione, non era stato riscontrato alcun bisogno sociale imperativo per porre limitazioni alla libertà di stampa dei ricorrenti. Allo stesso modo, la Corte ha riconosciuto la violazione del diritto alla libertà di espressione nel caso Katrami c. Grecia[23] alla luce di una condanna di un giornalista per aver evidenziato errori procedurali commessi da un magistrato durante un processo[24].

Dunque, se, da un lato, può ritenersi necessario offrire una più ampia tutela alla magistratura in casi di attacchi infondati e potenzialmente capaci di minare la fiducia della società nel sistema giudiziario, dall’altro lato, la suddetta tutela non può condurre ad un sostanziale divieto in capo ai singoli di esprimere la propria opinione, sempre attraverso giudizi di valore non offensivi o dichiarazioni con una sufficiente base fattuale, su questioni di interesse pubblico relative al funzionamento del sistema giudiziario. Al contrario, la libertà di critica nei confronti dell’operato delle corti, proprio in considerazione della percezione comune di quest’ultimo come espressione di una valutazione obiettiva che impegna non solo il singolo giudice ma anche l’intero sistema, può, e deve, essere ritenuta un elemento essenziale ai fini del buon funzionamento e della buona amministrazione della giustizia. Tale assunto risulta vieppiù fondato qualora le espressioni critiche, oltre che rientrare in un dibattito di pubblico interesse ed essere sostenute da basi fattuali, vengano mosse da altri membri dell’apparato giudiziario, ovverosia gli avvocati che, tra l’altro, in quanto esperti del sistema giustizia, possono contribuire con le proprie osservazioni ad “accendere i riflettori” su disfunzioni dello stesso, a vantaggio dell’intera collettività.

 

  1. La valutazione dello status soggettivo dei ricorrenti: tra orientamenti della Corte europea e standard internazionali

La conclusione raggiunta appare confermata dal fatto che, nella sentenza in commento, la valutazione circa la necessità dell’ingerenza in una società democratica ha avuto ad oggetto, per l’appunto, lo status dei ricorrenti e la funzione svolta dagli stessi[25]. In particolare, la Corte, dopo aver constatato la sussistenza di un’ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione[26] ed aver accertato la presenza di un fondamento normativo di detta restrizione[27], ha valutato se quest’ultima perseguisse un obiettivo legittimo, ai sensi dell’art. 10, e risultasse, dunque, una misura necessaria in una società democratica. Nel prendere queste determinazioni, i giudici di Strasburgo hanno sostenuto che, in entrambi i casi, i ricorrenti avevano agito nell’esercizio del mandato attribuitogli e, pertanto, in difesa degli interessi dei loro clienti. La Corte, inoltre, ha anche valutato la natura delle espressioni contestate, distinguendo, come di consueto, le dichiarazioni di fatto dai giudizi di valore[28].

A tal riguardo, nel primo caso, è stato ritenuto che la lettera di contestazione inviata al CSM andasse qualificata come dichiarazione di fatto, in quanto finalizzata a mettere in luce gli errori procedimentali commessi dal Tribunale di Gouveia. In aggiunta, relativamente alle affermazioni con cui l’avvocato aveva sostenuto l’esistenza di un “clima di intimità” tra magistrato e controparte, ritenute giudizi di valore dalle autorità nazionali, i giudici di Strasburgo hanno rilevato che l’art. 127 del codice di procedura civile portoghese prevede espressamente dette parole quale motivo di impugnazione delle sentenze, rendendole, pertanto, «critiques que tout juge peut s’attendre à recevoir dans l’exercice de ses fonctions»[29], con esclusione della possibilità che le stesse fossero atte ad offendere l’onore e la reputazione del giudicante. La Corte, in questo caso, ha valutato ammissibile la critica mossa dall’avvocato in considerazione della normale dialettica tra difensori e giudicanti, considerando, inoltre, che l’asserito danno alla reputazione del magistrato appariva comunque di lieve entità, alla luce della natura riservata del procedimento avviato dal professionista dinanzi al CSM.

Per la seconda vicenda, la Corte ha sottolineato come, con la presentazione di un’azione per diffamazione nei confronti del giudice, sia in sede civile sia in sede penale, l’avvocato si fosse limitato a difendere gli interessi dei suoi clienti. Le autorità nazionali, dunque, avevano illegittimamente censurato il solo fatto che il difensore avesse accettato il mandato, ritenendo tale comportamento contrario ai doveri etici imposti dal codice forense. Per giunta, è stato osservato che le accuse mosse dall’avvocato erano fondate su basi fattuali riscontrate dalle stesse corti portoghesi, le quali, difatti, avevano evidenziato come le espressioni utilizzate nei confronti degli imputati gitani risultassero eccessive e superficiali. Circostanza, quest’ultima, che aveva determinato un’elevata copertura mediatica della vicenda, rendendola parte di un dibattito di interesse pubblico sul funzionamento della giustizia.

Infine, i giudici di Strasburgo hanno altresì affrontato l’esame della natura delle sanzioni inflitte ai ricorrenti, identificandolo quale ulteriore parametro per la valutazione della proporzionalità dell’ingerenza delle autorità statali. Nel caso di specie, le severe misure adottate dai giudici portoghesi, ovverosia la condanna al risarcimento di ingenti importi e la sanzione penale inflitta ad uno dei due avvocati, sono state ritenute sproporzionate e potenzialmente idonee a produrre un effetto inibente sull’intera professione forense, con un evidente pericolo di minorazione della difesa degli interessi degli assistiti[30].

La stretta connessione tra libertà di espressione ed esercizio del mandato difensivo, presente nei casi analizzati, ha dunque consentito alla Corte di ribadire che, nell’ambito delle loro funzioni e nel rispetto di principi etici e comportamentali, il perimetro di applicabilità della libertà di critica degli avvocati nei confronti dell’operato delle corti è soggetto ad una notevole estensione, con conseguente detrimento della limitazione posta a tutela dell’autorità del potere giudiziario.

Tale conclusione, come anticipato, appare in linea con il consolidato orientamento della Corte europea sul tema oggetto della presente analisi. Ed, invero, sin dalla sentenza Casado Coca c. Spagna[31] i giudici di Strasburgo hanno evidenziato che l’avvocato «en sa qualité d’auxiliaire de la justice, il bénéficie du monopole et de l’immunité de plaidoirie, doit témoigner de discrétion, d’ honnêteté et de dignité dans sa conduite». Alla luce del rapporto di stretta strumentalità tra la libertà di espressione degli avvocati e l’esercizio effettivo del diritto di difesa, la Corte, invertendo l’approccio analizzato in precedenza nell’ambito del bilanciamento dei suddetti interessi coinvolti, ha accordato una maggiore tutela ai professionisti, specialmente in favore di dichiarazioni prodotte nell’interesse diretto dei propri assistiti[32]. In particolare, al riconoscimento in favore degli avvocati del ruolo di «intermediaries between public and courts»[33] è conseguita l’attribuzione, in capo agli stessi, di una responsabilità di protezione dell’integrità del sistema giudiziario e del buon funzionamento dello stesso. A tal proposito, giova rilevare che, in un primo momento, la tutela offerta alla libertà di espressione dei difensori era stata ancorata al contesto in cui gli stessi rendevano le dichiarazioni contestate, con un’estensione della protezione per le arringhe pronunciate nelle aule giudiziarie e una restrizione della stessa per osservazioni compiute in contesti diversi[34]. Tuttavia, lo sviluppo di nuovi canali di comunicazione e la conseguente evoluzione della stessa professione forense, dovuta, tra gli altri fattori, ad un sempre maggiore interessamento della collettività alla gestione di importanti vicende giudiziarie, ha comportato un superamento del citato approccio interpretativo ed applicativo dell’art. 10 della Convenzione[35]. In particolare, pur permanendo una distinzione nel trattamento delle dichiarazioni rese fuori o dentro le aule di giustizia, tale dicotomia, nella più recente giurisprudenza della Corte, è stata utilizzata quale parametro meramente suppletivo ed aggiuntivo, e non più, come accaduto in precedenza, quale elemento fondante la ragione della tutela[36].

Tale impostazione è stata adottata nel caso Morice c. Francia[37], in cui la Grande Camera ha ravvisato una violazione della libertà di espressione di un avvocato, condannato per diffamazione per aver sostenuto che determinate condotte dei giudici erano risultate «completely at odds with the principles of impartiality and fairness»[38]. Il professionista aveva mosso le suddette critiche attraverso una lettera indirizzata al Ministro della Giustizia, i cui estratti erano stati successivamente ripresi dal noto quotidiano Le Monde, alla luce della rilevanza pubblica della questione oggetto del processo. La Corte, da una parte, ha avuto modo di chiarire che la tutela accordata agli avvocati deve necessariamente essere correlata all’indipendenza della professione legale, considerata un elemento «crucial for the effective functioning of the fair administration of justice» e, d’altra parte, ha identificato i limiti con i quali i difensori devono adempiere alla suddetta funzione, citando, in particolare, la dignità, l’onore, l’integrità e l’impegno per il buon funzionamento della giustizia[39]. E, a ben vedere, i citati principi di condotta impongono agli avvocati il dovere di «defend their clients’ interests zealously», motivo per il quale la loro libertà di espressione non può che essere funzionale all’effettivo e concreto esercizio del diritto di difesa[40].

Nella sentenza L.P. e Carvalho c. Portogallo, la Corte, però, a nostro avviso, compie un passo decisivo nel rafforzare il diritto alla libertà di espressione degli avvocati. Il diritto di critica all’operato delle corti, seppur soggetto a precise limitazioni – quale, per l’appunto, il fatto che la critica sia mossa in ottica costruttiva, sia per la difesa del cliente, sia per l’intero apparato giudiziario[41]– ha così trovato un’estensione applicativa di ampia portata.

Giova rilevare che la tutela accordata dalla Corte alla libertà di espressione degli avvocati con la citata pronuncia rispecchia, in maniera più che organica, i principi di condotta sanciti, sia sul piano internazionale sia su quello europeo, per stabilire il ruolo degli avvocati nella società. E, invero, i Basic Principles on the Role of Lawyers[42], adottati nel 1990 nell’ambito dell’ottavo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e sul trattamento dei trasgressori, offrono una tutela a più livelli alla libertà di espressione degli avvocati – definiti «as essential agents of the administration of justice»[43] – declinandola, per l’appunto, in ragione dalla strumentalità della stessa alla salvaguardia di altri valori. Per un verso, difatti, l’art. 20 dei Principles dispone che «Lawyers shall enjoy civil and penal immunity for relevant statements made in good faith in written or oral pleadings or in their professional appearances before a court, tribunal or other legal or administrative authority», ponendo, dunque, la libertà in parola in connessione con l’esercizio del diritto di difesa. Per altro verso, il combinato disposto degli artt. 16 e 23 dei principi in esame tutela esplicitamente l’esercizio della libertà di espressione degli avvocati in rapporto al diritto degli stessi di partecipare a «public discussion of matters concerning the law, the administration of justice and the promotion and protection of human rights», prevedendo, a tal fine, che «Governments shall ensure that lawyers are able to perform all of their professional functions without intimidation, hindrance, harassment or improper interference».

Allo stesso modo, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con l’adozione della Raccomandazione n. 21 del 2000 sulla libertà di esercizio della professione forense[44], ha espressamente previsto che gli avvocati godano di ampia libertà di espressione, specialmente con riferimento al loro diritto/dovere di contribuire al buon funzionamento del sistema giudiziario. A tal fine, l’art. 1 della citata Raccomandazione invita gli Stati all’adozione di ogni misura necessaria per proteggere e promuovere la libertà di esercitare la professione «without discrimination and without improper interference from the authorities or the public».

L’evidente parallelismo tra le menzionate disposizioni internazionali ed i principi enunciati a più riprese dalla Corte, oltre a confermare l’evoluzione dei membri della professione forense da ausiliari a protagonisti del sistema giudiziario[45], introduce un ulteriore elemento, ossia che le azioni legali nei confronti degli avvocati possono avere un chilling effect non solo sulla libertà di espressione degli stessi, ma anche – aspetto ben più grave nella prospettiva della Corte – sul concreto esercizio del diritto alla difesa, con serie ricadute sul buon funzionamento del sistema giudiziario.

 

  1. Osservazioni conclusive

Alla luce della disamina svolta, la sentenza analizzata costituisce, a nostro avviso, un fondamentale intervento per riportare l’esercizio del diritto di critica al sistema giudiziario nei binari della prevedibilità e della certezza giuridica, considerandolo, per di più, centrale nell’interesse della buona amministrazione della giustizia. L’ampliamento della tutela offerta alla libertà di espressione degli avvocati, nell’espletamento del mandato conferitogli, restituisce il loro ruolo professionale ad una duplice funzione strettamente connessa ad altri principi enunciati dalla Convenzione. Se, da una parte, il difensore è portatore degli interessi individuali del cliente, tutelati dall’art. 6 della Convenzione, d’altra parte, lo stesso diviene un rappresentante dell’interesse pubblico qualora, con il proprio operato, contribuisca al corretto funzionamento del sistema giudiziario, anche attraverso critiche costruttive nei confronti di quest’ultimo che, come osservato, trovano sistematica tutela nell’alveo dell’art. 10.

In virtù della più alta funzione pubblica svolta dagli avvocati – che, oltre ad essere intermediari tra le corti e la società, assolvono anche un ruolo fondamentale nell’amministrazione della giustizia -, questi ultimi sono sostanzialmente posti sullo stesso piano dei magistrati, con la conseguenza che, per una sorta di principio dei vasi comunicanti[46], abbassare il livello di tutela di una delle due categorie, comporta un detrimento della protezione anche dell’altra.

In questa prospettiva, pertanto, il riferimento ai doveri ed alle responsabilità di cui all’art. 10, par. 2, della Convenzione trova riscontro nelle limitazioni poste a tutela tanto della libertà di espressione, quanto dell’autorità del potere giudiziario. Il bilanciamento compiuto dalla Corte, in altri termini, può, a nostro avviso, essere letto come inquadramento sistematico dei diritti/doveri solo apparentemente contrapposti di avvocati e magistrati, l’esercizio dei quali, nella prospettiva della fisiologica complementarità, garantisce la dialettica collaborativa tra gli stessi e costituisce un pilastro fondamentale dello Stato di diritto.

Conseguentemente, e volendo individuare il precipitato di tale conclusione sul piano nazionale, il percorso compiuto della giurisprudenza di Strasburgo potrebbe offrire un fondamentale contributo all’implementazione del ruolo dell’avvocatura nell’ambito della Costituzione italiana. A ben vedere, infatti, la funzione svolta dai professionisti forensi risulta essenziale per la concreta applicazione delle previsioni costituzionali degli artt. 24 e 111, che, da un lato, tutelano il diritto alla difesa e, dall’altro lato, scolpiscono le garanzie del giusto processo e del contraddittorio. La Costituzione, così, seppure implicitamente, stabilisce un modello di giurisdizione che prevede due principali soggetti: gli avvocati e i giudici[47]. Ad una magistratura indipendente ed autonoma, libera da pressioni e ingerenze di qualsiasi altro potere, corrisponde l’individuazione di un soggetto la cui funzione è posta a controllo, equilibrio e garanzia di questo potere, ovverosia l’avvocato che, pertanto, deve anch’esso poter esercitare la professione in autonomia e indipendenza e, soprattutto, nel rispetto del principio di complementarietà di cui si è detto.

In questa direzione, la fiducia nella giustizia ed il buon funzionamento della giurisdizione, a fondamento del patto sociale senza il quale lo Stato perde la sua legittimazione, trovano, anche nella prospettiva della Corte europea, un efficace strumento attuativo nella libertà di espressione degli avvocati.

 

 

[1] A tal proposito, si vedano le recenti iniziative per la “costituzionalizzazione” dell’avvocatura. Specificatamente, la proposta di legge costituzionale A.C. 1719, depositata alla Camera il 29 marzo 2019, recante “Introduzione degli articoli 110-bis e 110-ter della Costituzione, in materia di autonomia e di esercizio della professione di avvocato, e modifica all’articolo 135, in materia di composizione della Corte costituzionale”, e la proposta di legge costituzionale A.S. 1199, depositata in Senato il 4 aprile 2019, per la “Modifica dell’articolo 111 della Costituzione recante l’introduzione di princìpi inerenti la funzione e il ruolo dell’avvocato”. Le proposte legislative, entrambe attualmente assegnate alla I Commissione Affari Costituzionali in sede Referente, sono reperibili, rispettivamente, sui siti camera.it e senato.it.

[2] L’art. 10 della Convenzione stabilisce che «1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive. 2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario». Per un approfondito commento della citata disposizione si veda, per tutti, M. Oetheimer – A. Cardone, Articolo 10, in S. Bartole – P. De Sena – V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, 397 ss.

[3] Tale diritto, com’è noto, è ricompreso nella tutela dell’equo processo offerta dall’art. 6, par. 3, lett. c), della Convenzione, il quale, in particolare, prevede che «Ogni accusato ha diritto di difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia». A tal proposito, con la sentenza CEDU, Van Mechelen e altri c. Olanda, ricc. 21363/93, 21364/93, 21427/93 (1997), è stato precisato che «tenuto conto della posizione di preminenza che il diritto ad una buona amministrazione della giustizia ha in una società democratica, ogni misura restrittiva della difesa deve essere assolutamente necessaria». Per una raccolta delle pronunce dei giudici di Strasburgo in relazione all’art. 6 della Convenzione si veda M. De Salvia, Compendium della Cedu. Le linee guida della giurisprudenza relativa alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Napoli, 2000, 188 ss.

[4] Relativamente all’abuso della libertà di espressione di vedano M. Castellaneta, Il negazionismo tra abuso del diritto e limite alla libertà di espressione in una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 2019, 311 ss. e F. Falconi, Alcune considerazioni sull’abuso della libertà di espressione nella giurisprudenza di Strasburgo, in Studi sull’integrazione europea, 2020, 359 ss.

[5] La suddetta impostazione, a ben vedere, è altresì riscontrabile nella struttura dell’art. 19 del Patto sui diritti civili e politici, del 16 dicembre 1966 , il quale, ex par. 1, prevede il diritto alla libertà di espressione in capo ad ogni individuo e, contestualmente, al par. 3, dispone delle restrizioni – quali, ad esempio, il rispetto dei diritti e della reputazione altrui -stabilendo che le stesse debbano essere espressamente previste dalla legge, nonché necessarie. Il testo del Patto, in versione italiana, è disponibile in R. Luzzato – F. Pocar, Codice di diritto internazionale pubblico, Torino, 2016, 164 ss. Per un confronto del Patto con la Convenzione si veda J. Velu – R. Ergec, La Convention europénne des droits de l’homme, Bruxelles, 2014, 735 ss. Impostazione parzialmente differente caratterizza, invece, il combinato disposto degli artt. 19 e 29 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 9 dicembre 1948. Tale atto se, da una parte, riconosce il diritto alla libertà di opinione ed espressione senza porre limitazione alcuna (art. 19), d’altra parte, prevede delle restrizioni di carattere generale, costituite, per l’appunto, dalla garanzia dei diritti e delle libertà altrui, dalle esigenze della morale, dall’ordine pubblico e dal benessere generale. Per un confronto tra i tre atti citati, si veda U. Villani, Dalla Dichiarazione universale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Bari, 2015, 17 ss.

[6]  Sul punto si veda l’analisi di M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale ed europeo, Bari, 2012, 6, 15 ss. Sempre con riguardo al principio di interpretazione restrittiva delle limitazioni al diritto in esame P. Caretti, Art. 10. Libertà di espressione, in S. Bartole – B. Conforti – G. Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 341 ss.

[7] Si veda, ex multis, la sentenza CEDU, Handyside c. Regno Unito, ric. 5493/72 (1976), § 49, con la quale la Corte ha avuto modo di affermare che ogni condizione, limitazione o restrizione alla libertà di espressione deve essere proporzionata allo scopo legittimo perseguito dallo Stato.

[8] Una ricostruzione di tale lettura in M. Oetheimer, L’harmonisation de la liberté d’expression en Europe, Parigi, 2001, 60 ss.

[9] In assenza di una precisa qualificazione del concetto di ingerenze nell’ambito dell’art. 10 della Convenzione, la Corte ha fornito delle esemplificazioni alla luce delle finalità, del momento e delle conseguenze delle stesse. A tal proposito si veda B. Rainey – E. Wicks – C. Ovey, Jacobs, White, and Ovey: The European Convention on Human Rights, Oxford, 2017, 485 ss.

[10] L’art. 483 del codice civile portoghese, disposizione in virtù della quale è stata decisa la vicenda, disciplina la responsabilità aquiliana e, con una formulazione simile all’art. 2043 c.c., prevede che chiunque, con dolo o colpa, violi illecitamente i diritti altrui, o qualsiasi altra disposizione di legge volta a tutelare gli stessi, è tenuto a risarcire il danneggiato per il pregiudizio derivante da tale atto.

[11] In virtù della citata disposizione costituzionale «la legge concede agli avvocati le immunità necessarie per l’esercizio del loro mandato e ne regola l’esercizio come elemento essenziale nell’amministrazione della giustizia».

[12] In questo senso C. Focarelli, Trattato di diritto internazionale, Milano, 2015, 1068.

[13] Tale inquadramento è stato compiuto dalla Corte, nel caso CEDU, Sunday Times n°1 c. Regno Unito, ric. 6538/74, (1979), § 55,56, leading case della materia in esame, nel quale, tra l’altro, i giudici hanno evidenziato la necessità di valutare l’importanza dell’art. 6 che «consacra il principio fondamentale della preminenza del diritto». La citata pronuncia è analizzata in R. Sapienza, La libertà di espressione nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo: il caso Sunday Times, in Rivista di Diritto Internazionale, 1981, 43 ss. Sul punto si veda altresì la sentenza CEDU, Worm v. Austria, ric. 22714/93 (1997), § 40.

[14] Sul punto si veda M. Verpeaux, Freedom of expression, Strasburgo, 2010, 103 ss. A ben vedere, la volontà del Regno Unito di prevedere espressamente la tutela dell’autorità giudiziaria quale limitazione alla libertà di espressione, proprio in ossequio alla citata dottrina del contempt of court, è riscontrabile anche nei lavori preparatori alla Convenzione, disponibili sul sito echr.coe.int.

[15] La rilevanza della teoria in parola per gli ordinamenti di common law è constatabile, ad esempio, nell’adozione da parte del Regno Unito del Contempt of Court Act, del 1981. Tale atto normativo – emanato, tra le altre ragioni, anche come reazione dello Stato alla citata sentenza Sunday Times, n.1 – prevede una responsabilità in capo a chiunque ponga in essere condotte «which creates a substantial risk that the course of justice in the proceedings in question will be seriously impeded or prejudiced». Per un’analisi del concetto di contempt of court, ed in particolare dell’illecito qualificato come “scandalizing the court” si veda, ex multis, C.J. Miller – D. Perry, Miller on Contempt of Court, Oxford, 2018.

[16] CEDU, Barfod c. Danimarca, ric. 11508/85 (1989).

[17] Ivi, § 35.

[18] CEDU, Prager e Oberschlick c. Austria, ric. 15974/90 (1995). In questa pronuncia la Corte ha altresì ricordato che la stampa rappresenta uno dei principali mezzi di cui dispongono i responsabili politici e l’opinione pubblica per assicurare che i giudici si sottopongano alle loro alte responsabilità conformemente allo scopo della funzione che è loro affidata.

[19] Nel medesimo senso la Corte si è espressa nei casi CEDU, Perna c. Italia, ric. 48898/99 (2003), e Sgarbi c. Italia, ric. 37115/06 (2008), nei quali i ricorrenti avevano accusato i giudici di parzialità allo scopo di sostenere determinate fazioni politiche.

[20] Di questo avviso M.K. Addo, Article 10 of the ECHR and the Criticism of Judges, in M.K. Addo (ed.), Freedom of Expression and the Criticism of Judges: A Comparative Study of European Legal Standards, Burlington, 2000, 229 ss.

[21] Per una approfondita analisi del rapporto tra libertà di stampa e tutela del potere giudiziario si veda M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale ed europeo, cit., 122 ss.

[22] CEDU, Kobenter e Standard Verlags GmbH c. Austria, ric. 60899/00 (2006).

[23] CEDU, Katrami c. Grecia, ric. 19331/05 (2007).

[24] Nella medesima direzione la sentenza CEDU, De Haes e Gijsels c. Belgio, ric. 19983/92 (1997), con la quale la Corte ha sottolineato che «la libertà di espressione vale non solo per informazioni o idee accolte con favore o considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che urtano, scioccano o inquietano lo Stato». Il principio generale per cui il diritto di libertà di espressione sia posto a tutela anche di osservazioni provocatorie, o addirittura inquietanti, subisce dunque un’eccezione quando le affermazioni sono rivolte al sistema giudiziario. Per l’orientamento tradizionale si veda CEDU, Barthold c. Germania, ric. 8734/79 (1985), analizzata in F. Abruzzo, Libertà di stampa, tutela dell’informazione e dei giornalisti alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in B. Nascimbene (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Profili ed effetti nell’ordinamento italiano, Milano, 2002, 121 ss. Sul punto, anche D. Bosi, Art. 10, Libertà di espressione, in C. Defilippi – D. Bosi – R. Harvey (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Napoli, 2006, 418 ss.

[25] CEDU, L.P. e Carvalho c. Portogallo, cit., § 65.

[26] La Corte europea, com’è noto, è solita affrontare le questioni concernenti possibili violazioni della libertà di espressione attraverso un test trifasico: in primo luogo, l’accertamento della sussistenza dell’ingerenza; in seconda analisi, la ricerca della previsione di legge in base alla quale le autorità nazionali hanno posto in essere l’interferenza; infine, il perseguimento di un fine legittimo di quest’ultima, considerando la necessità della stessa in una società democratica. Nel caso di specie, il fatto che le condanne per diffamazione nei confronti dei ricorrenti costituissero un’ingerenza nell’esercizio dei loro diritti è risultato pacifico anche per le parti stesse. Ivi, § 61.

[27] A tal proposito si rileva, come anticipato, che, per il primo caso, la previsione normativa alla base dell’ingerenza era rappresentata dagli artt. 180 e 184 del codice penale portoghese, i quali puniscono chiunque imputi ad un’altra persona un atto da cui deriva una lesione dell’onore o della reputazione, con una maggiorazione di pena se la vittima di tale reato è un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. Nel secondo caso, invece, la responsabilità extracontrattuale è fondata sul citato art. 483 del codice civile.

[28] Una più analitica disamina della distinzione tra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore, compiuta dalla Corte in un recente caso, in M. Castellaneta, Tutela della reputazione dei politici, libertà di stampa e giudizi di valore con linguaggio provocatorio: la Corte europea procede a un bilanciamento a favore dei giornalisti, in questa Rivista, 2020, 237 ss.

[29] CEDU, L.P. e Carvalho c. Portogallo, cit., § 68.

[30] La Corte, a ben vedere, aveva trattato una simile questione in precedenza, e, in particolare, nella sentenza CEDU, Mor. c. Francia, n. 28198/09 (2001), § 61, e nella più recente pronuncia Rodriguez Ravelo c. Spagna, ric. 48074/10 (2016), in cui la violazione dell’art. 10 della Convenzione era stata ravvisata, per l’appunto, in ragione della sola severità della condanna penale inflitta ad un avvocato, capace, dunque, di avere un chilling effect sull’intera categoria.

[31] CEDU, Casado Coca c. Spagna, ric. 15450/89 (1994). Sul punto, si veda F. Tulkens, Quel rôle pour les avocats devant la Cour européenne des droits de l’homme, in I diritti dell’uomo, 2017, 7 ss.

[32] A tal proposito si veda l’analisi di D. Spielmann – C. Henry, Les avocats et la Convention européenne de droits de l’homme, in I diritti dell’uomo, 2016, 510 ss.

[33] CEDU, Schöpfer c. Svizzera, ric. 25405/94 (1998), §§ 29-30, con cui la Corte ha altresì precisato che «regard being had to the key role of lawyers in this field, it is legitimate to expect them to contribute to the proper administration of justice, and thus to maintain public confidence therein».

[34] In questo senso si veda CEDU, Steur c. Paesi Bassi, ric. 39657/98 (2003), nella quale uno dei parametri per sostenere che vi fosse stata una violazione dell’art. 10 della Convenzione è stato, per l’appunto, che «the criticism was confined to the courtroom».

[35] Nella sentenza CEDU, Kyprianou c. Cipro, ric. 73797/01 (2005), i giudici di Strasburgo hanno evidenziato come gli avvocati «are certainly entitled to comment in public on the administration of justice, […] their criticism must not overstep certain bounds» e, allo stesso modo, «a lawyer’s freedom of expression in the courtroom is not unlimited and certain interests, such as the authority of the judiciary, are important enough to justify restrictions on this right». Per un’analisi della pronuncia si veda P.F. Docquir, Variables et variations de la liberté d’expression en Europe et aux Etats-Unis, Bruxelles, 2007, 93 ss.

[36] A tal proposito si veda la recente sentenza CEDU, Ottan c. Francia, ric. 41841 (2018), per un’analisi della quale ci si permette di rinviare a F. Ceci, Libertà di espressione degli avvocati e tutela dell’autorità del potere giudiziario: la Corte europea dei diritti dell’uomo procede al bilanciamento dei differenti interessi, in questa Rivista, 2018, 394 ss.

[37] CEDU, Morice c. Francia, ric. 29368/10 (2015).

[38] In prima battuta, la Corte aveva invece sostenuto che l’ingerenza da parte delle autorità nazionali rispondesse ad un bisogno sociale imperioso, evidenziando che «the applicant had overstepped the limits that lawyers had to observe in publicly criticising the justice system». Ivi, § 95.

[39] Sul punto, F. Krenc, Les fils du dialogue entre l’avocat et la Cour européenne des droits de l’homme, in L’observateur de Bruxelles, 105, 2016, 26 ss.

[40] Tale conclusione anche in T. Bontinck, La liberté d’expression de l’avocat, in Journal des Tribunaux, 2016, 362 ss.

[41] A tal proposito si veda la sentenza CEDU, Peruzzi c. Italia, ric. 39294/09 (2015), analizzato in R. Incutti, La libertà di espressione (art. 10 CEDU), in A. Di Stasi (a cura di), CEDU e ordinamento italiano. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e l’impatto nell’ordinamento interno, Vicenza, 2016, 883 ss.

[42] United Nations, Basic Principles on the Role of Lawyers, 7 settembre 1990. Il testo del documento è reperibile sul sito refworld.org.

[43] Ivi, art. 12.

[44] Recommendation Rec (2000)21 of the Council of Europe’s Committee of Ministers to member States on the freedom of exercise of the profession of lawyer, adottata il 25 ottobre 2000, disponibile all’indirizzo coe.int.

[45] CEDU, Morice c. Francia, cit., § 148. Per una considerazione opposta, si veda la concurring opinion del giudice Kuris nella medesima pronuncia, per il quale «A lawyer always represents a party and by definition is not able to occupy a central position in the administration of justice».

[46] Cfr. P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1936, 52. L’autore, trattando della legge dei vasi comunicanti, si riferisce, in realtà, ai rapporti tra magistrati ed avvocati, con osservazioni tuttora attuali. Sul punto, in particolare, ritiene inoltre che «giudici e avvocati sono ugualmente organi della giustizia, sono servitori ugualmente fedeli dello Stato, che affida loro due momenti inseparabili della stessa funzione. […] Qualsiasi perfezionamento delle leggi processuali rimarrebbe lettera morta, là dove, tra i giudici e gli avvocati, non fosse sentita, come legge fondamentale della fisiologia giudiziaria, la inesorabile complementarità, ritmica come il doppio battito del cuore, delle loro funzioni».

[47] In questo senso, si vedano le riflessioni di M. Laforgia – F. Contri, Il lavoro dell’avvocato, ecologia e organizzazione della professione forense, Bari, 2018, spec. 25 e 41 ss.

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