I network oscurano Trump: lezioni di giornalismo davanti alle menzogne del potere

Una domanda corre sottotraccia in molti dibattiti sui “diritti e doveri” del giornalista: la stampa ha il dovere di diffondere qualunque messaggio proviene da una figura di rilievo pubblico, poiché ciò è di interesse della comunità di riferimento o un giornalismo serio consente, a volte impone, di compiere scelte, come quella, ad esempio di interrompere la diretta di un comizio, per impedire la diffusione di palesi falsità?

Questa domanda ricorrente è tornata di recente d’attualità. Nello spettacolo eccitante ma insieme penoso del dopo elezioni americane, abbiamo assistito a quella che può essere a buon diritto ritenuta una nuova pagina storica del giornalismo, statunitense e non solo.

Ricordiamo che cosa è accaduto: la notte tra il 5 e il 6 novembre, quando si era ancora nel pieno del conteggio dei voti, il presidente Trump indiceva una conferenza stampa (meglio, un monologo senza domande) nella quale affermava di aver vinto le elezioni «se si contano i voti legali». Tre tra i maggiori canali televisivi – MSNBC, NBC e CBS – hanno deciso di interrompere la diretta, giustificando un simile atto con la volontà di non trasmettere notizie false. Alcuni, poi, hanno stigmatizzato il comportamento dell’uomo politico, che li “costringeva” a limitarne la visibilità: L’anchorman della MSNBC, Brian Williams, ha ritenuto di rendere la propria amarezza esplicita: «ci troviamo ancora nella posizione inusuale non solo di interrompere il presidente degli Stati Uniti ma di correggere il presidente degli Stati Uniti. Non ci risulta una vittoria di Trump». Lester Holt su NBS ha spiegato così la sospensione della trasmissione: «il presidente ha fatto un certo numero di affermazioni false, compresa quella che c’è stato un voto fraudolento. Non ci sono prove». Ancora, Shepard Smith, volto della CBS, si rifiutava di proseguire la diretta in quanto «non c’è stata una scintilla di verità in tutto quello che ha detto».

Diversa la scelta della CNN, che ha continuato a trasmettere e subito dopo ha pubblicato un lungo articolo con l’elenco delle affermazioni false diffuse dal presidente, ognuna accompagnata da una puntuale smentita. Tuttavia, al termine del discorso presidenziale, Jake Tapper, corrispondente da Washington, si è lasciato andare ad un commento scoraggiato: «che triste notte per gli Stati Uniti sentire il presidente che dice certe cose, bugia dopo bugia, sull’elezione rubata, cercando di attaccare la democrazia. Non ci sono prove di quello che sta dicendo. Solo diffamazioni sulla correttezza nel conteggio dei voti. Francamente è patetico».

Ancora differente la condotta di the Fox News, che ha trasmesso il filmato senza aperte contrapposizioni. Tuttavia, persino su una emittente notoriamente vicina alle posizioni della destra americana, la conduttrice Martha MacCallum, ha preso atto delle accuse di Trump, sottolineando che le prove citate per dimostrare le frodi nella votazione «dovranno essere prodotte, se davvero ce ne sono».

Ora, nel generale biasimo mostrato dal mondo del giornalismo di fronte a una public figure (anzi forse alla public figure per antonomasia) che diffonde dati falsi o comunque non provati, circa una condotta gravissima come l’esistenza di brogli elettorali, le scelte sono state diverse. Da un blando ammonimento a mostrare le prove di una simile accusa, alla contestazione puntuale delle affermazioni dopo averle comunque diffuse, alla scelta più radicale di non diffondere una voce, soprattutto se così autorevole, quando si fa interprete e assicura la sussistenza di fatti di cui non si ha alcuna evidenza.

La scelta di staccare la spina a uno dei politici più influenti al mondo può essere opinabile per più di un motivo. Proviamo ad elencarne qualcuno. Escludere dal dibattito pubblico, o meglio dai media tradizionali, cioè dagli organi ove l’informazione è presentata e commentata da giornalisti, una personalità con un largo consenso, anche quando diffonde fatti falsi, probabilmente non la condanna al silenzio che meriterebbe. Il filmato, infatti, continua a circolare su circuiti informativi alternativi – in particolare nelle bolle mediatiche di cui tanto ha parlato Cass Sunstein – dove tali voci accedono comunque al “loro” pubblico, in costante adorazione, senza un briciolo di contraddittorio. E, anzi, sventolando, come se fosse una medaglia al valore, lo stigma del martirio, che rischia addirittura di aumentarne la popolarità, in determinati contesti.

Ancora, il principio liberale, cui siamo tanto affezionati, del «conoscere per deliberare» suggerisce di consentire l’accesso ai media di tutte le idee, anche le più irritanti e scioccanti, persino di quelle antidemocratiche e finanche di quelle che affondano e nutrono le proprie radici nelle paludi di falsità conclamate. La fiducia nella capacità delle persone di scegliere non solo l’idea migliore ma anche di espellere quella peggiore e di riconoscere quella basata su fatti falsi, in un sistema pluralista, consente di mantenere intatta una simile libertà. E ciò per di più in un ordinamento come quello statunitense (o come il nostro) nel quale nel quale i “padri fondatori” riponevano un tale credito nella forza della democrazia e nell’attaccamento ad essa della popolazione, da estendere la libertà di espressione anche ai nemici della democrazia, come si dimostra essere, in modo più subdolo di altri, chi non ne accetta le regole se non quando lo vedono prevalere.

Corollario di quella precedente è l’ultima obiezione alla interruzione della trasmissione. Evitare di diffondere per intero un discorso così importante come quello del presidente Trump, in frangente così drammatico, come quello della notte dello scrutinio elettorale, durante la quale il presidente accusa, senza riscontro alcuno, il proprio avversario di averle illecitamente condizionate, priva i cittadini della possibilità di conoscere ogni passaggio, ogni sillaba, ogni accento del suo pensiero e quindi, con ciò, di poterlo giudicare adeguatamente.

Tutte queste critiche sembrano a prima vista ragionevoli e portano con sé argomenti che, soprattutto se astratti dal contesto, potrebbero essere convincenti.

Tuttavia, proprio se ci si cala nel contesto, la scelta dei tre grandi network può essere ritenuta certo non doverosa, ma nel complesso comprensibile e forse anche apprezzabile.

Dicevamo “non doverosa”. Il dubbio potrebbe legittimamente porsi: in quel particolare momento una presa di posizione così dura (“ho vinto le elezioni, il mio avversario me le ha rubate”), totalmente sfornita di alcuna prova, poteva rischiare di essere interpretata come una istigazione alla rivolta, condotta evidentemente eversiva. La intima convinzione circa la maturità della democrazia americana convince a ritenere che, in verità, nessun colpo di Stato poteva concretamente avere luogo, sicché la libertà di espressione, non limitata da questo argine, può prendersi tutto lo spazio, rendendo legittima quindi l’attività di chi, invece di “togliere la linea” al presidente, ha diffuso l’intero discorso.

Perché la condotta di chi ha ritenuto di bloccare la diretta ci sembra, tuttavia, meritevole di plauso?

Anzitutto perché davvero non si può parlare di atto censorio. Ormai, come si è accennato sopra, i dati, i fatti, ciò che accade, insomma le notizie sono veicolate attraverso moltissimi canali diversi, soprattutto messi a disposizione della rete. Il discorso del presidente degli Stati Uniti, in particolare in un momento in cui tutto il mondo volge lo sguardo oltre oceano, viene senza dubbio registrato integralmente da qualcuno e, una volta immesso in rete, diventa raggiungibile da chiunque.

L’informazione, dunque, e questo è un fatto che difficilmente può essere messo in discussione, non passa più soltanto attraverso gli organi di stampa, che quindi possono permettersi, ancor più che una volta, di concentrarsi sulla opera di mediazione che è loro propria e che ci sembra essere, oggi più che mai, l’ubi consistam del giornalismo.

Inoltre, come ha sottolineato Antonio Nicita, «secondo una consolidata prassi, sono proprio le principali emittenti televisive americane a decretare, con le proprie proiezioni statistiche sullo spoglio, gli stati assegnati a uno dei contendenti», sono i notai del voto e non possono assistere passivamente a dichiarazioni false circa l’avvenuta vittoria elettorale, senza abdicare al proprio ruolo terzo di certificatori del risultato (A. Nicita, Perché interrompere quella conferenza stampa di Trump non è censura, in Wired.it, 10 novembre 2020).

Vi è di più: con questo atto dirompente, il giornalismo compie una sorta di scatto d’orgoglio, rivendicando la propria natura più profonda. Con lo spegnere l’interruttore della autopromozione, i conduttori che l’hanno deciso hanno anzitutto rifiutato di essere la cassetta delle lettere (meglio dei video) del potere politico.

I programmi di cronaca e approfondimento politico, poi, hanno dimostrato di voler restare uno spazio mediato, filtrato da chi esercita appunto il mestiere del giornalista. Essenza del mestiere è anche prendersi la responsabilità di decidere che cosa agli spettatori si debba dire e che cosa agli spettatori si possa o si debba tacere, in un clima, come è accaduto in questo caso, di piena trasparenza. Si spegne il microfono, spiegando il perché. Ed è proprio in questa spiegazione che sta un esempio del valore in più che ogni giornalista e ogni testata può fornire al lettore o allo spettatore, oltre al mero racconto dei fatti. Anzi, si potrebbe dire che questo è il vero racconto: non una mera telecamera fissa e muta, ma un’opera di regia che, partendo dal fatto poi lo integra con un contesto e una spiegazione. Nel compiere questa opera, che è appunto il mestiere del giornalista, si distingueranno la capacità e lo stile di ogni professionista, che ne dovrebbero decretare il successo o l’insuccesso.

Prendendo a prestito un’immagine utilizzata da Claudio Schirinzi, per anni cronista del Corriere della Sera, le agenzie (o la realtà) ti forniscono gli ingredienti, poi sta al giornalista cucinarli.

In fondo, proprio l’intermediazione giornalistica distingue e distinguerà sempre più un organo di informazione dalle miriadi di canali attraverso cui passano dati e opinioni tramite la rete. E intermediazione significa non solo e non tanto fornire il dato, ma anche, tra l’altro, operare un controllo accurato delle fonti e una verifica maniacale dei fatti e fornire un argine alla propalazione di dati falsi senza contraddittorio. Proprio nell’era della iperinformazione, l’autorevolezza del giornalismo si misura non nella quantità ma nella qualità delle notizie, nella capacità di fornire strumenti per capire la realtà e non armamentari propagandistici.

Questo evento segna un passaggio nel giornalismo, una presa di coscienza del ruolo e della responsabilità di una professione che forse troppo presto era data per morta di fronte all’avanzata dei social, e che invece oggi ha “battuto un colpo”. E un colpo forte.

Certo, questo accade nel mondo anglosassone dove, per citare uno tra gli episodi più noti, più di vent’anni fa il conduttore della BBC Jeremy Paxman ripropose a un politico reticente per 14 volte la stessa domanda.

Speriamo sia di buon auspicio perché anche in Italia il mondo dell’informazione alzi la testa contro politici che non accettano domande insidiose, rifiutano il contraddittorio, mettono veti sui giornalisti sgraditi, inviano dichiarazioni preregistrate, eccetera, eccetera, eccetera.

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