Gli insulti sessisti sono una forma di violenza sulle donne. E come tali vanno puniti anche se realizzati mediante i social

Tribunale di Torino, sez. Giudici per le Indagini Preliminari, ord. 17 gennaio 2025 (dott.ssa Minutella)

Qualche settimana fa aveva destato stupore – quanto meno in chi scrive – la notizia che un PM di Torino avesse formulato richiesta di archiviazione in un caso di diffamazione on-line, in cui la querelante lamentava l’offesa alla propria reputazione posta in essere da una serie di utenti social che, con riguardo a un presunto tradimento dalla stessa posto in essere nei confronti dell’ex fidanzato e da questi diffuso con un video registrato in occasione di una festa di compleanno, si erano espressi con epiteti a dir poco volgari e offensivi, tra cui – a mero titolo di esempio – zoccola, troia, mignotta, bocchinara, puttana, vacca e così via, ricorrendo al peggior campionario di insulti offerti dalla lingua italiana.

Nel motivare la propria richiesta, il PM, oltre a ritenere non identificabili gli autori delle offese, normalmente celati dietro pseudonimi o false generalità, aveva sostanzialmente ritenuto che quei post fossero espressione del diritto di critica, rispettosi dei tradizionali criteri individuati dalla costante giurisprudenza: l’interesse pubblico, derivante dalla (presunta) notorietà della persona offesa e dell’ex fidanzato; la verità del fatto (o meglio, del presupposto fattuale della critica), perché il tradimento sarebbe stato dichiarato dall’ex fidanzato e non smentito dall’interessata; la continenza espressiva, perché il “luogo” della manifestazione del pensiero – il noto social Facebook, caratterizzato dal costante o quanto meno frequente uso di un linguaggio “sopra le righe” – avrebbe determinato una generalizzata desensibilizzazione e legittimato l’uso di non misurati e ineleganti.

È di questi giorni la decisione del GIP di Torino, che, non accogliendo la richiesta di archiviazione e disponendo che il PM debba svolgere indagini di natura tecnica per individuare concretamente i responsabili degli insulti via social, compie un interessante excursus sui rapporti tra la diffamazione commessa tramite tecnologie dell’informazione e della comunicazione (le cosiddette TIC) e la violenza sulle donne.

Ad avviso del GIP, nella vicenda sottoposta alla sua attenzione va per prima cosa stabilito se si versi in un’ipotesi di esercizio del diritto di critica: per compiere tale valutazione, il giudice ritiene che debbano essere considerati non solo i “canonici” limiti per la sussistenza della scriminante in parola (così come elaborati dalla costante giurisprudenza in materia), ma anche le caratteristiche dei commenti stessi.

Nel caso di specie, infatti, questi ultimi risultano così strettamente collegati alla morale sessuale femminile e a tal punto rivolti in modo esclusivo al genere femminile da poter essere qualificati come “comportamenti sessisti” e “discorsi d’odio” – realizzati, per l’appunto, con l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (c.d. TIC) – e, in ultima analisi, vere e proprie manifestazioni di violenza sulle donne, così come codificata dalla più recente normativa comunitaria.

A sostegno di tale affermazione, il giudice ricorda in primis come una fondamentale definizione della violenza contro le donne sia fornita dalla Convenzione di Istanbul (firmata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2011 e ratificata in Italia nel 2013), secondo cui deve considerarsi tale qualsiasi atto di violenza di genere perpetrata nei confronti di donne o che comunque colpisce le donne «in modo sproporzionato, che provochi o possa provocare danni o sofferenza fisica, sessuale, psicologica o economica, incluse le minacce di compiere tali atti».

In maniera analoga, la direttiva (UE) 2024/1385 del 14 maggio 2024 prende in considerazione tutte quelle ipotesi in cui «la violenza sia intrinsecamente connesso all’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione», facendo in tal modo riferimento non solo all’utilizzo di strumenti informatici per commettere una violenza in danno delle donne (si pensi alla diffusione illecita di materiale intimo, il c.d. revenge porn, o allo stalking on-line), ma anche ai discorsi d’odio sessista, vale a dire a tutte quelle situazioni in cui l’utilizzo dei social e in generale dei mezzi di comunicazione informatici (i c.d. TIC) determina una rapida e facile amplificazione dei commenti offensivi, accrescendo enormemente il rischio di provocare danni anche profondi in capo alla vittima o di aggravarne gli effetti, per effetto della possibile riproposizione temporale delle offese e della difficoltà – anche tecnica – a eliminarle per sempre una volta che si sono diffuse tramite il web.

Da ultimo, il GIP richiama la Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 27 marzo 2019, che ha esplicitato il collegamento tra sessismo e violenza sulle donne affermando espressamente come esista «un continuum tra gli stereotipi di genere, le disparità di genere, il sessismo e la violenza contro le donne» e sottolineando come anche semplici atti di sessismo ordinario – come «commenti e battute sessiste apparentemente insignificanti e prive di conseguenze» – possano ben costituire forme di violenza contro le donne, perché si tratta di atti «spesso umilianti» che «contribuiscono a creare un clima sociale in cui le donne sono svilite, la loro autostima è ridotta e le loro attività e scelte vengono limitate, nel contesto lavorativo, nella sfera privata, in quelle pubblica e in rete».

Così delineato il perimetro normativo della definizione di violenza contro le donne, la conclusione del giudice appare sostanzialmente inevitabile e indiscutibile: i commenti degli utenti di Facebook nella vicenda in oggetto appaiono volti a stigmatizzare la parte lesa unicamente in quanto donna e, come tali, risultano palesemente discriminatori ed espressione di odio e di violenza. Lungi dall’essere espressione di un giudizio critico, si tratta di commenti basati su stereotipi di genere, animati da una finalità esclusivamente offensiva così evidente da porli ictu oculi fuori da qualsiasi – pur ampio – perimetro del legittimo esercizio del diritto di critica.

Non di meno, con apprezzabile completezza argomentativa, il giudice ritiene doveroso procedere a un’analisi della vicenda anche secondo i noti presupposti del diritto di critica, vale a dire verità del fatto, interesse pubblico e continenza espressiva. Pur ponendosi nel solco della costante e maggioritaria giurisprudenza, la decisone in commento appare anche sotto questo profilo interessante, per la chiarezza con cui il Gip ribadisce i confini di quei requisiti, anche quando il luogo della contestata diffamazione non sia un salotto bene ma un social come Facebook, vale a dire un luogo dove chiunque può accedere e dire la sua.

Per quanto concerne la verità del fatto, viene ribadito come la critica, per quanto contenga necessariamente l’espressione di un giudizio di valore, debba necessariamente muovere da un presupposto di fatto, che deve essere vero e verificabile; qualora, dunque, il nucleo fattuale risulti insufficiente (perché non vero e non controllabile), il conseguente giudizio risulta gratuito e ingiustificato e, laddove offensivo, diffamatorio e perciò illecito. Applicando tale principio al caso di specie, risulta evidente come gli ignoti offensori non si premurino nemmeno di individuare e indicare quale sia il presupposto fattuale del proprio giudizio critico (ove mai possa ritenersi tale e non meramente espressivo di violenza, come già detto).

Del tutto inaccettabile risulta, peraltro, anche l’interpretazione proposta dal PM nella propria richiesta di archiviazione, secondo cui il nucleo fattuale risulterebbe vero nella misura in cui dovrebbe ritenersi vero quanto raccontato dall’ex fidanzato nel video (mai formalmente smentito dalla querelante), non foss’altro perché i commenti “incriminati” risultano totalmente distanti dall’evento concreto e da esso sganciati, sì che il presunto tradimento posto in essere dalla querelante risulterebbe non già il fatto su cui si sviluppa la critica degli utenti di Facebook, ma un mero pretesto utilizzato dai predetti per procedere a immotivati e inaccettabili insulti. In altri e più chiari termini, la critica presuppone pur sempre un ragionamento logico che, muovendo da un presupposto fattuale, conduca all’espressione di un giudizio: se quel presupposto manca o, comunque, non viene nemmeno indicato e il presunto giudizio si riduce a un immotivato insulto, si sta diffamando e non esercitando il diritto di critica. Che è esattamente quanto accaduto nel caso di specie.

Passando poi ad analizzare il criterio dell’interesse pubblico, correttamente il giudice lo considera del tutto mancante nella vicenda sottoposta al suo giudizio, posto che, a prescindere dalla notorietà (vera o presunta, maggiore o minore) del soggetto cui la notizia è riferita, il giudizio deve riguardare la dimensione pubblica della persona criticata; se, al contrario, il giudizio si riferisce esclusivamente alla sfera privata, esso si risolve in un attacco personale, come tale ingiustificato e inammissibile.

Da ultimo, il Gip si sofferma sul tema della continenza per ribadire che, pur se, in termini generali, l’esercizio del diritto di critica deve potersi esprimere anche con toni aspri e pungenti, talora persino inurbani, gli stessi non possono però trasformarsi in invettive sproporzionate o, peggio, in espressioni gravemente infamanti. Anche tenendo conto, doverosamente, del luogo ove il commento viene espresso – Facebook nel caso de quo – e del differente contesto sociale cui tale luogo necessariamente rimanda, le parole utilizzate dagli autori dei post “incriminati” appaiono totalmente e «oggettivamente sopra le righe ed inutilmente umilianti», sì da qualificarsi come «veri e propri insulti», che mai e in nessun luogo possono ritenersi ammissibili e men che meno leciti.

In conclusione, la decisione in commento, oltre a ricordare che – almeno per ora – l’insulto libero non è consentito nemmeno sui social più “popolari”, ribadisce la punibilità di tutte quelle condotte verbali che si risolvono in offese sessiste e discriminazioni di genere, al di fuori di qualsiasi serio e argomentato giudizio.

Share this article!
Share.