Diritto all’oblio. Prime riflessioni sull’introduzione dell’art. 64-ter disp. att. c.p.p.

Il d.lgs. 150 del 2022 (c.d. Riforma Cartabia) ha introdotto tra le disposizioni di attuazione del codice di procedura penale l’art. 64-ter, rubricato «Diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini». L’art., dopo una breve panoramica sul rapporto tra processo penale e media e sull’evoluzione giurisprudenziale del diritto all’oblio, si sofferma sugli strumenti introdotti dalla norma, sui possibili risvolti pratici e sulle criticità sinora ravvisabili.

The Legislative Decree 150 of 2022 (so called Cartabia Reform) has introduced article 64-ter, entitled «Right to be forgotten of defendants and persons under investigation». The paper, after a brief overview on the relationship between criminal proceedings and the media and on the jurisprudential evolution of the «right to be forgotten», focuses on the tools introduced by the law, on the possible practical implications and on the critical issues that have been identified so far.

 

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Processo penale e media. – 3 Dal diritto all’oblio tradizionale al diritto all’oblio digitale. – 4 Il neo introdotto art. 64-ter disp. att. c.p.p. – 5 Conclusioni.

 

  1. Introduzione

Tra le novità introdotte dalla Riforma Cartabia, merita attenzione il nuovo art. 64-ter delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, rubricato «diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini».

Con l’inserimento dell’art. 64-ter disp. att. c.p.p. è stata data attuazione all’art. 1, c. 25, della legge delega n. 134 del 2021, che dava mandato al Governo di «prevedere che il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati».

La norma neo introdotta prevede ora che la persona nei cui confronti siano stati pronunciati una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, ovvero un provvedimento di archiviazione, può richiedere che sia preclusa l’indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione sul web dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento.

Nel caso di richiesta volta ad ottenere una preclusione dell’indicizzazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento appone sullo stesso e sottoscrive un’annotazione del seguente tenore: «ai sensi e nei limiti dell’art. 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, è preclusa l’indicizzazione del presente provvedimento rispetto a ricerche condotte sulla rete internet a partire dal nominativo dell’istante» (art. 64-ter disp. att. c.p.p., c. 2).

Qualora venga invece richiesta la deindicizzazione la cancelleria appone e sottoscrive l’annotazione, anch’essa espressamente richiamata dalla norma, secondo cui «il presente provvedimento costituisce titolo per ottenere, ai sensi e nei limiti dell’art. 17 del regolamento(UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del  27 aprile 2016, un provvedimento di sottrazione dell’indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell’istante» (art. 64-ter disp. att. c.p.p., c. 3).

  1. Processo penale e media

Il rapporto tra processo penale, informazione e privacy «è tra i più complessi del nostro sistema giuridico»[1]: la narrazione della vicenda giudiziaria, espressione dell’irrinunciabile funzione di controllo esercitata sull’amministrazione della giustizia, espone inevitabilmente coloro che ne sono (loro malgrado) coinvolti, a un grave pregiudizio reputazionale.

Se il processo penale ha per sua natura un effetto desocializzante, la sua mediatizzazione rischia, infatti, di creare uno stigma indelebile in chi la subisce, con ricadute negative sulla sfera personale, professionale e sociale del soggetto[2].

E ciò sia per le modalità con cui viene raccontata la vicenda giudiziaria, sia per le caratteristiche degli odierni mezzi di informazione.

Sotto il primo profilo è un dato ormai incontestato che oggi l’attenzione dei media – vuoi per il disallineamento tra i tempi dell’informazione e quelli del processo, vuoi per il fil rouge tra inquirenti e giornalisti – si concentri sulla fase delle indagini preliminari, seguite con spasmodico interesse e con toni sensazionalistici, per poi scemare con il passare del tempo.

Con due evidenti conseguenze. Da una parte, avendo come fonte informativa gli atti di indagine, la cronaca giudiziaria tende ad appiattirsi sull’ipotesi accusatoria della Procura, che viene acriticamente presentata al lettore come dato di fatto, così inevitabilmente alimentando un giudizio anticipato di colpevolezza da parte dell’opinione pubblica[3].

Dall’altra, proprio per la discrasia tra l’esigenza di celerità della notizia e i tempi del processo, l’eventuale sentenza di assoluzione, intervenuta magari dopo anni, non solo non suscita alcun interesse informativo (meritando al più un trafiletto di poche righe), ma spesso, non riesce comunque a superare il pregiudizio precedentemente formatosi.

Come ha ben stigmatizzato autorevole dottrina, nel comune sentire, il solo fatto di essere indagato è raccontato e percepito come «inequivoco indizio di colpevolezza», che non viene superato neppure da un successivo proscioglimento[4].

Se a ciò si aggiunge la potenza diffusiva del web e la sua capacità di archiviazione di dati, che amplificano e cristallizzano il pregiudizio dell’opinione pubblica nei confronti di chiunque sia sottoposto a processo penale, si comprende la complessità e la gravità del fenomeno[5].

Invero, qualsiasi notizia diffamante pubblicata online diventa potenzialmente sempre attuale, essendo in qualsiasi momento immediatamente reperibile da parte di chiunque, rendendo così di fatto impossibile per l’utente di internet “dimenticare” e per chi è finito sotto i riflettori dei media a causa di una vicenda giudiziaria, liberarsi da quello stigma.

In questo contesto non si può che accogliere con favore un intervento normativo che ha la dichiarata finalità «di garantire in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati» il cui procedimento si sia concluso con esito a loro favorevole[6].

La norma sembra inscriversi nel più ampio percorso intrapreso dal nostro legislatore – su spinta comunitaria – di rafforzamento della tutela dei diritti dell’indagato/imputato in un’ottica extra-processuale.

Se in passato l’attenzione del legislatore si concentrava sulle distorsioni che si verificano all’interno del processo e su eventuali correttivi processuali, si assiste recentemente a una maggiore sensibilità per gli effetti pregiudizievoli sui diritti dell’indagato che, seppur connessi al processo, si manifestano al di fuori dello stesso e spesso permangono indipendentemente dal suo esito.

Ciò che si vuole tutelare è la percezione sociale della persona sottoposta ad indagini o imputata che «non deve trovarsi diminuita – socialmente, moralmente e fisicamente – nei confronti degli altri cittadini»[7].

In questo senso il primo significativo intervento è stato senza dubbio l’attuazione della direttiva (UE) 343/2016 sulla presunzione di innocenza che ha finalmente riconosciuto una portata extra-processuale al principio di cui all’art. 27 della Costituzione: non è solo nel processo, ma è nella rappresentazione pubblica, che la persona indagata o imputata ha diritto ad essere considerato innocente fino alla sentenza definitiva di condanna[8].

Nella stessa direzione sembra oggi inscriversi anche il riconoscimento del «diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini» di cui si proporrà un’analisi nei paragrafi che seguono.

  1. Dal diritto all’oblio tradizionale al diritto all’oblio digitale

Senza alcuna pretesa di esaustività, ci pare utile una breve panoramica del diritto all’oblio, al fine di tratteggiarne i contorni e fissare alcuni punti che ci aiuteranno nell’analisi della nuova norma.

Comunemente definito come il «diritto ad essere dimenticato», il diritto all’oblio può essere più correttamente inteso come il diritto dell’individuo a una rappresentazione corretta e aggiornata della propria identità.

Si ritiene che il primo riconoscimento del diritto all’oblio sia avvenuto nel caso Melvin v. Reid[9], deciso dalla Corte d’appello della California nel 1931: un’ex prostituta, accusata di omicidio e poi assolta, agì in giudizio contro un produttore cinematografico che, diversi anni dopo, quando la donna si era rifatta una vita, costruendosi una nuova identità, aveva girato un film sulla sua storia, utilizzando il suo vero nome e rivelando così la sua precedente occupazione e le accuse al tempo mosse nei suoi confronti.

La Corte diede ragione alla donna, riconoscendole il diritto, «una volta riabilitata» e inserita nella società come donna «rispettabile e virtuosa»[10], a non vedere distrutta la sua nuova reputazione a causa della rievocazione «unnecessary and indelicate»[11] di un evento passato ormai dimenticato.

Al di là dei toni moralizzanti dell’epoca utilizzati in motivazione, la Corte americana, per la prima volta, affermava il diritto del singolo ad «essere lasciato in pace», a non essere pregiudicato dalla rievocazione, a distanza di tanto tempo, di «incidenti» del passato.

Anche in Italia, i primi casi relativi al diritto all’oblio affrontati dalla Corte di Cassazione (circa mezzo secolo più tardi) riguardavano la ripubblicazione, a distanza di tempo, di vicende passate e affrontavano l’argomento sotto il profilo del rapporto esistente tra il diritto di cronaca, privacy e il «giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata»[12].

Dal punto di vista normativo, la disciplina di riferimento nei casi citati, era la legge n. 675 del 1996 (cd. Legge sulla Privacy), poi sostituita dal d.lgs. n. 196 del 2003 (Codice della Privacy). In particolare, l’art. 25 della Legge sulla Privacy – recepito poi dall’art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003[13] – stabiliva il principio della libertà del trattamento dei dati personali nell’ambito dell’attività giornalistica (per il quale non è necessario il consenso dell’interessato), a condizione che la diffusione della notizia risponda ad un criterio di essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico e avvenga nel rispetto delle regole deontologiche volte a contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto all’informazione[14]. Tra i criteri indicati dal Codice deontologico del 1998, si richiamavano, per quel che qui rileva, quello dell’interesse pubblico e dell’essenzialità dell’informazione previsti dagli artt. 5 e 6, in relazione all’art. 8 sulla tutela della dignità delle persone.

Alla luce del quadro normativo sinteticamente tracciato, la giurisprudenza nazionale procedeva a valutare la legittimità della diffusione di una notizia già oggetto di precedente divulgazione mediante un’interpretazione rigorosa dei requisiti legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca – l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, la verità dei fatti narrati e la continenza espositiva – a cui aggiungeva il criterio dell’attualità.

Secondo la Suprema Corte, in caso di rievocazione di una notizia in qualche modo lesiva della reputazione del soggetto che ne è stato protagonista, non è sufficiente che la stessa fosse stata in precedenza legittimamente diffusa, ma occorre una nuova valutazione, al fine di verificare l’attualità di tali criteri.

Il trascorrere del tempo può infatti incidere sulla permanenza dei presupposti della scriminante del diritto di cronaca: una notizia ritenuta in passato di interesse pubblico, perde con il passare del tempo la sua rilevanza e finanche la sua verità, allorché ad esempio la stessa non sia aggiornata e nel frattempo siano intervenuti nuovi fatti.

Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte enucleava le condizioni in presenza delle quali il diritto di cronaca prevale su quello all’oblio: tra queste «il contributo arrecato dalla diffusione della notizia ad un dibattito di interesse pubblico, l’interesse effettivo e attuale alla diffusione, la grande notorietà del soggetto rappresentato»[15].

In assenza di tali condizioni, prevale il diritto dei singoli «alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva»[16].

Riservatezza che, come stabilito in una recente pronuncia sulla base delle regole deontologiche sopra richiamate, deve essere in ogni caso preservata, anche qualora il fatto rivesta un effettivo interesse pubblico, garantendo laddove possibile, l’anonimato di colui che ne è stato protagonista[17].

Come visto, il diritto all’oblio sancito dalla Corte americana negli anni Trenta e poi ripreso dalla giurisprudenza nazionale, ha a che fare con gli effetti pregiudizievoli della riproposizione sui media di una notizia riguardante una vicenda passata e risulta intimamente connesso ai diritti della personalità, quali il diritto alla riservatezza, il diritto all’immagine, il diritto alla reputazione e il diritto all’identità personale.

Con l’avvento di Internet e con l’evolversi della società digitale, il diritto all’oblio assume un’ulteriore e diversa connotazione, legata alla capacità di conservazione nella rete di notizie pubblicate molto tempo prima, alla loro accessibilità e alla protezione dei dati personali[18].

Nel mondo iperconnesso e globale di internet, tutti sono esposti e tutti sono visibili: le miriadi di informazioni presenti in rete non solo non subiscono l’effetto erosivo del tempo, restando disponibili pressoché per sempre, ma sono altresì facilmente accessibili a tutti[19].

Si è così affermato, a livello giurisprudenziale, il diritto dell’individuo a una rappresentazione corretta e attuale della propria “identità digitale”, inteso come giusta aspettativa del singolo a non essere permanentemente collegato – e di conseguenza identificato – con una notizia che sarebbe stata altrimenti dimenticata[20]; interesse da bilanciare con il diritto della collettività ad essere informata e con l’esigenza di preservare la memoria storica collettiva.

Mentre il diritto all’oblio cd. tradizionale prevede quali strumenti di tutela a disposizione del singolo soltanto la rettifica e il risarcimento del danno cagionato, il diritto all’oblio nella sua accezione moderna prevede un ventaglio molto più ampio di rimedi, grazie ai nuovi strumenti a disposizione nel contesto digitale.

Accanto alla possibilità di ottenere la rettifica (e il risarcimento), l’interessato può chiedere l’aggiornamento della notizia, l’anonimizzazione, la de-indicizzazione delle pagine web, fino alla cancellazione dei propri dati personali[21].

Senza volere in questa sede ripercorrere le singole pronunce, è interessante notare come, dapprima a livello europeo e poi nazionale, si è andata via via cristallizzando l’idea che, tra i diversi rimedi azionabili dai singoli, la deindicizzazione sia lo strumento più adeguato a garantire un corretto bilanciamento tra diritti e interessi contrapposti, in quanto meglio di altri preserva la completezza delle fonti storiche senza pregiudicare il diritto all’oblio dell’individuo[22].

Quando si parla di deindicizzazione si intende la possibilità da parte dell’interessato di chiedere a un motore di ricerca di eliminare dall’elenco dei risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata partendo dal nome della persona, i link verso pagine web contenenti informazioni relative a questo individuo.

I dati personali, quindi, non vengono cancellati e rimangono pubblicati online e visibili da chiunque, semplicemente non compariranno più nei risultati di ricerca effettuata a partire dal nome dell’interessato.

Il diritto all’oblio diventa pertanto il diritto a che una notizia non sia così facilmente reperibile online (right not to be found easily).

Anche recentemente la Corte di Cassazione ha ribadito che «la deindicizzazione dei contenuti presenti sul web rappresenta, il più delle volte, l’effettivo punto di equilibrio tra gli interessi in gioco. Essa integra, infatti, la soluzione che, a fronte della prospettata volontà, da parte dell’interessato, di essere dimenticato per il proprio coinvolgimento in una vicenda del passato, realizza il richiamato bilanciamento escludendo le estreme soluzioni che sono astrattamente configurabili: quella di lasciare tutto com’è e quella di cancellare completamente la notizia dal web, rimuovendola addirittura dal sito in cui è localizzata»[23].

La consacrazione del diritto del singolo a pretendere dal motore di ricerca la deindicizzazione dei propri dati personali si ha con la nota sentenza Google Spain della Corte di giustizia del 2014[24].

La Corte «preso atto che l’attività di un motore di ricerca può incidere, in modo rilevante, sui diritti personali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali, dal momento che facilita notevolmente l’accessibilità di tali informazioni a qualsiasi utente di internet», attribuisce all’interessato il diritto di rivolgersi direttamente al gestore del motore di ricerca per chiedere la deindicizzazione dei propri dati.

Secondo la Corte, i diritti della persona interessata prevalgono non solo sugli interessi economici del gestore del motore di ricerca, ma di norma anche sull’interesse degli utenti di Internet ad avere accesso alle informazioni; è tuttavia necessario ricercare il giusto equilibrio tra tali interessi confliggenti. Equilibrio che può dipendere «dalla natura dell’informazione di cui trattasi e dal suo carattere sensibile per la vita privata della persona suddetta, nonché dall’interesse del pubblico a ricevere tale informazione, il quale può variare, in particolare, a seconda del ruolo che tale persona riveste nella vita pubblica».

La Corte di giustizia europea attribuisce al gestore del motore di ricerca il compito di valutare la fondatezza delle richieste, precisando tuttavia che «qualora il responsabile del trattamento non dia seguito a tali domande, la persona interessata può adire l’autorità di controllo o l’autorità giudiziaria affinché queste effettuino le verifiche necessarie e ordinino a detto responsabile l’adozione di misure precise conseguenti».

Tra le critiche rivolte alla sentenza, la principale è stata quella di avere affidato a società private, quali sono i gestori dei motori di ricerca, un eccessivo potere discrezionale in sede di valutazione delle richieste, a cui si aggiungono – come ben osservato – la mancanza di trasparenza del procedimento applicato, l’assenza di un effettivo contraddittorio e di qualsiasi intervento per gli editori dei contenuti[25].

A seguito della pronuncia della Corte di giustizia, nel 2014 il Gruppo di lavoro “Articolo 29” (Art. 29 WP)[26] ha creato delle linee guida prevedendo dei criteri condivisi per la valutazione della fondatezza delle richieste di deindicizzazione[27].

Poco dopo, nel regolamento (UE) 2016/679 sulla protezione dei dati personali (GDPR) è stato formalmente recepito l’orientamento giurisprudenziale, con l’inserimento del «diritto all’oblio»[28] nell’art. 17.

Nel 2019 la Corte di giustizia europea è tornata a pronunciarsi nei confronti di Google[29], affrontando il tema del trattamento da parte del gestore del motore di ricerca di particolari categorie di dati, tra i quali – per quel che qui interessa – i dati relativi a reati e condanne[30].

Ai fini dell’accoglimento della richiesta di deindicizzazione di pagine internet contenenti dati relativi a procedimenti penali, il motore di ricerca deve tenere conto di una serie di elementi, quali in particolare «la natura e la gravità del reato, lo svolgimento e l’esito di tale procedura, il tempo trascorso, il ruolo rivestito dalla persona coinvolta e il suo comportamento nel passato, l’interesse pubblico al momento della richiesta, il contenuto e la forma della pubblicazione, le ripercussioni della pubblicazione per tale persona»  e sulla base di tutte le circostanze del caso, deve verificare se l’inserimento di detto link nei risultati di ricerca a partire dal nome dell’interessato, si riveli strettamente necessario per proteggere la libertà di informazione degli utenti di internet.

E anche nel caso in cui sia necessario mantenere quei contenuti indicizzati, il gestore è tenuto in ogni caso ad aggiornare l’elenco dei risultati collegati al nome della persona, affinché compaiano per primi i link verso pagine con informazioni più recenti in modo da riflettere la situazione giudiziaria attuale[31].

Per quel che attiene all’ordinamento interno, i principi stabiliti dalla Corte di giustizia europea a partire dalla sentenza Costeja sono stati pienamente recepiti dalle pronunce della Cassazione e del Garante della Privacy che, coerentemente con il quadro sopra tratteggiato, riconoscono la deindicizzazione quale principale strumento a garanzia del diritto all’oblio del singolo.

 

  1. Il neo introdotto art. 64-ter att. c.p.p.

È nel parterre giurisprudenziale e normativo sopra richiamato che si inscrive l’introduzione dell’art. 64-ter disp. att. c.p.p.[32], rubricato «diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte alle indagini».

Come emerge dal testo della norma, l’ex indagato o l’ex imputato nei cui confronti sia stata emessa una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, ovvero un provvedimento di archiviazione[33], può attivarsi per ottenere: a) un’inibitoria dell’indicizzazione del provvedimento emesso nei suoi confronti e non ancora diffuso (ex ante); b) un titolo di delisting dei dati relativi al procedimento penale a suo carico già oggetto di divulgazione (ex post).

  • L’inibitoria dell’indicizzazione

La tutela di cui all’art. 64-ter, c. 2, disp. att. c.p.p., si traduce in un divieto di indicizzazione preventivo e originario del provvedimento «rispetto a ricerche condotte sulla rete internet a partire dal nominativo dell’istante».

Si tratta di una tutela che sulla carta appare di sicura portata innovativa, poiché introduce per la prima volta un istituto di carattere preventivo, applicabile prima della divulgazione della notizia. Per tale motivo, nei pochi commenti dottrinali sinora apparsi, il divieto di indicizzazione è stato definito estraneo al diritto all’oblio in senso tradizionale, che presuppone ontologicamente la dimenticanza di qualcosa che si conosce[34].

L’istituto, coerentemente con la finalità di prevenire un danno reputazionale da processo, è stato costruito sulla falsariga dell’oscuramento di cui all’art. 52, c. 1, Codice della Privacy[35].

Come evidenziato dal Garante della Privacy, l’inibitoria dell’indicizzazione costituisce una cautela volta a circoscrivere preventivamente gli effetti della pubblicità del provvedimento giudiziale[36].

Quanto alle modalità, vi deve essere un’espressa richiesta dell’interessato (si ritiene anche per il tramite del difensore), non potendosi ipotizzare attivazioni d’ufficio del Giudice che emette il provvedimento, né a maggior ragione della cancelleria, alla quale la norma attribuisce la competenza in merito al rilascio dell’annotazione.

Dal tenore letterale della norma non sembra neppure ipotizzabile alcun preventivo vaglio da parte dell’autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento, sulla fondatezza dell’istanza, come invece accade per la richiesta di oscuramento di cui all’art. 52, c. 1, del Codice della Privacy.

La scelta di riservare la competenza alla cancelleria se da una parte risponde a esigenze di celerità tipiche dell’istituto, dall’altra non tiene conto di situazioni particolari di non immediata definizione: si pensi al caso di sentenze con plurimi capi di imputazione che abbiano assolto soltanto su alcuni e condannato su altri; in tali ultimi casi ci si domanda come debba comportarsi la cancelleria di fronte a un’istanza di inibizione, apparendo difficilmente ipotizzabile il rilascio di un’annotazione nei termini prescritti dalla norma.

L’art. 64-ter disp. att. c.p.p., inoltre, non specifica se esiste un termine per presentare l’istanza. Il fatto che si parli di provvedimento già emesso sembra escludere che si possa presentare in udienza prima della decisione, contrariamente a quanto invece previsto dall’art. 52, c. 1, Codice della Privacy; tuttavia, la finalità preventiva del divieto di indicizzazione, induce a ritenere che la richiesta da parte dell’interessato debba essere presentata in tempi contenuti, quantomeno fino a quando il provvedimento è ancora nella materiale disponibilità della cancelleria e non è stato oggetto di comunicazione all’esterno.

Stando al tenore letterale della norma, il divieto di indicizzazione riguarda esclusivamente «il provvedimento», vale a dire la sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere o il decreto (o ordinanza) di archiviazione.

Se si può comprendere la scelta del legislatore di garantire una sorta di anonimato anche sui provvedimenti positivi, dal momento che, come visto in premessa, il solo fatto di essere stato indagato può comportare un pregiudizio reputazionale, indipendentemente dall’esito assolutorio[37]; lascia alquanto perplessi la scelta di limitare l’inibitoria al solo provvedimento. In relazione a tale aspetto, il Garante della Privacy aveva suggerito di estendere la portata dell’attestazione preventiva ai contenuti e non solo al provvedimento in quanto tale, per far sì che tale forma di tutela potesse avere reale capacità innovativa.

In effetti, riflettendo su una possibile applicazione pratica dell’istituto, riteniamo che il divieto di indicizzazione del solo provvedimento non appaia realmente idoneo a tutelare il diritto alla riservatezza dell’ex imputato o ex indagato: difficilmente si assiste infatti alla diffusione del provvedimento in quanto tale, se non in siti istituzionali o su banche dati specialistiche, sulle quali tendenzialmente non si forma l’opinione pubblica. In tale contesto, l’oscuramento già previsto dall’art. 52, c. 1, del Codice della Privacy rimane comunque uno strumento più efficace nella tutela della riservatezza rispetto all’inibitoria, che rende possibile reperire il provvedimento, con tutti i dati in esso contenuti, a partire da ricerche formulate diversamente.

La prassi rivela inoltre che i maggiori danni reputazionali derivano dalla narrazione mediatica della vicenda giudiziaria e non certo dalla pubblicazione del provvedimento in sé. Motivo per il quale sarebbe stato opportuno estendere l’inibitoria, come sollecitato dal Garante, ai dati relativi al procedimento penale, così come previsto per la deindicizzazione.

In accoglimento della richiesta presentata dall’interessato, la cancelleria rilascia, come evidenziato in premessa, la seguente annotazione «ai sensi e nei limiti dell’art. 17 del regolamento (UE) 2016/679 […], è preclusa l’indicizzazione del presente provvedimento rispetto a ricerche condotte sulla rete internet a partire dal nominativo dell’istante». Si tratta di una formulazione piuttosto ambigua: infatti, se la locuzione «è preclusa» induce a ipotizzare il carattere perentorio del divieto, il richiamo «ai sensi e nei limiti» dell’art. 17 del regolamento lascia desumere una discrezionalità in capo al gestore del motore di ricerca nel non dare seguito all’annotazione, opponendo una delle plurime ragioni in base alle quali il trattamento di quei dati è da ritenere necessario (es: esercizio del diritto di informazione, adempimento di un obbligo giuridico, motivo di interesse pubblico).

Sul punto il Garante della Privacy aveva evidenziato che il richiamo dell’art. 17 del regolamento nella sua interezza, oltre ad apparire poco compatibile con una misura di carattere inibitorio, «sembra radicare, in capo al titolare del trattamento (o, in caso di sua inerzia, al Garante o all’autorità giudiziaria eventualmente aditi) un margine di discrezionalità valutativa in ordine all’inibitoria che contrasta con la ratio della norma, volta a precostituire un titolo (in questo caso insindacabile) per la sottrazione del provvedimento all’indicizzazione»[38]. In tal senso, invitava dunque il legislatore a valutare l’opportunità di espungere il riferimento a tale disposizione, nell’ambito della formulazione prescritta per l’attestazione preventiva. Tale monito è rimasto inosservato (cfr. Parere preventivo Garante Privacy).

In merito alla fase successiva al rilascio dell’attestazione, dal dato testuale non si evince cosa debba essere fatto dalla parte. Visto il carattere preventivo dell’istituto, quello che ci si può immaginare è che qualsiasi gestore del sito che voglia pubblicare il provvedimento dovrà astenersi dal farlo nel rispetto dell’annotazione. Non è invece plausibile ipotizzare un’attivazione da parte del singolo che di fatto, trasmettendo il provvedimento con la relativa annotazione, finirebbe comunque per divulgarlo.

La disciplina in esame non prevede rimedi specifici per un’eventuale inottemperanza o ritardo della cancelleria nel rilascio dell’attestazione, né chiarisce quale sia l’iter da seguire qualora il motore di ricerca non si adegui alla preclusione e indicizzi il provvedimento a partire dal nome dell’interessato. Certo è che, in tale ultimo caso, rimarrebbe attivabile il rimedio della deindicizzazione.

  • La deindicizzazione

La tutela di cui all’art. 64-ter, c. 3, disp. att. c.p.p., si traduce invece in un’attestazione della idoneità del titolo ad ottenere la deindicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell’istante. Si tratta di una forma di tutela successiva, utilizzabile dal singolo interessato una volta che l’indicizzazione è già avvenuta.

Come chiarito nei paragrafi che precedono, la deindicizzazione non comporta una cancellazione totale della notizia, ma rende semplicemente più difficoltoso il reperimento della stessa. Di fatto digitando il nome della persona non verranno più fuori le notizie riguardanti i procedimenti penali a suo carico che si sono conclusi positivamente.

Anche in questa ipotesi, la competenza è della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento che, di fronte alla richiesta dell’interessato e in presenza dei presupposti, rilascerà l’annotazione senza alcun vaglio sul merito dell’istanza.

Non sono stabiliti termini, il che fa ritenere che non vi sia alcuna decadenza.

Una volta ottenuta l’attestazione da parte della cancelleria, l’interessato dovrà rivolgersi direttamente al motore di ricerca per richiedere la sottrazione dell’indicizzazione dei contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal suo nominativo.

Anche in tal caso l’annotazione richiama «ai sensi e nei limiti» l’art. 17 del regolamento. Su quest’ultimo aspetto, la relazione illustrativa chiarisce che «il rinvio all’art. 17 del regolamento senza ulteriori specificazioni appare in grado di meglio evocare – in modo recettizio – l’istituto del diritto all’oblio nella sua interezza, anche a fronte di future modifiche della disciplina U.E.»[39].

A differenza delle considerazioni relative al divieto di indicizzazione, nel caso di specie, la soluzione è stata ritenuta dal Garante «coerente, del resto, con la tassonomia dei vari interessi giuridici suscettibili di venire in rilievo nelle fattispecie concrete e […] conforme al vincolo al rispetto della disciplina di protezione dati contenuto nel criterio di delega»[40].

Dalla scelta effettuata per un rinvio mobile, anziché fisso, si desume che si tratta di una presunzione relativa di fondatezza dell’istanza e non assoluta e che pertanto rimane un margine di discrezionalità in capo al gestore del motore di ricerca di dar seguito alla deindicizzazione; in secondo luogo è ipotizzabile che, ai fini di un bilanciamento in concreto, rimanga impregiudicata, in caso di mancato adempimento da parte del motore di ricerca, la facoltà dell’interessato di adire il Garante della Privacy.

 

  1. Conclusioni

 

Da quanto sinora osservato, risulta chiaro l’intento del legislatore di recepire il favor della giurisprudenza, soprattutto di carattere sovranazionale, rispetto all’istituto della deindicizzazione. Si tratta di un’operazione sicuramente importante dal punto di vista simbolico. Così come appare indiscutibilmente innovativa l’introduzione di una tutela di carattere preventivo, azionabile prima che il soggetto sia stato esposto agli effetti distorsivi della giustizia mediatica.

Tuttavia, la formulazione della norma – sia per quel che dice, ma anche e soprattutto per quel che tace – presenta diverse criticità che ci inducono a dubitare dell’effettiva capacità di preservare il diritto all’oblio digitale degli imputati e delle persone sottoposte alle indagini.

Con riferimento al divieto di indicizzazione, come già evidenziato, la scelta di limitare l’oggetto della tutela al solo provvedimento e di stabilire un rinvio mobile all’art. 17 del regolamento, si è di fatto tradotta in un importante depotenziamento dell’istituto. In tal senso non ci paiono ipotizzabili nella prassi reali effetti dirimenti, o comunque più incisivi di quelli sinora prodotti dall’istituto dell’oscuramento di cui all’art. 52, c. 1, Codice della Privacy.

A ciò si aggiunga che la mancanza di chiare indicazioni in merito ad eventuali termini per la presentazione della richiesta, alla procedura da seguire una volta ottenuta l’annotazione, e ai rimedi nelle ipotesi di inottemperanza della cancelleria, anche in caso di sentenze parzialmente assolutorie, crea allo stato una grande senso di incertezza sull’applicazione dell’istituto e, conseguentemente, sulla sua efficacia nel concreto.

Intervistato sul punto, l’onorevole Costa, fautore dell’emendamento che ha portato all’introduzione dell’art. 64-ter, ha chiarito che «la legge Cartabia prevede […] la possibilità, insomma, di emanare decreti correttivi o integrativi. Magari può essere quella la sede per avviare una opportuna riflessione sui motori di ricerca»[41].

Riteniamo pertanto auspicabile che il legislatore intervenga sulla norma neo-introdotta, se non per correggerne le storture evidenziate sopra, quantomeno per colmare le lacune procedurali ad oggi presenti.

Con riferimento alla deindicizzazione, è innegabile che l’annotazione possa di fatto tradursi in un titolo rafforzativo delle istanze, che potrebbe facilitarne l’accoglimento da parte del motore di ricerca. Una prassi di questo tipo contribuirebbe indubbiamente a consolidare definitivamente l’orientamento, proveniente dall’Ufficio del Garante della Privacy, secondo cui le pronunce favorevoli costituiscono un valido presupposto normativo per ottenere la deindicizzazione.

Tale efficacia non è tuttavia scevra da criticità: se realmente l’istituto non dovesse trovare applicazione retroattiva, così come da alcuni sinora sostenuto[42], ci si domanda se in relazione ai procedimenti conclusi prima del 30 dicembre 2022, i motori di ricerca saranno più restii ad accogliere le istanze di deindicizzazione non accompagnate dalle annotazioni provenienti dalla cancelleria. Stessa prospettazione potrebbe ipotizzarsi per tutte quelle richieste che, pur avendo ad oggetto procedimenti conclusi a seguito dell’entrata in vigore della Riforma Cartabia, vengono presentate direttamente al motore di ricerca, senza una preventiva istanza ai sensi dell’art. 64-ter disp. att. c.p.p..

In tal caso sarebbe vanificato l’intento del legislatore di riconoscere una tutela su più livelli: l’annotazione finirebbe per porsi come strumento esclusivo, imponendo al singolo di doverla necessariamente richiedere, pur non conoscendo allo stato i tempi di risposta della cancelleria, gli eventuali rimedi azionabili in caso di inerzia della stessa e, soprattutto, non essendo certo dell’accoglimento dell’istanza da parte del motore di ricerca. Rimane infatti, come visto, lo stesso margine di discrezionalità in capo a quest’ultimo che potrebbe ritenere necessario, per tutti i motivi di cui al terzo comma dell’art. 17, mantenere l’indicizzazione dei dati personali dell’interessato.

Anche su tali ultimi aspetti sarebbe stata auspicabile l’approvazione di una disciplina transitoria che prevedesse l’applicazione retroattiva della norma, almeno con riferimento ad una finestra temporale ravvicinata in cui è ipotizzabile che l’interessato non si sia ancora attivato per domandare la deindicizzazione.

In conclusione, alla luce di tutte le considerazioni svolte e in attesa di conoscere l’effettivo impatto dei due istituti nella pratica, riteniamo che la norma non soddisfi appieno l’apprezzabile intento del legislatore di tutelare in sede extra-processuale i diritti di colui che è stato ingiustamente indagato o imputato, con il rischio che rimanga inutiliter data.

 

[1] Così il Presidente del Garante della Privacy, dott. Pasquale Stanzione, nel discorso del Garante in occasione della relazione annuale 2021, consultabile all’indirizzo garanteprivacy.it.

[2] Sul tema dei rapporti tra informazione e processo penale, ex multis, G. Giostra, Riflessi della rappresentazione mediatica sulla giustizia «reale» e sulla giustizia «percepita», in lalegislazionepenale.eu, 17 settembre 2018; G. Caneschi, Processo penale mediatico e presunzione di innocenza: verso un’estensione della garanzia? in Archivio Penale, 3, 2021; F. Palazzo, Note sintetiche sul rapporto tra giustizia penale e informazione giudiziaria, in Diritto Penale Contemporaneo, 3, 2017, 139 ss.; A. Riviezzo, L’ingiusto processo mediatico, in questa Rivista, 3, 2018, 62 ss.; V. Manes, La vittima del processo mediatico: misure di carattere rimediale¸in Diritto Penale Contemporaneo, 3, 2017, 114 ss.

[3] Si vedano i risultati dell’indagine svolta dall’Osservatorio sull’Informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane, raccolti nel volume L’informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, 2016.

[4] G. Giostra, Un catechismo per atei. Una prima lettura del d.lgs n. 188 del 2021, in questa Rivista, 1, 2022, 11 ss.

[5] E. Currao, Diritto all’oblio, stigma penale e cronaca giudiziaria: una memoria indimenticabile, in Diritto Penale Contemporaneo, 6, 2019, 157 ss.

[6] Così l’art. 1, c. 25, della legge delega n. 134 del 2021. All’indomani dell’introduzione dell’art. 64-ter disp. att. c.p.p., l’onorevole Enrico Costa – fautore dell’emendamento – dichiarava: «dal 1° gennaio 2023 sarà vigente la mia proposta sull’oblio per gli assolti […]. Basta innocenti marchiati a vita da indagini finite nel nulla».

[7] V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Bologna, 2022, 131.

[8] Per un’analisi approfondita del d.lgs. n. 188 del2021, si veda C. Melzi d’Eril (a cura di), L’attuazione della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, in questa Rivista, 1, 2022.

[9] Melvin v. Reid, 112 Cal. App. 285, 297 (1931).

[10] Così testualmente la sentenza, ivi, 292, che sottolinea il fatto che la donna, dopo l’assoluzione, «… abandoned her life of shame and became entirely rehabilitated. She then married Bernard Melvin and commenced the duties of caring for their home, and thereafter at all times lived an exemplary, virtuous, honorable and righteous life. She assumed a place in respectable society».

[11] Ibid. In realtà, la Corte di Appello americana parla di diritto alla privacy e diritto alla felicità. Secondo i Giudici, la rievocazione dopo anni di un evento della vita passata della ricorrente «was a direct invasion of her inalienable right to pursue and obtain happiness».

[12] Cass. civ., sez. III, 9 aprile 1998, n. 3679, Il Foro Italiano, 1998, 1833 ss.; sullo stesso tema anche Cass. civ., sez. I, 25 giugno 2004, n. 11864; Cass. civ., sez. III, 5 aprile 2012 n. 5525; Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2013, n. 16111; Cass. civ, sez. I, 24 giugno 2016 n. 13161, in Il Foro Italiano, 9, 2016, 2730 ss., con nota di R. Pardolesi, Diritto all’oblio, cronaca in libertà vigilata e memoria storica a rischio di soppressione.

[13] Norma tuttora vigente seppur modificata dapprima dal d.lgs. n. 101 del 2018 e, più recentemente, dalla l. 205/2021.

[14] Il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica è stato emanato per la prima volta in data 29 luglio 1998 con provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali e poi ribadito con il provvedimento del 29 novembre 2018 della medesima Autorità, sulla scia delle numerose modifiche introdotte dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101. Con riferimento alla normativa di settore, deve essere poi citato il Testo unico dei doveri del giornalista che il Consiglio nazionale dell’ordine ha approvato in data 27 gennaio 2016 e che ha recepito i precedenti documenti deontologici.

[15] Cass. civ., sez. I, ord. 20 marzo 2018, n. 6919, Il Foro Italiano, 2018, 1151 ss.

[16] Cass. civ., sez. un., 22 luglio 2019, n. 19681.

[17] Ibid. La Corte preliminarmente rileva che «quando si parla di riproposizione di una notizia precedentemente divulgata, non si ha a che fare con il diritto di cronaca (che riguarda il racconto di un fatto presente), ma più correttamente di “diritto alla rievocazione storica di quei fatti” che non gode della stessa garanzia costituzionale e che retrocede rispetto al diritto dei singoli […] Con la conseguenza che, se è pur vero che non può essere messa in discussione la scelta editoriale di procedere alla rievocazione storica di fatti ritenuti importanti – espressione della libertà di stampa e di espressione, essa deve svolgersi in forma anonima quando non vi sia un interesse qualificato alla diffusione dei nomi dei protagonisti, per la notorietà degli stessi o per il ruolo pubblico rivestito».

[18] F. Di Ciommo, Quello che il diritto non dice. Internet e oblio, in Danno e responsabilità, 12, 2014, 1101 ss.

[19] Come ha osservato recentemente Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2022, n. 3952: «nel mondo segnato dalla presenza di internet, le notizie sono sempre reperibili a distanza di anni dal verificarsi degli accadimenti che ne hanno imposto o comunque suggerito la prima diffusione».

[20] Cass. civ., sez. III, 5 maggio 2012, n. 5525, in cui la Corte riconosce «il diritto soggettivo dell’individuo a che le informazioni che lo riguardano presenti in un archivio on line siano costantemente contestualizzate e aggiornate, a tutela della fedele rappresentazione dell’identità personale e sociale nel suo dinamico divenire».

[21] G.E. Vigevani, Identità, oblio, informazione e memoria in viaggio da Strasburgo a Lussemburgo, passando per Milano, in federalismi.it, 19 settembre 2014.

[22] CEDU, Biancardi c. Italy, ric. 77419/16 (2021); Hurbain c. Belgium, ric. 57292/16 (2021); M.L. and W.W. c. Germany, ricc. 60798/10 e 6599/10 (2018). Per un’analisi approfondita, si veda M.R. Allegri, Dimenticare, rievocare, rappresentare: dove conduce la via dell’oblio, in questa Rivista, 2, 2022.

[23] Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2022, n. 3952.

[24] CGUE, C-131/12, Costeja (2014).

[25] Così M.R. Allegri, Dimenticare, rievocare, rappresentare: dove conduce la via dell’oblio, cit., 99.

[26] Il gruppo di lavoro europeo indipendente, oggi confluito nel European Data Protection Board.

[27] Consultabili all’indirizzo garanteprivacy.it.

[28] A dire il vero, l’art. 17 ha contenuto più ampio del diritto sancito dalla sentenza Costeja, prevedendo anche il diritto alla cancellazione tout court dei dati personali e avendo quali destinatari tutti i titolari del trattamento e non soltanto il gestore del motore di ricerca. L’art. 17 per quel che qui più interessa, individua, al primo comma i motivi che un interessato può invocare per chiedere la cancellazione (o la deindicizzazione) dei dati e al terzo comma le eccezioni opponibili dal titolare del trattamento. Fra questa rileva soprattutto quella previsto sub a) cioè quando il trattamento dei dati sia necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione.

[29] CGUE, C-136/17, CG et al. V. CNIL (2019).

[30] La Corte chiarisce anzitutto che nel campo di applicazione dell’art. 8, par. 5, nella categoria dei «dati relativi a infrazioni o condanne penali» vanno ricomprese anche le informazioni sull’apertura di inchieste giudiziarie o su indagini penali, a prescindere dall’esistenza di una condanna.

[31] Ibid.

[32] Quanto alla collocazione sistematica, la legge delega prevedeva di incidere sulle disposizioni attuative del codice di procedura penale in materia di comunicazione della sentenza. L’art. 64-ter disp. att. c.p.p. è stato inserito nel capo V “disposizioni relative agli atti”, dopo l’art. 64-bis disp. att. c.p.p. che disciplina la comunicazione degli atti tra differenti giudici o pubblici ministeri. In un’ottica meramente sistematica, si evidenzia che sarebbe stato forse più aderente al criterio di delega l’inserimento della norma nel capo XI recante «disposizioni relative al dibattimento», e in particolare dopo l’art. 154-ter che disciplina le modalità di comunicazione della sentenza penale emessa nei confronti di un lavoratore dipendente di un’amministrazione pubblica. Trattasi infatti dell’unica norma che, nell’ambito delle disposizioni di attuazione, disciplina una forma di comunicazione del provvedimento all’esterno, e non solo tra differenti autorità giudiziarie, e per cui è stabilita un’autonoma competenza della cancellaria del giudice che ha emesso il provvedimento.

[33] In merito al presupposto che legittima l’attivazione del singolo interessato, l’art. 64-ter disp. att. c.p.p. richiama una serie di provvedimenti “favorevoli” quali titoli per richiedere la deindicizzazione o la preclusione dell’indicizzazione che non coincidono con quelli indicati nella legge delega (che si riferiva esclusivamente al decreto di archiviazione e alla sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione). Come emerge dalla Relazione illustrativa, trattasi di una scelta ponderata del legislatore, che ha optato per «una formula armonizzatrice» più estesa poiché «non avrebbe senso, da un lato, includere i decreti ed escludere le ordinanze di archiviazione; dall’altro, includere le sentenze dibattimentali di assoluzione (art. 530) ed escludere quelle dibattimentali di non doversi procedere (artt. 529 e 531), quando le archiviazioni e le sentenze di non luogo a procedere vengono menzionate abbracciando qualunque “formula”».

[34] M. Marini, Oblio, deindicizzazione e processo penale: dal diritto eurounitario alla Riforma Cartabia, in Sistema Penale, 1, 2023, 5 ss.

[35] Si riporta il testo dell’art. 52 del d.lgs n. 196 del 2003 (come modificato dal d.lgs n. 101 del 2018): «1. Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni concernenti la redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado, l’interessato può chiedere per motivi legittimi, con richiesta depositata nella cancelleria o segreteria dell’ufficio che procede prima che sia definito il relativo grado di giudizio, che sia apposta a cura della medesima cancelleria o segreteria, sull’originale della sentenza o del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento. 2. Sulla richiesta di cui al comma 1 provvede in calce con decreto, senza ulteriori formalità, l’autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento. La medesima autorità può disporre d’ufficio che sia apposta l’annotazione di cui al comma 1, a tutela dei diritti o della dignità degli interessati. 3. Nei casi di cui ai commi 1 e 2, all’atto del deposito della sentenza o provvedimento, la cancelleria o segreteria vi appone e sottoscrive anche con timbro la seguente annotazione, recante l’indicazione degli estremi del presente articolo: ‘In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di …’ […]».

[36] Garante della Privacy, Parere sullo schema di decreto legislativo di attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, Roma, 2022.

[37] Si pensi ad esempio alla figura giornalistica dell’”ex-inquisito”, espressione carica di un significato dispregiativo e stigmatizzante.

[38] Ivi, 6.

[39] La Relazione illustrativa chiarisce che «il rinvio vuole garantire il rispetto della disciplina comunitaria, imposto dalla delega (e che) non si è ritenuto opportuno effettuare un rinvio maggiormente specifico, mediante espressa menzione dell’art. 17, comma 1, lett. e) e dell’art. 19 del Regolamento: ciò non perché si ritenga che dette norme non siano applicabili, ma all’opposto perché il rinvio all’art. 17 del Regolamento senza ulteriori specificazioni appare in grado di meglio evocare – in modo recettizio – l’istituto del diritto all’oblio nella sua interezza, anche a fronte di future modifiche della disciplina U.E.», Relazione illustrativa aggiornata al testo definitivo del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, Gazzetta Ufficiale (Serie Generale n. 245 del 19 ottobre 2022 – Suppl. Straordinario n. 5).

[40] Ibid.

[41] Intervista rilasciata da Enrico Costa in giornalettismo.com, 3 gennaio 2023.

[42] Vedi sul punto F. Sarzana, Diritto all’oblio per gli assolti. Ora è (finalmente) in vigore, in ildubbio.news, 2 gennaio 2023.

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