Diritto alla deindicizzazione e notizie false: la Corte di giustizia precisa i confini tra oblio e libertà di espressione

Corte di giustizia, 8 dicembre 2022, C-460/20, TU, RE c. Google

Nell’ambito del bilanciamento che occorre effettuare tra i diritti di cui agli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, da un lato, e quelli di cui all’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali, dall’altro, ai fini dell’esame di una richiesta di deindicizzazione rivolta al gestore di un motore di ricerca e diretta a ottenere l’eliminazione, dall’elenco dei risultati di una ricerca, del link verso un contenuto che include affermazioni che la persona che ha presentato detta richiesta ritiene inesatte, tale deindicizzazione non è subordinata alla condizione che la questione dell’esattezza del contenuto indicizzato sia stata risolta, almeno provvisoriamente, nel quadro di un’azione legale intentata da detta persona contro il fornitore di tale contenuto.

Nell’ambito del bilanciamento che occorre effettuare tra i diritti di cui agli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali, da un lato, e quelli di cui all’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali, dall’altro, ai fini dell’esame di una richiesta di deindicizzazione rivolta al gestore di un motore di ricerca e diretta ad ottenere l’eliminazione, dai risultati di una ricerca di immagini effettuata a partire dal nome di una persona fisica, delle fotografie visualizzate sotto forma di miniature raffiguranti tale persona, occorre tener conto del valore informativo di tali fotografie indipendentemente dal contesto della loro pubblicazione nella pagina Internet da cui sono state tratte, prendendo però in considerazione qualsiasi elemento testuale che accompagna direttamente la visualizzazione di tali fotografie nei risultati della ricerca e che può apportare chiarimenti riguardo al loro valore informativo.

 

Sommario: 1. Introduzione. Un nuovo capitolo del filone giurisprudenziale europeo sulla fisionomia del diritto alla deindicizzazione. – 2. I fatti di causa e i quesiti in via pregiudiziale. – 3. La decisione della Corte. – 4. Lo status quo e le difficoltà connesse all’enforcement privato del diritto alla deindicizzazione. – 5. Considerazioni conclusive

 

  1. Un nuovo capitolo del filone giurisprudenziale europeo sulla fisionomia del diritto alla deindicizzazione

Con la sentenza in commento la Corte di giustizia è tornata, a distanza di alcuni anni, a pronunciarsi su un tema che, come pochi altri, affonda le sue radici nella elaborazione giurisprudenziale: lo statuto giuridico del diritto alla deindicizzazione, declinazione del diritto all’oblio o alla cancellazione, secondo la terminologia normativa del regolamento (UE) 2016/679 (“GDPR”). Sebbene il fondamento normativo di questo istituto sia stato individuato dalla stessa giurisprudenza nelle disposizioni della direttiva 95/46/CE, prima che il GDPR lo rendesse ancora più esplicito, è innegabile che la fisionomia del diritto alla deindicizzazione in ambito digitale sia stata plasmata soprattutto grazie al contributo della Corte di giustizia, non a caso ritenuta protagonista di una stagione di “attivismo”[1] che non le ha risparmiato alcune critiche[2]. Se nelle precedenti “puntate” la Corte si era focalizzata sul riconoscimento di un diritto azionabile nei confronti dei motori di ricerca[3] e sulla sua estensione territoriale[4] (tuttora controversa[5]), in quest’ultimo capitolo la Corte si è soffermata più puntualmente su un profilo che era stato denunciato come carente nella precedente giurisprudenza, ossia il rapporto con la libertà di espressione (già additato invero come nodo critico del bilanciamento affidato, in prima battuta, ai motori di ricerca)[6].

L’occasione per questa nuova pronuncia è stata offerta da una domanda in via pregiudiziale sollevata dalla Corte federale di giustizia tedesca che si appuntava proprio su questo delicato crinale finora non affrontato compiutamente dalla Corte di giustizia. Il procedimento principale verteva sulla richiesta di due soggetti, avanzata nei confronti di Google, di eliminare il link che, nella ricerca per nome, riconnetteva ad articoli di carattere informativo da loro ritenuti inesatti, e quindi diffamanti. Dinanzi al diniego opposto dal motore di ricerca, i ricorrenti percorrevano tutti i gradi di giudizio interni; avendo ottenuto sempre risposta negativa, giungevano alla Corte federale di giustizia, dalla quale è scaturito il rinvio pregiudiziale. La Corte di giustizia, operando il complesso bilanciamento tra diritto all’informazione e diritto alla protezione dei dati personali, ha affermato che, per evitare di sacrificare in toto un diritto a favore di un altro, laddove si adducesse la falsità o l’inesattezza di dati online, occorre che sia l’interessato a fornire una prova della mancata precisione e correttezza dei dati. Tale onere probatorio si deve sostanziare, secondo la Corte, nella dimostrazione della “manifesta inesattezza”, adducendo le prove che “ragionevolmente” si ritiene possa portare[7]. Spetterà in primis al motore di ricerca il gravoso ma ampissimo onere di decidere se un contenuto sia meritevole o meno di deindicizzazione, in rapporto alla libertà di espressione e informazione. La Corte ha così tracciato le coordinate di un bilanciamento finora rimasto inesplorato[8], con un apporto importante ma non privo di criticità.

 

  1. I fatti di causa e i quesiti in via pregiudiziale

T.U. e R.E., coppia di imprenditori tedeschi, agivano in giudizio nel 2015 lamentando l’avvenuta lesione della loro reputazione, a loro dire imputabile a Google, nella sua qualità di fornitore di un servizio di motore di ricerca. La società statunitense, secondo i ricorrenti, sarebbe stata responsabile del danno così arrecato per essersi opposta alla loro richiesta di deindicizzare i link verso una serie di articoli che si esprimevano negativamente sul loro conto. Le pubblicazioni in questione erano opera del sito web “g-net”, gestito dalla società statunitense G LLC, che dichiaratamente si occupa di «contribuire in modo durevole, attraverso un’informazione attiva e una costante trasparenza, alla prevenzione della frode sul piano economico e sociale»[9]. In questo senso si orientavano anche le tre pubblicazioni oggetto della controversia, volte a presentare «in modo critico il modello di investimento attuato»[10] dalle società amministrate dai ricorrenti. In particolare, il secondo dei due articoli messi in rete era corredato da alcuni scatti in miniatura (thumbnails) che ritraevano i due imprenditori intenti in pose poco sobrie, in cui facevano sfoggio di un certo sfarzo, divisi tra elicotteri, automobili di lusso e aeroplani. I due assumevano, senza presentare elementi di prova a sostegno di tale tesi[11], che nei tre articoli si ravvisassero «informazioni inesatte ed opinioni diffamatorie» sul loro conto, domandandone la rimozione dai risultati di ricerca generati di Google, in virtù del loro diritto all’oblio. La richiesta non otteneva però alcun seguito poiché Google, innanzitutto, si appellava al «contesto professionale[12] in cui si inserivano gli articoli e le fotografie controverse nel procedimento principale» (§21), facendo leva sulla natura informativa del sito riportante i dati in questione. Essendo contenuti di carattere informativo, la loro deindicizzazione avrebbe potuto ledere il diritto degli utenti ad accedervi e a essere così informati. Ma non solo: Google sosteneva anche e soprattutto la propria mancata conoscenza in ordine alla «pretesa inesattezza delle informazioni» ivi contenute, in quanto non dovuta e comunque non agevole[13]. Stante il rifiuto del motore di ricerca, nel 2015 T.U. e R.E. adivano il Landgericht Köln, il Tribunale del Land tedesco di Colonia, chiedendo che venisse imposto al motore di ricerca di cancellare dai propri elenchi nei risultati di ricerca i link verso gli articoli controversi, ma anche di non rendere più possibile la visualizzazione delle miniature in cui essi erano ritratti, visibili nella ricerca per loro nome. Tuttavia, nel 2017 il Tribunale si pronunciava negativamente, respingendo il ricorso. Gli imprenditori interponevano quindi appello avverso la sentenza di primo grado, ribadendo le loro richieste all’Oberlandesgericht Köln, il Tribunale superiore del Land, che però con sentenza dell’8 novembre 2018 respingeva a sua volta la domanda. Il giudice d’appello sottolineava come l’onere della prova circa l’esattezza del fatto asserito incombesse in capo al soggetto richiedente la deindicizzazione. Non avendo essi presentato, nel caso di specie, alcuna dimostrazione circa l’inesattezza dei fatti riferiti al loro riguardo, Google sarebbe stata da considerarsi impossibilitata a effettuare una precisa valutazione della veridicità dei contenuti oggetto degli articoli. Per questo motivo, il motore di ricerca non potrebbe ritenersi obbligato a procedere alla loro deindicizzazione. I ricorrenti nel procedimento principale proponevano allora ricorso per Cassazione (Revision) alla Corte federale di giustizia tedesca (Bundesgerichtshof). Quest’ultima riteneva però necessario domandare alla Corte di giustizia la corretta interpretazione del diritto dell’Unione rilevante. Segnatamente, la Corte federale domandava alla Corte di Giustizia l’esatta interpretazione da attribuire all’art. 17, par. 3, lett. a), del GDPR, ma anche degli artt. 12, lett. b), e 14, lett. a), della previgente direttiva 95/46/CE[14], letti alla luce degli artt. 7, 8, 11 e 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il giudice del rinvio ha così chiesto alla Corte di giustizia di pronunciarsi sull’esegesi di queste disposizioni per la risoluzione di due questioni: in primo luogo, quella concernente l’attribuzione dell’onere probatorio rispetto alla probanda inesattezza delle informazioni riportate negli articoli di cui si chiedeva la deindicizzazione. «Si porrebbe quindi la questione» – secondo la Corte federale tedesca – «se spettasse loro (i ricorrenti) provare l’asserita inesattezza di tali affermazioni oppure, quantomeno, dimostrare che tale inesattezza è in una certa misura evidente o se, invece, Google avrebbe dovuto o presumere l’esattezza delle affermazioni dei ricorrenti nel procedimento principale oppure cercare di chiarire essa stessa i fatti»[15]. Secondo il Bundesgerichtshof, non potrebbero dirsi egualmente e correttamente bilanciati i diritti fondamentali concorrenti se l’onere della prova finisse per gravare esclusivamente o sugli attori o sui convenuti. La Corte federale proponeva di «adottare una soluzione diretta a imporre all’interessato di risolvere almeno provvisoriamente la questione dell’esattezza del contenuto indicizzato facendo valere in giudizio il suo diritto nei confronti del fornitore di contenuti»[16]. In altri termini, secondo il giudice del procedimento principale, se gli interessati fossero provvisti di un titolo giudiziario, intimante la deindicizzazione dei contenuti controversi, la questione circa l’esattezza o meno delle informazioni ivi riportate potrebbe forse dirsi risolta, almeno temporaneamente.

In secondo luogo, il giudice del rinvio ha chiesto alla Corte di giustizia di esprimersi sulla questione concernente la deindicizzazione delle fotografie in miniatura ritraenti i ricorrenti. Nello specifico, nell’elenco dei risultati di una ricerca per immagini vengono visualizzate soltanto le miniature, le cosiddette “thumbnails”, difettando in toto gli elementi del contesto nel quale tale pubblicazione si inserisce. La Corte federale ha quindi rilevato che tale circostanza renderebbe la visione delle fotografie priva di ragioni di tutela, poiché, essendo le miniature private del contesto di riferimento, esse non rientrerebbero nell’alveo della tutela del diritto d’informazione. Se però si considerasse il contesto iniziale di pubblicazione, quelle immagini assumerebbero un ruolo fondamentale, contribuendo a corroborare il contenuto che gli articoli si proponevano di trasmettere. Per tali ragioni, il giudice del rinvio ha posto alla Corte di giustizia il secondo quesito, volto a comprendere se, nell’ambito di valutazione dell’ammissibilità della domanda di deindicizzazione delle fotografie in miniatura, si debba tener conto “in modo determinante” del contesto originario della pubblicazione. Tali questioni hanno consentito alla Corte di giustizia di esprimersi nei termini già anticipati, anche a proposito del ruolo effettivo del gestore di un motore di ricerca nell’ambito delle richieste di deindicizzazione che, come nel caso di specie, si fondano sulla presunta inesattezza delle informazioni oggetto d’indicizzazione.

 

  1. La decisione della Corte

Con la sentenza dell’8 dicembre 2022, la Corte di giustizia ha dato risposta ai quesiti sottoposti in via pregiudiziale, fornendo un’interpretazione sistematica delle disposizioni rilevanti. Il “BGH”, la Corte federale di giustizia tedesca, si era interrogata sull’esatta portata dell’art. 17, par. 3, lett. a) del GDPR, chiedendo in particolare alla Corte di giustizia se tale norma fosse da intendersi nel senso che la deindicizzazione, richiesta a un motore di ricerca, sia «subordinata alla condizione che la questione dell’accuratezza del contenuto indicizzato sia stata risolta, almeno provvisoriamente, in un’azione legale intentata da tale persona contro il fornitore di tale contenuto, laddove esista una ragionevole possibilità di ottenere una tutela giudiziaria di questo tipo»[17]. La Corte ha evidenziato che l’art. 17, al par. 3, implica espressamente la prevalenza, a certe condizioni, del diritto all’informazione sul diritto alla protezione dei dati personali, che non è quindi un diritto assoluto. La premessa è doverosa, perché solo in virtù di tale lettura del rapporto tra questi diritti è possibile comprendere il ruolo del gestore del motore di ricerca che, dinanzi a una domanda di deindicizzazione, dovrà verificare se quel link sia «necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di informazione degli utenti di Internet potenzialmente interessati»[18]. La Corte ha quindi fatto riferimento a una serie di criteri[19], stabiliti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo[20], che devono essere presi in considerazione per effettuare il necessario bilanciamento tra diritto all’informazione e diritto alla privacy. In particolare, la Corte ha richiamato, inter alia, fattori quali: il contributo a un dibattito di interesse generale delle informazioni di cui si chieda la deindicizzazione, la notorietà della persona oggetto di esse, ma anche la loro veridicità. La Corte di giustizia, nel caso di specie, ha ritenuto che il diritto all’informazione possa prevalere sul diritto alla protezione dei dati personali, soprattutto laddove l’interessato sia un personaggio noto, ma ciò solo qualora le informazioni di cui si richiede l’oblio siano corrette. Qualora esse si rivelino inesatte, è il diritto alla tutela della vita privata e dei dati personali a dover prevalere. «In un’ipotesi del genere, infatti − scrive la Corte, ricalcando il ragionamento dell’Avvocato Generale Pitruzzella[21] − il diritto di informazione e il diritto di essere informati non possono essere presi in considerazione, poiché essi non possono includere il diritto di diffondere informazioni di tal genere»[22].

Tuttavia, stante la richiesta di deindicizzazione fondata sulla presunta inesattezza delle informazioni riportate negli articoli oggetto della controversia, la Corte ha dovuto esprimersi sia sull’an che sul quomodo dell’onere della prova relativo alla inesattezza stessa. A tal proposito, confermando l’orientamento dell’Avvocato Generale Pitruzzella, la Corte ha affermato che spetta all’interessato dimostrare «l’inesattezza manifesta delle informazioni»: invero, l’Avvocato Generale, nelle sue Conclusioni[23], aveva affermato che «un privato ha, in base al RGDP, il diritto di chiedere la deindicizzazione di una pagina web contenente dati che lo riguardano e che egli considera non veritieri. L’esercizio di tale diritto comporta tuttavia, a mio avviso, l’onere di indicare gli elementi su cui si basa la richiesta e di fornire un principio di prova della falsità dei contenuti di cui si richiede la deindicizzazione, ove ciò non risulti, in particolare in relazione alla natura delle informazioni di cui trattasi, manifestamente impossibile o eccessivamente difficile».

Infatti, al fine di evitare che su un soggetto gravi un onere eccessivo, ciò che la Corte di giustizia ritiene l’interessato debba fare «è fornire gli elementi di prova che, tenuto conto delle circostanze del caso di specie» si possa «ragionevolmente richiedere a quest’ultima di ricercare, al fine di dimostrare tale inesattezza manifesta»[24].

Ciò significa – ha precisato la Corte – che all’interessato che richiede la deindicizzazione non può essere richiesto di produrre sin dalla fase precontenziosa una decisione giurisdizionale a suo favore circa l’inesattezza dei contenuti di cui si chiede la deindicizzazione. Allo stesso tempo, non potrebbe essere richiesto al gestore del motore di ricerca di indagare sui fatti, organizzando un contraddittorio e fornendo elementi probatori sulla loro esattezza: anche in questo caso ci si troverebbe dinanzi a un onere eccessivo, gravante su un solo soggetto (ancorché di natura imprenditoriale)[25]. Laddove l’interessato presenti tali elementi, il gestore del motore di ricerca dovrà dar seguito alla richiesta di deindicizzazione, che non può dirsi dunque subordinata alla risoluzione definitiva della questione “veridicità” del contenuto indicizzato.

 Al contrario, nel caso in cui l’inesattezza delle informazioni non possa considerarsi “manifesta”, alla luce degli elementi di prova forniti dall’interessato, il gestore del motore di ricerca non potrà dirsi tenuto ad accogliere la richiesta di deindicizzazione (chiaramente, se non vi sia una decisione giudiziaria in merito).

La seconda questione, invece, interrogava la Corte sull’opportunità di tener conto (o meno) del contesto di pubblicazione delle miniature ritraenti i ricorrenti nell’ottica del bilanciamento tra diritti confliggenti. Occorre prendere in considerazione soltanto il valore informativo delle miniature in quanto tali, nel contesto neutro dell’elenco dei risultati, oppure occorre tener altresì conto del contesto, non emergente dalla sola visualizzazione delle miniature, nel quale la pubblicazione delle immagini è avvenuta? Secondo l’Avvocato Generale, per rispondere a tale interrogativo è fondamentale che siano correttamente identificati oggetto e natura del trattamento, nonché oggetto e natura della domanda di cancellazione. Infatti, la Corte ha ricordato che anche l’attività consistente nel rendere visualizzabili nei risultati di ricerca fotografie ritraenti persone fisiche, ancorché in miniatura, costituisce un trattamento di dati personali, poiché l’immagine rappresenta un’estrinsecazione dell’identità della persona.

 Nel giudizio principale i ricorrenti avevano chiesto la deindicizzazione di quattro fotografie in miniatura che li raffiguravano: «tale domanda non ha ad oggetto né le informazioni contenute nel testo dell’articolo né le immagini nella loro funzione di supporto visivo e descrittivo di tale testo»[26], secondo l’Avvocato Generale Pitruzzella. Il motore di ricerca, rendendo visibili quelle miniature nel proprio elenco di ricerca, a prescindere dal contesto nel quale sono inserite, spoglia le foto dell’eventuale valore informativo o descrittivo che era stato assegnato loro inizialmente dal sito-editore. In questo senso, secondo l’Avvocato Generale si sarebbe dinanzi a un trattamento di dati personali peculiare, in cui il motore di ricerca, avendo estrapolato le immagini dal contesto d’origine, non si limita a indicizzare un contenuto pubblicato da un sito terzo, ma pare divenire esso stesso “content creator[27]. Pertanto, l’Avvocato Generale ha ritenuto che, nell’ambito del bilanciamento dei diritti in esame, debba operarsi un distinguo: nel caso in cui il soggetto interessato chieda la rimozione, dai risultati di ricerca per immagini, di fotografie che ritraggano la propria persona, il motore di ricerca dovrà tener conto soltanto del valore informativo delle foto tout court; laddove, invece, domandi la deindicizzazione di miniature nel contesto del contenuto pubblicato da una pagina online, dovrebbe essere posto ad oggetto del bilanciamento il valore informativo che esse rivestono nel contesto dell’articolo.

La Corte di giustizia, dopo aver ricordato che la visualizzazione di fotografie può rappresentare un’ingerenza nei diritti alla tutela della vita privata e dei dati personali persino superiore a quella potenzialmente operata da un testo scritto, ha recepito tale orientamento: «Si impone un bilanciamento distinto dei diritti e degli interessi concorrenti a seconda che siano in discussione, da un lato, articoli provvisti di fotografie pubblicate dall’editore della pagina Internet […] inserite nel loro contesto di origine (…) e, dall’altro, fotografie visualizzate, sotto forma di miniature nell’elenco dei risultati, ad opera del gestore del motore di ricerca al di fuori del contesto Internet in cui esse sono state pubblicate»[28]. Più in generale, la Corte ha stabilito che il gestore del motore di ricerca, nel caso di richiesta di deindicizzazione, debba valutare se la visualizzazione di dette immagini rappresenti un’estrinsecazione del diritto alla libertà di informazione, e sia quindi necessaria per il suo godimento da parte degli utenti potenzialmente interessati ad avervi accesso. Nel bilanciamento di tali diritti, il search engine dovrà vagliare la presenza di un elemento in particolare, dalla Corte definito “fondamentale”: il contributo a un dibattito di interesse generale. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che nel caso di specie le fotografie, poste al di fuori del contesto di riferimento, possedessero di per sé «solo uno scarso valore informativo», apparendo unicamente sotto forma di miniature nell’elenco dei risultati di ricerca. Pertanto, la Corte di giustizia ha risposto alla seconda questione pregiudiziale sostenendo che, nel bilanciamento operato dal motore di ricerca, occorre tener conto del «valore informativo di tali fotografie indipendentemente dal contesto della loro pubblicazione, prendendo però in considerazione qualsiasi elemento testuale che accompagna direttamente la visualizzazione», potendo questo fungere da ausilio nella valutazione circa la sussistenza di un carattere informativo.

 

  1. Lo status quo e le difficoltà connesse all’enforcement privato del diritto alla deindicizzazione

Con questa sentenza, la Corte di giustizia si è pronunciata sul complesso rapporto tra diritto all’oblio, libertà di espressione e di informazione e “verità” in rete. Il rimedio della deindicizzazione, infatti, non eliminando il dato in sé, ma limitandosi a oscurare dall’elenco di ricerca il link che vi conduca, dovrebbe contemperare la necessità di tutelare la reputazione individuale e la libera informazione. Questa la ratio nel ragionamento dei giudici della Corte di giustizia dell’Unione europea, che con la celebre sentenza Google Spain hanno dato i natali proprio al diritto all’oblio. Con il caso in parola la Corte aveva di fatto sancito la prevalenza “quasi tout court” del diritto alla cancellazione dei dati sulla libertà di informazione: può dirsi così iniziata una cospicua giurisprudenza pressoché unanime a favore del diritto a essere dimenticati. L’unica eccezione menzionata dalla Corte poteva riferirsi alla notorietà del soggetto richiedente la deindicizzazione: in quel caso, in virtù della natura di “personaggio pubblico” dell’interessato, le informazioni sul suo conto avrebbero avuto motivo di permanere[29]. Come ha ricordato anche l’Avvocato Generale Pitruzzella[30], anche nella “sentenza GC”[31] la Corte ha affermato che «sebbene i diritti della persona interessata tutelati dagli articoli 7 e 8 della Carta prevalgano, di norma, sulla libertà di informazione degli utenti di Internet, tale equilibrio può nondimeno dipendere, in casi particolari, dalla natura dell’informazione di cui trattasi e dal suo carattere sensibile per la vita privata della persona interessata, nonché dall’interesse del pubblico a disporre di tale informazione, il quale può variare, in particolare, a seconda del ruolo che tale persona riveste nella vita pubblica».

Una tale qualifica diviene allora essenziale nel bilanciamento tra i due diritti oggetto di trattazione: il ruolo ricoperto dalla persona nella vita pubblica – lo si è visto – era stato indicato dalla Corte di giustizia quale requisito in grado di giustificare l’ingerenza nei diritti fondamentali della persona, in virtù di un «preponderante interesse del pubblico» ad avere accesso all’informazione[32]. Infatti, è vero che appare fondamentale tutelare l’identità della persona, declinata rispetto alla sua condizione in un determinato momento storico, perché un individuo non può dirsi solo una mera “sintesi statica” di ciò che è stato, ma di come muta col tempo[33]; ma è vero altresì che laddove tale soggetto rivesta, o abbia rivestito, un ruolo pubblico, quel diritto dovrà necessariamente subire una compressione, in ragione dell’altrettanto fondamentale interesse della collettività ad avere contezza delle informazioni che riguardano la vita pubblica.

Il tema dell’importanza della storicizzazione e della contestualizzazione può dirsi centrale, sia per il verosimile interesse del singolo individuo di essere ricordato per ciò che è, e non necessariamente per ciò che è stato, sia per il diritto a essere informati di cui godono i cittadini tutti, perché «una notizia non aggiornata non è una notizia vera e una verità non aggiornata non è una verità»[34]. Tale claim gode di un pregevole supporto giurisprudenziale: la Corte di Cassazione italiana[35], infatti, più volte pronunciatasi in materia di diritto all’oblio, ha spesso fatto leva sulla necessità di “contestualizzazione” delle informazioni, e quindi di aggiornamento delle stesse, da parte del titolare del sito. Le notizie diffuse in rete non possono dirsi paragonabili a quelle presenti sulla carta stampata, se non altro in ordine alla loro permanenza in circolazione: per tale ragione, la giurisprudenza italiana ha definito necessario un intervento volto ad “attualizzare” i dati online da parte del gestore di un sito.

Dal 2016, il diritto all’oblio, e più in generale il diritto di libertà informatica[36], ha ricevuto anche una più chiara e opportuna codificazione nell’art. 17 del GDPR, che sancisce sì il diritto alla cancellazione dei dati personali, ma prevede espressamente anche una serie di fattispecie che fungono da limiti dello stesso in nome della tutela di interessi concorrenti. Non si tratta, quindi, di un diritto ad nutum[37]: non era da considerarsi tale neppure dai suoi albori processuali; ma con una più puntuale previsione in materia, di carattere normativo, i suoi confini possono essere evinti con maggiore sicurezza.

Un tema caldo dei giorni nostri, che parrebbe far tornare in modo dirompente, anche in questo caso, l’interrogativo concernente il ruolo svolto dai motori di ricerca, specie nel mondo dell’informazione. Ciò in virtù del sempre più ingente potere di cui godono i search engine, potendo, di fatto, incidere anche indirettamente sui diritti fondamentali degli “internauti”, cittadini prima che utenti. Nella opinion n. 148 del 2008[38], il Gruppo di lavoro Articolo 29 (WP29)[39] considerava i motori di ricerca “semplici” strumenti della società dell’informazione, sostenendo che l’attività di indicizzazione che li caratterizza fosse da interpretarsi come attività di messa a disposizione degli utenti di informazioni: a tutti gli effetti una sorta di intermediario.

In realtà, come afferma anche l’Avvocato Generale Pitruzzella nelle conclusioni rese nella causa in commento, un motore di ricerca non si limita ad ospitare i contenuti prodotti da altri nella rete, ma ha «un ruolo attivo nella diffusione dell’informazione», fungendo da vero e proprio gatekeeper della stessa[40].
Infatti, i provider possono vantare una funzione molto più rilevante, essendo stato loro implicitamente attribuito il compito di verificare, caso per caso, l’eventuale prevalenza del diritto alla protezione dei dati personali sulla libertà di informazione[41]. In sostanza, spetta oggi ai motori di ricerca la funzione di bilanciamento e ponderazione in concreto di diritti e interessi fondamentali, quali quelli in questione. Sia che una notizia debba essere eliminata sia che essa debba permanere online, sarà il motore di ricerca a stabilirlo in concreto. “Il grande passo” compiuto dalla Corte di giustizia nella sentenza Google Spain è stato proprio quello di rendere gli operatori statunitensi «gli esecutori, possibilmente anche interpreti, di una sensibilità europea sul rapporto tra due diritti»[42]. Si può parlare, in tal proposito, di “private enforcement”: con tale espressione si fa riferimento alla crescente ondata di privatizzazione cui si assiste oggi, nelle decisioni che impattano sul godimento di diritti fondamentali[43].

Ciò implica, tra l’altro: da un lato, che si attribuisca ai motori di ricerca un ruolo quasi giudiziario, pur essendo poi considerati “meri intermediari”, privi di responsabilità editoriale sui contenuti trasmessi; dall’altro, che la valutazione sulla natura illecita di un contenuto, e la conseguente eventuale previsione di misure sanzionatorie[44], spetti ad attori privati, senza la necessità che vi sia una previa decisione nel merito da parte di un’autorità pubblica. Le regole del gioco, seppur in tema di diritti costituzionalmente garantiti, sono stabilite dai private actors.

Una tendenza riconfermata anche dalla pronuncia in esame che, pur fornendo ai cittadini-utenti la possibilità di godere del proprio diritto alla privacy e di vederlo tutelato in concreto con una modalità almeno apparentemente più agevoli, non sembra poter tranquillizzare quella parte della dottrina che, proprio in ragione dei rischi connessi alla nuova egemonia digitale nella fruizione dei diritti fondamentali, teme un tale strapotere delle piattaforme. La volontà di “imbrigliare” il potere privato emerge anche dai più recenti sviluppi normativi a livello europeo: il Digital Services Act e il Digital Markets Act nascono anche in risposta a tale esigenza, figlia del nuovo costituzionalismo digitale[45].

 

  1. Considerazioni conclusive

Con il mutato contesto socioeconomico, il rischio che alcuni beni giuridici, quali il diritto alla privacy o all’informazione, vengano lesi dall’azione o, come nel caso oggetto della pronuncia, dall’inazione dei motori di ricerca è ingente. Suonerà forse ridondante ricordare come l’utilizzo di sistemi algoritmici consenta ai vari search engine di trattare dati personali indicizzando, e quindi di fatto promuovendo, alcuni contenuti rispetto ad altri[46].

Appare allora piuttosto agevole comprendere come ciò sia in grado di generare un notevole impatto sulla circolazione di alcune notizie a discapito di altre, potendo così produrre un indotto sia sulla sfera individuale dei soggetti interessati, nel caso in cui le informazioni ivi contenute abbiano carattere diffamatorio, sia sulla “corretta” informazione di tutti gli internauti, influenzando anche l’opinione pubblica[47]. Il complesso rapporto tra libertà di informazione (e di espressione) e diritto alla tutela dei dati personali (e alla privacy) in rete, affrontato dalla Corte di giustizia nel giudizio in esame, porta con sé la necessità di operare alcune riflessioni.

Innanzitutto, va notato come la Corte, nel ponderare tali diritti, abbia scelto ancora una volta di non ricorrere alla censura, a conferma dell’attuale trend europeo, atto a scongiurare l’uso di tale periglioso strumento. Afferma la necessità, per l’interessato, di provare la presenza di elementi di “inesattezza manifesta” nel contenuto di cui si chiede la deindicizzazione: solo nel caso in cui le informazioni in oggetto siano manifestamente inesatte – e ciò va debitamente dimostrato – si potrà allora procedere all’eliminazione di quel contenuto dai risultati della ricerca. Tale assunto rappresenta probabilmente l’elemento di carattere maggiormente innovativo della sentenza. Se così non fosse stato deciso dalla Corte, Google (così come ogni altro motore di ricerca) avrebbe potenzialmente potuto dar seguito all’unilaterale richiesta di deindicizzazione degli articoli oggetto della controversia, che tuttavia godevano di scopo (anche) informativo. In questo modo si sarebbe sacrificato il diritto a essere informati, in nome di un diritto alla protezione dei dati personali evidentemente prevalente tout court.

Un tale orientamento, in realtà, non rappresenterebbe poi un’evenienza così improbabile; invero, e ciò spinge verso il secondo motivo di riflessione, in dottrina si parla in proposito di “paradosso della privacy”[48]: un diritto nato negli Stati Uniti e poi esportato in Europa, dove si sofistica fino a inglobarvi il diritto alla protezione dei dati. Un diritto d’importazione, dunque, che tuttavia pare abbia assunto nel Vecchio Continente un valore spesso persino preponderante rispetto a quella libertà, sancita dall’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che negli Stati Uniti difficilmente trova limiti. Tali dicotomiche impostazioni domestiche si rendono ancor più evidenti e paradossali se si pensa al ruolo assunto oggi dai motori di ricerca nella gestione delle richieste di deindicizzazione. Come si è detto in precedenza, è proprio a costoro che spetta il potere-dovere di verificare se, in un ipotetico caso di specie, a prevalere sia il right to be not found easily[49] oppure la libertà di informare ed essere informati.

Non può non lasciare perplessi il fatto che i giudici europei, nel caso Google Spain, abbiano scelto di attribuire un compito di tale portata a operatori privati, i quali peraltro affondano le loro radici negli Stati Uniti, con una sensibilità nettamente differente da quella europea rispetto a quei diritti[50]. Si assiste all’acquisizione di uno strapotere da parte di tali piattaforme, che con il private enforcement operano come se godessero di una sorta di “delega” del potere giudiziario, come se fosse stato loro attribuito «un ruolo para-costituzionale», divenendo a tutti gli effetti veri e propri “arbitri” dei conflitti tra diritti fondamentali[51]. Affidare simili operazioni di bilanciamento, almeno in prima battuta, a un privato, costituisce un aspetto critico di per sé[52], considerata l’importanza degli interessi in gioco, aventi rango costituzionale. In simili fattispecie, quella ponderazione tipica del diritto costituzionale dovrà essere operata non dalla magistratura super partes, bensì dei gestori del motori di ricerca, privati che coltivano anche interessi diversi. Il rischio è che il motore di ricerca si tramuti in un «arbitro della fruibilità dell’informazione online»[53].

In terzo luogo, non può non notarsi come con questa sentenza si abbia la riprova giurisprudenziale del fatto che «il diritto di informazione e il diritto di essere informati non possono essere presi in considerazione», nel bilanciamento con altri diritti di pari rango, qualora le informazioni presenti sul web siano inesatte, «poiché essi non possono includere il diritto di diffondere informazioni di tal genere»[54]. Azzardando un’interpretazione forse lata di tale assunto, potrebbe dirsi visibile una certa apertura da parte dell’ordinamento europeo a considerare le informazioni false un non-valore, incapaci di essere incluse nell’alveo della libertà di manifestazione del pensiero.

Ma cosa accade se, come nel caso di specie, al motore di ricerca venga avanzata richiesta di deindicizzazione, a tutela della vita privata e personale, asserendo la falsità di contenuti di matrice informativa circolanti in rete sul proprio conto? Si è dato conto del dovere del motore di ricerca di operare un bilanciamento tra interessi confliggenti, ma di fronte al fumus di falsità delle informazioni la questione si complica. Qui il motore di ricerca non poteva avere contezza della veridicità di quei dati. Avrebbe dovuto averne? Avrebbe dovuto agire in prima persona cercando elementi a favore della posizione della coppia, che provassero quindi l’inesattezza dei dati? Il motore di ricerca – lo si è detto – viene definito anche gatekeeper dell’informazione[55]: si occupa di raccogliere e filtrare le notizie in base a criteri stabiliti ex se, effettuando una «scelta unilaterale rispetto alle informazioni che vengono rese accessibili agli utenti»[56]. Che abbia un ingente ruolo nel settore appare innegabile; ma lo è altrettanto che demandare a piattaforme come Google l’indagine sulla sedicente inesattezza di determinati dati possa quantomeno perplimere.

La Corte di giustizia ha fatto luce anche in merito a tale incertezza, chiarendo che l’onere della prova circa la presunta accuratezza o meno dei dati e delle informazioni ivi contenute sia da attribuire agli interessati, non al motore di ricerca, che non ha alcun dovere di cercare elementi di fatto al fine di vagliare la corrispondenza al vero di quanto affermato dai richiedenti. Qui possono evidenziarsi talune criticità.

La Corte, con riferimento all’onere probatorio, si esprime in termini di “inesattezza manifesta” delle informazioni presenti nel contenuto da deindicizzare, affermando che «al fine di evitare di far gravare su tale persona un onere eccessivo […] essa è tenuta unicamente a fornire gli elementi di prova che, tenuto conto delle circostanze del caso di specie, si può ragionevolmente richiedere a quest’ultima di ricercare al fine di dimostrare l’inesattezza manifesta»[57]. Un nodo da sciogliere parrebbe essere allora proprio quello relativo alla più filosofica natura manifesta di detta inesattezza: quando potrà dirsi integrata? In base a quali criteri?

Lo stesso interrogativo potrebbe porsi in relazione all’altrettanto ambiguo riferimento a quanto e cosa sia “ragionevole” richiedere come elemento di prova. Ciò genera incertezze correlate ai non meglio precisati termini di cui sopra, anche e soprattutto in relazione al potenziale accrescimento dello già smisurato potere di piattaforme come Google, che si troveranno a dover operare, sulla base di definizioni dai contorni sfumati, ponderazioni di interessi di rango costituzionale. L’augurio è che tale decisum possa consentire di rendere più “afferrabile” e trasparente il procedimento di deindicizzazione che, ribattezzato dall’Avvocato Generale, “procedural data due process[58], è stato così reso sempre più extragiudiziale e innovativo da questa Corte, in modo del tutto inedito.

 

[1] O. Pollicino, Un digital right to privacy preso (troppo) sul serio dai giudici di Lussemburgo? Il ruolo degli artt. 7 e 8 della carta di Nizza nel reasoning di Google Spain, in G. Resta – V. Zeno Zencovich (a cura di), Il diritto all’oblio su internet dopo la sentenza Google Spain,  Roma, 2015, 7 ss., spec. 13-14, definisce l’operazione interpretativa operata dalla Corte di giustizia, alla luce di un «dettato normativo rimasto invariato», una «lettura estensiva, o meglio manipolativa» del diritto vigente, volto all’identificazione di un «digital (Internet based) right to data protection» in senso quasi assoluto. Sul tema dell’attivismo giurisprudenziale in relazione alla tutela dei diritti nella dimensione digitale, più in generale, v. anche O. Pollicino, Judicial Protection of Fundamental Rights on the Internet – A Road Towards Digital Constitutionalism?, Londra, 2021.

[2] O. Pollicino, Interpretazione o manipolazione? La Corte di giustizia definisce un nuovo diritto alla privacy digitale, in Federalismi.it, 3, 2014: «Tutte le volte in cui gli stati membri dimostrano di non voler progredire nel percorso di arricchimento dell’acquis comunitario per via legislativa, ecco che la Corte di giustizia indossa, con una certa disinvoltura, va detto, i panni del judge made law e accelera per via giurisprudenziale.» scrive Pollicino. «(…) con le due decisioni tra aprile e maggio del 2014 (…) sembra emergere la chiara volontà, da parte degli stessi giudici, di prendere molto (forse troppo) sul serio la protezione di un nuovo digital right to privacy». Sul punto, anche M. Bassini – O. Pollicino, Reconciling right to be forgotten and freedom of information in the digital age. Past and future of personal data protection in the EU, in DPCE, 2, 2014, 641 ss.

[3] CGUE, C-131/12, Google Spain (2014).

[4] CGUE, C-507/19, Google v. CNIL (2019).

[5] Così Cass. civ., sez. I, ord. 24 novembre 2022, n. 34658, che ne ha ingiunta l’applicazione di fuori dei confini europei. Tra gli altri, v. G. Boschetti, Diritto all’oblio senza confini territoriali: un’altra sfida del GDPR, in ntplusdiritto.ilsole24ore.com, 1° dicembre 2022.

[6] Tra gli altri, le criticità legate al bilanciamento con il diritto alla libertà di espressione sono state affrontate da F. Paolucci, La guerra alla disinformazione nella sentenza T-125/2022 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in diritticomparati.it, 28 settembre 2022; più in generale v. anche O. Pollicino, La prospettiva costituzionale sulla libertà di espressione nell’era di Internet, in questa Rivista, 1, 2018, 48 ss.

[7] La Corte, al § 68 della sentenza in esame, afferma che al fine di evitare che sull’interessato gravi un onere eccessivo tale soggetto dovrà limitarsi a fornire gli elementi di prova «che, tenuto conto delle circostanze del caso di specie, si può ragionevolmente richiedere» a quest’ultimo di ricercare al fine di dimostrare tale inesattezza manifesta. «A tal riguardo – continua la Corte – tale persona non può essere tenuta, in linea di principio, a produrre, fin dalla fase precontenziosa, a sostegno della sua richiesta di deindicizzazione presso il gestore del motore di ricerca, una decisione giurisdizionale ottenuta contro l’editore del sito Internet in questione, fosse pure in forma di decisione adottata in sede di procedimento sommario». Ma non può essere tenuta neppure a presentare una richiesta di ingiunzione contro l’editore dell’articolo contenente le informazioni in questione, perché costituente parimenti un “onere eccessivo”: sul punto, O. Gstrein, The Right to be Forgotten in 2022: Luxembourg judges keep surfing the legislative void, in Verfassungsblog, 20 dicembre 2022.

[8] Il tema è stato perlopiù esplorato dalla giurisprudenza della Corte EDU con riguardo alla rimozione, e non tanto alla deindicizzazione, di notizie tratte da archivi online nel bilanciamento tra art. 10 CEDU e art. 8 (inteso come tutela della reputazione). Al riguardo, si veda M. Bassini – O. Pollicino, Libertà di espressione e diritti della personalità nell’era digitale. La tutela della privacy nella dimensione europea, in G.E. Vigevani – O. Pollicino – C. Melzi d’Eril – M. Cuniberti – M. Bassini, Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2022, spec. 125 ss.

[9] CGUE, C-460/20, cit., §18.

[10] Ibidem

[11] Corte di giustizia dell’Unione europea, Comunicato stampa n. 61/22, Secondo l’avvocato generale Pitruzzella, una domanda di deindicizzazione basata sulla pretesa falsità delle informazioni obbliga il gestore del motore di ricerca ad effettuare le verifiche che rientrano nelle sue concrete possibilità, Lussemburgo, 7 aprile 2022.

[12] Nel quadro del bilanciamento da effettuarsi, ai sensi dell’art. 17, par. 1 e 3, del GDPR, il diritto a informare e il diritto a essere informati possono assumere un peso prevalente rispetto ai diritti fondamentali tutelati dagli artt. 7 e 8 della Carta. «(…) militano nel senso di una tale prevalenza (…) anche il contesto professionale e la natura giornalistica delle pubblicazioni in questione»: così le Conclusioni dell’Avvocato Generale Pitruzzella, 7 aprile 2022, C-460/20, § 29.

[13] La Corte ricorda, infatti, al § 52, che il gestore di un motore di ricerca non è responsabile del fatto che i dati personali compaiano in una data pagina Internet pubblicata da terzi; è responsabile, piuttosto, «dell’indicizzazione di tale pagina e, in particolare, della visualizzazione del link verso di essa nell’elenco dei risultati presentati agli utenti di Internet in esito ad una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona fisica». Non può e non deve vagliare l’autenticità e la rispondenza al vero dei contenuti che si limiti a proporre nella ricerca sulla propria rete.

[14] Per quanto riguarda il primo articolo citato, ci si trova nell’alveo del diritto all’oblio, in particolare nel rapporto con la libertà di espressione e informazione: il par. 3 eleva quest’ultima, infatti, a limite dello stesso diritto a essere dimenticati, stabilendo la “disapplicazione” dei paragrafi precedenti nel caso in cui il trattamento dei dati sia necessario, tra gli altri, per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione. L’art. 12 della direttiva 95/46/CE invece, attribuiva a ciascun interessato il diritto di ottenere dal responsabile del trattamento l’accesso ai propri dati personali, potendo richiederne la rettifica, la cancellazione o il congelamento, in particolare proprio a causa del «carattere incompleto o inesatto dei dati». Da ultimo, l’art. 14, lett. a), della medesima direttiva sanciva il riconoscimento del diritto della persona interessata di opporsi al trattamento dei propri dati, in qualsiasi momento, per motivi preminenti e legittimi derivanti dalla sua situazione particolare, salvo disposizione contraria prevista dalla normativa nazionale.

[15] CGUE, C-460/20, cit., § 29.

[16] Ivi, §31.

[17] Ivi, §48.

[18]  Ivi, §55.

[19] Segnatamente, il contributo a un dibattito di interesse generale, la notorietà della persona che tali dati riguardano, l’oggetto del reportage, la condotta anteriore di tale persona, il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione, le modalità e le circostanze in cui le informazioni sono state ottenute nonché la loro veridicità (così al § 60 della sentenza). Tuttavia, occorre ricordare che i criteri in questione, fatte salve alcune pronunce più recenti della Corte EDU (come Biancardi c. Italia, ric. 77419/16 (2021)), sono stati formulati con riguardo a richieste di rimozione di contenuti archivistici, non di deindicizzazione.

[20] In particolare, v. la sentenza della Corte EDU, ric. 931/13, Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c. Finlandia (2017).

[21] Al § 65 della sentenza in esame, la Corte di giustizia afferma: «come rilevato, in sostanza, dall’avvocato generale al paragrafo 30 delle sue conclusioni, se è vero che, in determinate circostanze, il diritto alla libertà di espressione e di informazione può prevalere sui diritti alla tutela della vita privata e alla protezione dei dati personali, in particolare quando l’interessato svolge un ruolo nella vita pubblica, tale relazione è in ogni caso capovolta quando le informazioni oggetto della domanda di deindicizzazione, almeno per una parte che non abbia un carattere secondario rispetto alla totalità del contenuto, si rivelano inesatte. In un’ipotesi del genere, infatti, il diritto di informazione e il diritto di essere informati non possono essere presi in considerazione, poiché essi non possono includere il diritto di diffondere informazioni di tal genere e di avere accesso ad esse».

[22] Ibidem. Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale Pitruzzella, cit., § 30.

[23]  Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale Pitruzzella, cit., § 44.

[24] CGUE, C-460/20, cit., §68.

[25] Tali conclusioni possono dirsi coerenti con la necessità di contemperare tutti i diritti coinvolti, compresa la libertà di impresa, tutelata dall’art. 16. In questa pronuncia, proprio l’art. 16 della Carta entra a pieno titolo nel bilanciamento di interessi, oltre all’art. 11 e agli artt. 7 e 8: non si tratta di un’innovazione di poco conto, perché nell’“archetipo” sancito da Google Spain si era fermi alla protezione dei dati quasi in via assoluta, senza un cenno alla libertà di informazione (eccetto in un passaggio) e senza menzionare la tutela della libertà d’impresa o un qualsivoglia riconoscimento della natura imprenditoriale dei soggetti coinvolti (i search engine).

[26] Conclusioni Avvocato Generale Pitruzzella, cit., § 54.

[27] Nel testo della pronuncia si ribadisce infatti, in più passaggi, che il motore di ricerca conduce attività che, pur rientrando a pieno titolo nell’alveo del trattamento dei dati personali, non possano essere definite di tipo “editoriale”: «Il trattamento di dati personali effettuato nell’ambito dell’attività di un motore di ricerca si distingue da e si aggiunge a quello effettuato dagli editori di siti Internet, consistente nel far comparire tali dati in una pagina Internet. […] tale gestore è responsabile non del fatto che i dati personali compaiono in una pagina Internet pubblicata da terzi, ma dell’indicizzazione di tale pagina e, in particolare, della visualizzazione del link verso di essa nell’elenco dei risultati presentati agli utenti di Internet in esito ad una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona fisica, potendo una visualizzazione siffatta […] incidere significativamente sui diritti fondamentali della persona» (§§ 50-52).

[28]  CGUE, C-460/20, cit., § 101.

[29] La sentenza nel caso Google Spain così recitava: «Dato che l’interessato può, sulla scorta dei suoi diritti fondamentali derivanti dagli articoli 7 e 8 della Carta, chiedere che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico in virtù della sua inclusione in un siffatto elenco di risultati, i diritti fondamentali di cui sopra prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse di tale pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona. Tuttavia, così non sarebbe qualora risultasse, per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi» (§ 99).

[30] Conclusioni Avvocato Generale Pitruzzella, cit., § 17.

[31] CGUE, C-136/17, GC e a. c. CNIL (2019), § 66.

[32] F. Russo, Diritto all’oblio e motori di ricerca: la prima pronuncia dei tribunali italiani dopo il caso Google Spain – il commento, in Danno e responsabilità, 3, 2016, 302 ss.

[33] Per una panoramica sulle diverse questioni generate dal “riposizionamento” in ambito digitale di questo diritto v. i contributi raccolti in G. Resta – V. Zeno Zencovich (a cura di), Il diritto all’oblio su internet dopo la sentenza Google Spain, cit. Per una ricostruzione in chiave storica cfr. anche M. Mezzanotte, Il diritto all’oblio. Contributo allo studio della privacy storica, Napoli, 2009; ma v. anche F. Pizzetti, Il caso del diritto all’oblio, Torino, 2012.

[34] T.E. Frosini, Google e il diritto all’oblio preso sul serio, in G. Resta – V. Zeno Zencovich (a cura di), Il diritto all’oblio su internet dopo la sentenza Google Spain, cit., 1 ss.

[35] Tra le altre, Cass. civ., sez. III, 5 aprile 2012, n. 5525; 26 giugno 2013, n. 16111.

[36] Così T.E. Frosini, Google e il diritto all’oblio preso sul serio, cit., 3.

[37] G. Finocchiaro, Il diritto all’oblio nel quadro dei diritti della personalità, in G. Resta – V. Zeno Zencovich (a cura di), Il diritto all’oblio su internet dopo la sentenza Google Spain, cit., 37.

[38] Article 29 Working Party, Opinion 1/2008 on data protection issues related to search engines, adopted on 4 April 2008, 00737/EN, WP148.

[39] Oggi Comitato europeo per la protezione dei dati.

[40] Conclusioni Avvocato Generale Pitruzzella, cit., § 2. La terminologia sopra richiamata – “gatekeeper dell’informazione” – trova le proprie radici in due dei più recenti interventi normativi in tema di diritti digitali: Digital Services Act e Digital Markets Act. La declinazione attiva del ruolo di un motore di ricerca nell’ambito dell’informazione è figlia dell’orientamento proprio dei due regolamenti approvati nel luglio 2022 – regolamento (UE) 2022/2065 relativo a un mercato unico dei servizi digitali e che modifica la direttiva 2000/31/CE (regolamento sui servizi digitali) e regolamento (UE) 2022/1925 relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale e che modifica le direttive (UE) 2019/1937 e (UE) 2020/1828 (regolamento sui mercati digitali) – che riconoscono il potenziale ingente impatto che le grandi piattaforme possano generare sui diritti fondamentali. Proprio in ragione di tale notevole potere, tra l’altro, gli atti normativi ora vigenti interpretano i “VLOSE” (very large online search engines) come soggetti sottoposti a regole peculiari. Sul punto, si veda M. Borgobello, Digital Services Act – Piattaforme di grandi dimensioni sotto la lente UE: i risultati del primo censimento”, in Agenda Digitale, 29 marzo 2023.

[41] M. Bassini, Internet e libertà di espressione. Prospettive costituzionali e sovranazionali, Roma, 2019, 327, p. 329, ma v. anche Id., Fundamental rights and private enforcement in the digital age, in European Law Journal, 25(2), 2019, 182 ss. In particolare, in quest’ultimo scritto si ricorda che l’applicazione dei diritti fondamentali e il loro godimento effettivo dipendano sempre più dalle attività svolte dalle piattaforme digitali, di fatto investite di un potere che normalmente spetta alle autorità pubbliche, come tribunali o organi amministrativi (si pensi all’Autorità garante della protezione dei dati personali). Tale ruolo, però, appare ancor più impegnativo e degno di nota alla luce della diversa concezione dei diritti fondamentali in gioco in un tale contesto, vale a dire libertà di informazione e privacy: il grado di protezione di tali diritti in Europa e negli Stati Uniti trasuda sensibilità diverse.

[42] Ibidem.

[43] Ibidem.

[44] Quali la rimozione del contenuto dai servizi del motore di ricerca o la previsione di limitazioni o restrizioni dell’account-editore che abbia reso pubblico il contenuto stesso, in ragione del mancato rispetto dei termini e condizioni d’uso del provider. Sul punto, M.R. Carbone, Il rapporto USA – Censura, come funziona e quanto è estesa nel mercato digitale, in Agenda Digitale, 14 febbraio 2022.

[45] Sul punto, tra gli altri, G. De Gregorio, The Rise of Digital Constitutionalism in the European Union, in International Journal of Constitutional Law, 19(1), 2021, 41 ss.

[46] Si tratta, ovviamente, di un tema che riguarda varie piattaforme e non soltanto i motori di ricerca, come dimostra l’interessante causa Gonzalez c. Google pendente avanti alla Corte Supreme statunitense e relativa alla riconducibilità all’esenzione sancita dalla Section 230 del Communications Decency Act (CDA) dell’attività di raccomandazione di contenuti di terzi eventualmente svolta dai prestatori di servizi (nel caso di specie, da Google in veste di gestore di YouTube, dunque quale hosting provider). V. altresì la causa Twitter Inc., v. Taamneh incentrata sul medesimo punto di diritto.

[47] Il motore di ricerca, che era stato descritto come un semplice intermediario di contenuti postati da terzi, si rivela a tutti gli effetti un attore nella gestione di essi. Se il ruolo che era stato immaginato alle origini per questi soggetti era effettivamente quello di meri intermediari tecnici, e il regime giuridico introdotto (sia negli Stati Uniti che in Europa) rifletteva questo intendimento, oggi forse la piattaformizzazione della sfera pubblica (secondo il linguaggio di M. Sorice, La «piattaformizzazione» della sfera pubblica, in Comunicazione politica, 3, 2020, 371 ss.) ha reso effettivamente maggiormente incisivo il ruolo in questione grazie anche alla maggiore capacità diffusiva e dunque di interferire sull’opinione pubblica. La non totale neutralità della rete può rappresentare un fattore di rischio per la salute delle democrazie, per il corretto esercizio del diritto al voto, per l’informazione, per la tutela dell’immagine delle persone fisiche e così via. Non a caso, anche gli sviluppi normativi più recenti confermano la presa di consapevolezza di tale ingente potere: il Digital Services Act, tra le altre cose, impone obblighi particolari e più dettagliati ai prestatori di servizi di grandi dimensioni, proprio in virtù del maggiore potenziale di rischio che essi dimostrano.

[48] M. Bassini, Internet e libertà di espressione, cit., 325

[49] A. Palmieri – R. Pardolesi, Dal diritto all’oblio all’occultamento dei dati in rete: traversie dell’informazione ai tempi di Google, in Nuovi quaderni del Foro italiano, 2014, 5 ss.

[50] V. ancora M. Bassini, Internet e libertà di espressione, cit., 328

[51] O. Pollicino, Limitare il diritto all’oblio è un rischio, in Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2019.

[52] V. ancora F. Russo, Diritto all’oblio e motori di ricerca, cit.

[53] A. Mentelero, Il futuro regolamento EU sui dati personali e la valenza “politica” del caso Google: ricordare e dimenticare nella digital economy, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 4-5, 2014, 687.

[54] CGUE, C-460/20, cit., § 65.

[55] Conclusioni dell’Avvocato Generale Pitruzzella, C-460/20, cit.

[56] F. Paolucci, (Don’t) remember my name: il diritto all’oblio nella recente pronuncia C-460/2020 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in diritticomparati.it, 19 gennaio 2023.

[57] CGUE, C-460/20, cit., § 68.

[58] Conclusioni dell’Avvocato Generale Pitruzzella, C-460/20, cit., §§ 42-50. Tuttavia, occorre ricordare come tale concetto trovi le proprie fondamenta nella dottrina soprattutto statunitense: un tale approccio pare riscontrabile in K. Crawford – J. Schultz, Big data and due process: toward a framework to redress predictive privacy harms, in Boston College Law Review, 55(1), 2014, 93 ss., e poi è stato ripreso da A. Huq, Constitutional Rights in the Machine Learning State, in Cornell Law Review, 105, 2020, 1875 ss.

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