Costituzione e neo-fascismo: quando il saluto fascista è reato? 

Corte di Cassazione, sez. un. penali, 17 aprile 2024, n. 16153

La condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel cosiddetto ‘saluto romano’ integra il delitto previsto dall’art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost; tale condotta può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, comma 1, d.I. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)

 

Fare il saluto romano o rispondere alla “chiamata del presente” è reato di pericolo astratto, e quindi sussistente sempre e comunque, oppure di pericolo concreto, e quindi basato sulle circostanze? Se reato, lo è perché manifestazione usuale del disciolto partito fascista (art. 5 legge n. 645/1952 c.d. Scelba) oppure di gruppi che, al pari di quelli fascisti, hanno tra i propri scopi  l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (art. 2 legge n. 205/1993 c.d. Mancino)? Questi due reati sono concorrenti tra loro oppure il secondo deroga, quale norma speciale, il primo?

Sono questi gli interrogativi che le Sezioni unite penali della Cassazione hanno sciolto con la sentenza n. 16153 del 18 gennaio 2024, le cui motivazioni sono state depositate lo scorso 17 aprile. Una sentenza attesa: sia dagli operatori del diritto, considerate le divergenti posizioni esistenti su tali temi in dottrina, specie tra i costituzionalisti, alimentate anche da oscillanti pronunce delle diverse sezioni della Cassazione (da qui il ricorso alle sezioni unite); sia dalla politica, le cui invero mai sopite polemiche circa la natura e la portata antifascista della nostra Costituzione hanno trovato nuova linfa con l’ascesa alla guida del governo del Paese del partito orgogliosamente erede del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, specie allorquando i suoi esponenti, in ragione delle cariche istituzionali ricoperte, sono chiamati a prendere posizione in occasione di talune celebrazioni ufficiali particolarmente evocative, come la Festa della Liberazione del 25 aprile.

La linea di divisione è netta: da una parte chi considera le manifestazioni di idee, ritualità e simboli fascisti, fintantoché tali, protette dalla libertà d’espressione (art. 21 Cost.); dall’altra, chi le giudica illegittime alla luce di una Costituzione che vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista (XII disposizione finale) e mette al bando ideologie discriminatorie lesive della dignità sociale e dell’eguaglianza della persona (artt. 2 e 3 Cost.).

Una divisione che rimanda ad un interrogativo di fondo, un tempo forse teorico ma oggi purtroppo quanto mai attuale: come può una democrazia difendersi dai suoi nemici senza tradire sé stessa?

Al riguardo, la nostra non è certo una democrazia neutra o imbelle che paradossalmente dà “ai suoi nemici mortali gli strumenti con i quali essere distrutta” (Goebbels) perché se si è tolleranti con gli intolleranti “i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi” (Popper). Ma non è nemmeno una democrazia protetta che per difendersi dai suoi nemici, può abusare dei suoi poteri fino al punto di adottarne i metodi, con il rischio che, in nome della difesa del pluralismo, lo si limiti per reprimere quel dissenso che invece ne costituisce l’essenza. La democrazia può combattere i suoi nemici ma “con una mano legata dietro la schiena”.

Tra questi due estremi, la nostra è piuttosto una democrazia aperta perché, al contrario ad esempio della Germania, i diritti fondamentali possono essere esercitati anche per fini contrari a Costituzione, a patto che – ed è questo il limite invalicabile – non si ricorra o si trascenda nella violenza. Non si tratta di un’astratta sottigliezza giuridica che finisce per sottovalutare la gravità politica del problema ma della necessaria individuazione in democrazia del confine oltre cui il dissenso, in forma singola o associata, diventa reato.

La nostra Costituzione antifascista individua tale punto di equilibrio nel modo in cui i diritti vengono esercitati, non nella loro finalità. Se la si legge in modo sistematico, ci si può rendere conto di come sia molto più liberale ed aperta di come a volte la si voglia intendere e propagandare. Così: le riunioni sono vietate non per quel che si discute ma quando non pacifiche e senz’armi; le associazioni sono vietate non per i fini perseguiti, tranne che lo siano già al singolo dalla legge penale, ma se agiscono in modo segreto o hanno una organizzazione di carattere militare; la libertà d’espressione incontra il limite esplicito del buon costume, anziché dell’ordine pubblico ideale e, di conseguenza, quello implicito del reale e concreto pericolo che dalle parole si passi all’azione violenta; i partiti devono agire non per un fine ma con “metodo democratico” (per questo non sono stati mai messi fuori legge il partito monarchico o la Lega Nord quando mirava all’indipendenza della Padania); per motivi politici non si può perdere la cittadinanza, e quindi il diritto d’elettorato attivo o passivo; infine, il dovere di fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione non impone un fine “funzionale” all’esercizio dei diritti fondamentali. Ne scaturisce un disegno inclusivo (pochi lo ricordano ma sempre la XII disposizione finale ha interdetto dal diritto di voto attivo e passivo i capi responsabili del regime fascista solo per i primi cinque anni di vita repubblicana) che si è rivelato alla lunga storicamente vincente perché ha preferito integrare nella dialettica democratica e parlamentare le forze antisistema (dai monarchici ai missini), anziché metterle fuori legge.

In questa prospettiva, le risposte dei giudici della Cassazione alle questioni poste non tradiscono le attese. Esse s’inseriscono nel solco di una giurisprudenza costituzionale che, sin dalle sue primissime sentenze, ha chiarito che “l’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista” (Corte cost., sentenza n. 1/1957) e che le manifestazioni fasciste vanno punite solo se idonee “a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste” (sentenza n. 74/1958).

Entro tali coordinate costituzionali, le leggi Scelba e Mancino identificano due distinte ipotesi di reato. Entrambe puniscono le manifestazioni tenute in pubbliche riunioni ma per finalità diverse: la legge Scelba per evitare la ricostituzione del partito fascista, vietata dalla Costituzione, preservando l’ordinamento da condotte che possano metterne in pericolo i fondamenti anche istituzionali; la legge Mancino per evitare che organizzazioni, movimenti o gruppi incitino alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, erodendo i valori costituzionali di solidarietà, dignità ed eguaglianza.

Le due ipotesi di reato sono altresì diverse per la natura del pericolo che intendono reprimere. Il reato di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista è di pericolo concreto e non astratto; esso, pertanto, ricorre solo se effettivamente idoneo e funzionale alla sua riorganizzazione. Il che significa, nel caso in specie, che il saluto romano non è reato in sé ma solo quando, alla luce delle specifiche circostanze in cui è compiuto, vi è la seria probabilità che sia effettuato con l’obiettivo di ricostituire il disciolto partito fascista. Il che – notano significativamente i giudici – non può escludersi a priori possa in futuro verificarsi anche in occasioni finora commemorative, come quelle annuali ad Acca Laurentia o a Predappio. Certo, questo significa permettere al giudice di valutare discrezionalmente le circostanze specifiche, anche di tempo e di luogo, in cui le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista vengono compiute. Ma l’eliminazione di presunzioni assolute di reato è una dimensione ineliminabile dell’applicazione del diritto, come la Corte costituzionale, in questo come in altri ambiti, non ha mai mancato di ricordare.

Di contro, il reato di diffusione di idee discriminatorie è un reato di pericolo astratto, perché commesso da aggregazioni sociali, anche estemporanee, che proprio per la loro consistenza hanno maggiore capacità rispetto al singolo di diffondere tali idee e che, per questo motivo, il legislatore ha ritenuto preventivamente e presuntivamente pericolose. Si tratta di una precisazione molto importante perché ciò significa che per i giudici il saluto romano, anche se non finalizzato alla ricostituzione del partito fascista, può comunque costituire reato se vi è la presuntiva possibilità, e non anche la probabilità, che tramite esso tali gruppi vogliano diffondere idee discriminatorie. Per quanto i giudici, temendo processi alle intenzioni, precisino che il “pericolo presunto” deve comunque coniugarsi con il principio di offensività, rimane forte il dubbio se un reato di pericolo astratto si ponga in contrasto con la libertà d’espressione. Questione invero su cui, proprio in relazione alla legge Mancino, la Corte costituzionale non ha avuto mai occasione di pronunciarsi.

È ben possibile, dunque, che il saluto romano possa essere punito per entrambi i reati. “Anzitutto”, scrivono i giudici, esso è fisiologicamente riconducibile alle usuali manifestazioni fasciste che però – come scritto – sono punite solo se vi è il pericolo concreto di ricostituire, tramite esso, il relativo partito. A tal fine, il giudice deve valutare complessivamente “la sussistenza degli elementi di fatto”, quali ad esempio “il contesto ambientale, la eventuale valenza simbolica del luogo di verificazione, il grado di immediata, o meno, ricollegabilità dello stesso contesto al periodo storico in oggetto e alla sua simbologia, il numero dei partecipanti, la ripetizione insistita dei gesti, ecc.) idonei a dare concretezza al pericolo”.

Oltreché ai sensi della legge Scelba, il saluto romano può essere punito anche in base alla legge Mancino “a fronte di determinati presupposti” che inducano a ritenere che si tratti di un gesto che, seppur in un ambito diverso da quello fascista, evochi simbolicamente idee di intolleranza e di discriminazione razziale promosse a livello non individuale ma associativo. Su quest’ultimo punto ci sia però consentito un ulteriore dubbio: è possibile perseguire il saluto romano come manifestazione discriminatoria solo se di un gruppo e non di un singolo se, per Costituzione (art. 18), vi deve essere corrispondenza tra ciò che è vietato al singolo e ciò che è vietato in forma associata? In altri termini, è costituzionale una legge che vieta una condotta solo se posta in essere da un gruppo di persone anziché da una sola?

In conclusione, sarebbe certamente sbagliato trarre da tale sentenza un segnale a favore di un minore livello di attenzione verso gli attuali rigurgiti fascisti, benché invero limitati a frange assolutamente minoritarie e marginali della nostra società. Occorre anzi evitare di correre il rischio che, come scriveva Ovidio, “la cura venga somministrata tardi, quando i mali, per eccessivi indugi, hanno acquistato vigore”. Anzi da questo punto di vista, è opportuno chiedersi perché, di fronte ad accadimenti simili a quelli che portarono allo scioglimento di Ordine Nuovo (1973) e Avanguardia Nazionale (1976), come l’assalto alla sede della CGIL del 9 ottobre 2021, non si sia decisi ad intervenire energicamente contro Forza Nuova.

Di contro, è certamente troppo sperare che gli antifascisti in servizio permanente che, talora ossessivamente, vorrebbero bandire dallo spazio pubblico ogni anche più innocuo riferimento al fascismo (talora anche tramite preventive dichiarazioni di abiura per poter svolgere riunioni in luoghi pubblici) condividano il senso e il significato profondo di questa sentenza, che anzi contribuirà prevedibilmente a rinfocolare le consuete polemiche.

A noi basta rilevare che tale sentenza si radichi profondamente nella matrice certo antifascista, ma proprio per questo anche liberale e democratica della nostra Costituzione per la quale le idee, finché rimangono tali e non abbiano un concreto contenuto offensivo e una carica istigatrice alla violenza, si combattono con le idee, e non con il carcere.

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