Corte di Cassazione, sez. V penale, 1° marzo 2018, n. 16763.
Il delitto di diffamazione commesso dal giornalista con il mezzo della stampa rappresenta l’evento del reato colposo attribuibile al direttore responsabile ai sensi dell’art. 57 c.p. Ne consegue che, se il delitto di diffamazione di cui all’art. 595, terzo comma c.p., non risulta essere stato consumato per carenza dell’elemento psicologico, la fattispecie omissiva prevista a carico del direttore non può trovare applicazione, imponendo la pronuncia di assoluzione con formula «il fatto non sussiste»
- Il caso.
Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione, con succinta motivazione, annulla l’impugnata sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello di Milano nei confronti del direttore di un periodico imputato del delitto di cui all’art. 57 c.p., accogliendo il motivo di ricorso volto ad ottenere formula assolutoria più favorevole per quest’ultimo.
L’iter processuale. Il ricorrente, direttore responsabile di un periodico, assolto in primo grado dal reato di cui all’art. 57 c.p., in relazione agli artt. 595 c.p. e 13 l. 47/1948, con formula «perché il fatto non costituisce reato», impugna il provvedimento lamentando l’erroneità della formula assolutoria. Proposto appello, il giudice di seconde cure non accoglie la tesi della difesa. Secondo quest’ultima, l’assoluzione nei confronti dell’autore del delitto di diffamazione, in ragione della scriminante del diritto di critica, avrebbe imposto l’assoluzione del direttore non con la medesima formula adottata per il giornalista («il fatto non costituisce reato»), ma con quella, più favorevole, «il fatto non sussiste». Di qui l’ulteriore grado di giudizio, con riproposizione della medesima tesi difensiva.
L’accoglimento del ricorso da parte della Corte di Cassazione, pur concisamente motivato, merita qualche riflessione, dal momento che la questione in esame presuppone lo scioglimento di nodi interpretativi che tradizionalmente gravitano intorno all’art. 57 c.p.
- Le questioni a monte.
Il tema che occupa i giudici di legittimità nella sentenza in esame non è invero nuovo[1]. Come si anticipava, esso è solo l’ultimo (o l’estrema conseguenza) di quella che potremmo definire una catena di questioni che riguardano, tra i molti profili problematici relativi alla fattispecie di cui all’art. 57 c.p., il delicato rapporto tra la responsabilità dell’autore del reato a mezzo stampa e quella del direttore, con particolare riguardo al significato da attribuire all’espressione «reato commesso» di cui alla norma incriminatrice.
Sul punto è necessario ripercorrere brevemente gli snodi principali della questione, a partire dall’antica querelle tra chi individuava nel «reato commesso» dal giornalista una condizione obiettiva di punibilità e chi, invece, riteneva quest’ultimo evento del reato in senso tecnico[2], con tutte le conseguenze derivanti dall’accoglimento dell’una o dell’altra soluzione, prima tra tutte la qualificazione giuridica dell’art. 57 c.p. quale reato omissivo proprio o improprio. A tacer d’altro, infatti, il riconoscimento del reato commesso quale evento del delitto di cui all’art. 57 c.p. implica che quest’ultimo debba ritenersi fattispecie causalmente orientata e addebitabile all’agente al quale possa essere mosso un rimprovero di colpa per omesso impedimento dell’evento. Viceversa, inscrivere il reato commesso dal giornalista nell’alveo della mera condizione obiettiva di punibilità implica un totale scollamento tra il fatto del giornalista e quello del direttore: come noto, tratto caratteristico delle condizioni di cui all’art. 44 c.p. è l’essere svincolate dal nesso materiale e psicologico, le stesse non contribuendo a descrivere l’offesa al bene giuridico tutelato.
La questione può dirsi oggi del tutto superata, esistendo ormai, sin dalla pronuncia delle Sezioni Unite Clementi[3], un orientamento giurisprudenziale granitico che abbraccia la tesi dell’evento costitutivo e, dunque, sotto un diverso profilo, della qualificazione della fattispecie di cui all’art. 57 c.p. come reato omissivo improprio.
Ulteriore tema che ha impegnato l’interprete era il seguente: il reato presupposto, evento del delitto de quo, deve essere completo di tutti i suoi elementi – ossia deve trattarsi di un fatto tipico, antigiuridico, colpevole nonché punibile – oppure il riferimento al reato commesso è da intendersi nella sua mera oggettività, bastando il fatto tipico?
La questione è stata affrontata e variamente risolta. Secondo un’interpretazione[4], la soluzione più rispondente alla ratio della norma di cui all’art. 57 c.p. sarebbe quella di non limitare la responsabilità del direttore ai casi in cui il reato sia completo di tutti gli elementi essenziali ma, al contrario, di ritenerla fondata allorché sia integrato un fatto tipico e antigiuridico da parte del giornalista.
La dottrina maggioritaria, tuttavia, adotta un criterio interpretativo più rigoroso e ritiene necessario che il reato sia completo di tutti i suoi elementi, compreso quello soggettivo[5], fondando tale soluzione sul rispetto del principio di offensività e sul criterio letterale (la norma infatti recita «reato commesso»)[6].
La giurisprudenza ha aderito alla dottrina maggioritaria[7], richiedendo che il reato presupposto sia perfezionato in tutti i suoi elementi, senza esigere che il controllo da parte del direttore si spinga a ricomprendere un’indagine sull’atteggiamento psicologico dell’autore dello scritto[8].
Ecco il tema centrale per la questione sottoposta alla Corte nella sentenza in commento: l’autonomia tra il reato la cui commissione deve essere impedita dal direttore ed il reato ascrivibile al direttore stesso, con le relative conseguenze in termini di costruzione della fattispecie.
A mente dell’art. 57 c.p., infatti, il direttore risponde dell’omesso, dovuto controllo, secondo il modello del c.d. culpa in vigilando, sui contenuti del periodico. Tale responsabilità, come si è visto, si differenzia da quella dell’autore dello scritto[9]: il reato presupposto e quello ascrivibile al direttore godono di reciproca autonomia in termini di costruzione della fattispecie salvo, chiaramente, quanto si è detto poc’anzi relativamente all’evento del reato in esame.
- Conclusioni.
Date tutte queste premesse e ricordando che il «reato commesso», completo di ogni elemento oggettivo e soggettivo, è evento costitutivo del delitto di cui all’art. 57 c.p., deve poi giungersi all’obbligato corollario che in assenza di detto evento, il reato (omissivo, improprio) non si compie.
A tale conclusione era già giunta parte della giurisprudenza[10] ma, evidentemente, non sempre traendone le dovute conclusioni.
Come dimostra, infatti, la sentenza appellata, a fronte dell’assoluzione dell’autore del reato presupposto in ragione della scriminante del diritto di critica e, dunque, con la formula assolutoria «perché il fatto non costituisce reato», viene utilizzata la medesima formula assolutoria anche per il direttore del periodico.
Una tale assimilazione implica il riconoscimento della causa di giustificazione – nel caso di specie, dell’esercizio del diritto di critica – sia nei confronti del giornalista, nell’ambito del delitto di diffamazione sia, per estensione, nei confronti del direttore del periodico.
Estendere la formula assolutoria del giornalista al direttore del periodico sarebbe possibile e corretto laddove fosse applicabile la disciplina generale delle cause di giustificazione nell’ambito del concorso di persone. Come noto, infatti, di regola le scriminanti operano ai sensi dell’art. 119 comma 2 c.p. sia nei confronti dell’autore del fatto di reato, sia nei confronti di chi sia concorso – con contributo atipico, si intende – nel fatto di questi. Tuttavia, come si è tentato di evidenziare, dall’interpretazione dell’art. 57 c.p. di cui si è dato brevemente conto in commento, emerge l’autonomia della fattispecie rispetto al reato presupposto e, pertanto, l’esclusione della disciplina del concorso di persone allorché sia contestato il reato di omesso controllo.
Correttamente dunque la sentenza in esame si inserisce nel filone giurisprudenziale che, oltre ad aderire alla piena autonomia del delitto di cui si tratta, ne fa discendere le corrette conseguenze in termini sostanziali nonché processuali, adottando una formula assolutoria – «il fatto non sussiste»[11] – che si differenzia da quella propria del giornalista, autore del reato presupposto, il cui fatto, sì, è scriminato dall’esercizio del diritto di critica.
[1] È la Corte stessa, nel motivare l’accoglimento del ricorso, che indica precedenti conformi alla propria decisione: Cass. pen., sez. V, 4 marzo 2005, n. 15001, in DeJure; Cass. pen., sez. V, 26 febbraio 2003, n. 19827, in Riv. pen., 2003, 845 ss.; Cass. pen., sez. V, 17 novembre 1999, n. 1062, in DeJure.
[2] In tema A. Mino, La disciplina sanzionatoria dell’attività giornalistica: dalla responsabilità penale del direttore alla responsabilità da reato dell’ente, Milano, 2012, passim; M. Fumo, La diffamazione mediatica, Torino, 2012, 161 ss., V. Pezzella, La diffamazione. Responsabilità penale e civile, Torino, 2009, 216 ss.; G. Corrias Lucente, Il diritto penale dei mezzi di comunicazione di massa, Padova, 2000, 207; G. Delitala, Titolo e struttura della responsabilità penale del direttore responsabile per i reati commessi sulla stampa periodica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1959, 548.
[3] Cass. pen., sez. un., 18 novembre 1958, n. 28, in Riv. it. dir. proc. pen., 1959, 543 ss.; Cass. pen., sez. V, 13 novembre 1981, n. 10252, in DeJure; Cass. pen., sez. V, 12 giugno 1992, in Giur. it., 1994, 2, 45 ss; Cass. pen., sez. VI, 10 marzo 1994, in Cass. pen., 1995, 3076 ss.; Cass. pen., sez. V, 31 marzo 2000, in Riv. pen., 2000, 1026 ss.; Cass. pen., sez. V, 30 aprile 2003, n. 19827, in Riv. pen., 2003, 845 ss.
[4] Cass. pen., sez. V, 4 marzo 1982, in Cass. pen., 1983, 2012 ss., con nota di L. Vignale, La nozione di reato commesso nella fattispecie dell’art. 57 c.p. La pronuncia aderisce per vero all’interpretazione della dottrina maggioritaria, che ritiene necessario un fatto non solo tipico, ma anche antigiuridico e colpevole; l’autore in commento si discosta viceversa da tale soluzione, ritenendo non necessario l’elemento psicologico della colpevolezza per l’integrazione del «reato commesso».
[5] Ex pluris in dottrina G. Corrias Lucente, op. cit., 207; F. Mantovani, Diritto penale, parte generale, Padova, 1979, 374.
[6] Tale soluzione sembra, a parere di chi scrive, corretta nell’esito ma non nelle premesse. Il principio di offensività è criterio di orientamento che concerne l’elemento materiale del reato: la lesione al bene giuridico è infatti parte del fatto tipico, nulla avendo a che fare con l’elemento psicologico. Quanto al criterio letterale, oltre a non apparire in generale dirimente, se seguito porterebbe ad opposta soluzione, considerata la lettera degli artt. 110 e 116 c.p. La soluzione, pertanto, dovrebbe essere la medesima ma fondata sul rapporto intercorrente tra il delitto ascrivibile al direttore e quello che lo stesso ha l’obbligo di impedire.
[7] Cass. pen., sez. V, 22 febbraio 2012, n. 15004, in Guida dir., 22, 2012, 31 ss., con nota di C. Melzi d’Eril – G.E. Vigevani, Lo scarso rilievo e la poca visibilità dello scritto dovrebbero ridurre i doveri di controllo del vertice; Cass. pen., sez. V, 8 aprile 2003, n. 22869, in Leggi d’Italia; Cass. pen., sez. V, 4 marzo 1982, in Cass. pen., 1983, 2012 ss., con nota di L. Vignale, La nozione di reato commesso nella fattispecie dell’art. 57 c.p.
[8] Come correttamente nota E. Musco, Stampa (dir. pen.)(voce), in Enc. Dir., XLIII, Milano, 1990, 641.
[9] Tuttavia, è ben possibile che il direttore concorra nel fatto dell’autore dello scritto: ciò accade quando egli – con condotta attiva o anche omissiva – apporti un contributo atipico nel reato presupposto medesimo, secondo i crismi del concorso di persone, sorretto dalla rappresentazione e volizione di tutti gli elementi significativi della fattispecie dello specifico reato. Nel caso di concorso ex art. 110 c.p. nel reato presupposto, pertanto, dovrà dimostrarsi che il direttore ha inteso pubblicare l’articolo esattamente nella sua connotazione, nella consapevolezza e volontà di divulgarlo con quei contenuti, con ciò venendo a caratterizzare l’elemento soggettivo – nonché oggettivo – in modo del tutto differente rispetto a quello che integra la responsabilità di cui all’art. 57 c.p. per l’omesso controllo. Sul punto v. più diffusamente M. Fumo, op. cit., 161 ss.
[10] Cass. pen., sez. V, 4 marzo 2005, n. 15001, in DeJure; Cass. pen., sez. V, 30 aprile 2003, n. 19827, cit.; Cass. pen., sez. V, 17 novembre 1999, n. 1062, in DeJure.
[11] Più favorevole per l’imputato quanto a rimborso delle spese e risarcimento del danno: cfr. artt. 427 commi 2 e 3 e 652 c. 1 c.p.p.