“La conoscenza è basata sulla dimenticanza. Il bello della mente umana è che cancella”. (Viktor Mayer-Schönberger professore di internet governance dell’Oxford Internet Institute)
Sono ormai diversi anni che anche in Italia si è acquisita una sempre più radicata consapevolezza di come la nostra attività virtuale si sovrappone sempre più a quella reale; il web non sta solamente influenzando lo stile di vita dei singoli o la nostra società complessivamente intesa, ma condiziona oramai anche l’esercizio dei nostri diritti. Ma cosa succede ai nostri dati, alla nostra vita digitale, quando moriamo?
Il tema “eredità digitale” (“digital inheritance”), ovvero la sorte della nostra vita on line, una volta cessata quella reale è un tema molto acceso, ma di cui ancora poco si è detto: in particolare si discute sulla adeguatezza del diritto codicistico delle successioni, unica disciplina al momento disponibile per regolare la materia.
Sul punto il mondo notarile già nel 2007, nella persona di Ugo Bechini, membro della commissione informatica del Consiglio nazionale del Notariato, aveva discusso del tema della trasmissibilità agli eredi delle credenziali di accesso a risorse informatiche sostenendo come “al fine di attribuire a soggetti predeterminati l’accesso a risorse informatiche protette da credenziali (username, PIN, password), dopo il decesso del loro titolare, è possibile far ricorso sia al mandato post mortem che all’istituto dell’esecutore testamentario” ed inoltre che “in linea di principio, le risorse online passano nella disponibilità dei successori mortis causa”.
Ebbene, scegliere l’esecutore testamentario “digitale” e, quindi, affidare a una persona di fiducia le proprie credenziali d’accesso (ad esempio username e password) con istruzioni chiare su cosa fare in caso di decesso, sembrerebbe una prima soluzione in qualche modo tutelata giuridicamente.
Se invece non decidiamo di lasciare testamento la situazione diviene molto più complessa.
Questo in quanto molto spesso le situazioni che si vengono a creare sul web non sempre possono essere ricondotte alle categorie giuridiche note ed inoltre, considerato che molto spesso questi servizi online non sono basati in Italia, la legislazione applicabile ruota su sistemi internazionali.
Ne deriva che, in un limbo di incertezza giuridica e in attesa del risveglio di un interesse delle istituzioni legislative e governative sul tema, ogni operatore del web decide a suo modo come comportarsi in caso di morte di un suo utente. Bisognerà fare attenzione a quanto prevedono le clausole contrattuali dei singoli accordi che abbiamo sottoscritto con i fornitori dei nostri servizi 2.0. GMail, ad esempio (come evidenziato a Ernesto Belisario nell’articolo “La nostra eredità digitale”) soltanto se gli eredi esibiscono il certificato di morte oltre alla dimostrazione di aver intrattenuto con il deceduto corrispondenza telematica concede la password dell’account del defunto. Hotmail, invece, prevede la chiusura dopo alcuni mesi di inattività dell’account: gli eredi dovranno compilare una richiesta disponibile dal sito per accedere alle mail del de cuius e, anche in questo caso, integrarla con il certificato di morte. Facebook, invece ha proprio recentemente modificato la propria policy sul tema: prima cancellava di default l’account degli utenti deceduti, non appena comunicato il decesso – tanto che si invitavano gli utenti ad effettuare apposite segnalazioni circa la morte dei propri contatti. Oggi invece il social network ha optato per lasciare agli amici, parenti o conoscenti del defunto la possibilità di richiedere, tramite un apposito modulo reperibile sul sito, la trasformazione del profilo in un “account commemorativo”; in alternativa, è possibile richiedere la cancellazione del profilo e dei relativi dati (dimostrando, com’è ovvio, il rapporto di parentela o di rappresentanza legale).
Eppure questa grave lacuna normativa e soprattutto l’ingente quantità di dati digitali e personali dei singoli utenti presenti in rete, ha fatto sorgere l’esigenza di un’ulteriore tutela, estensione in teoria del diritto alla privacy riconosciuto a tutti i viventi ma non ai defunti. Si tratta del diritto all’oblio, ovvero il diritto, a tutela della dignità dell’uomo, di essere dimenticati, di cancellare i dati personali per evitare un travisamento della reputazione e dell’immagine sociale del defunto. Il rischio è quello di essere condannati ad una “vita eterna”, dalla quale riemergono in continuazione fatti e notizie, private della loro dimensione storica.
E’ vero che il diritto alla riservatezza si estingue con la morte del titolare. Ma sopravvive comunque una forma di tutela dei dati sensibili – come altre forme di tutela – anche dopo la morte, ma nelle forme specifiche previste dall’art. 9, Cod. Privacy, che individua puntualmente gli interessi che possono bilanciare gli interessi di terzi ad accedere ai dati personali: la tutela del defunto e ragioni familiari meritevoli di protezione.
Allora il diritto di accesso degli eredi ai dati personali e sensibili del defunto dovrebbe essere bilanciato anche con la tutela della dignità di quest’ultimo. Bilanciamento che ad oggi manca. E proprio perché non esiste alcuna tutela in merito, prendono piede numerosi servizi e programmi per aiutare a prepararsi a quello che accadrà dopo ‘l’ultimo log in’. Da ultimo Google che ha avviato il programma Inactive Account Manager, per consentire a chi usa i servizi del motore di ricerca di decidere esattamente cosa fare con i dati e le foto depositati nei “magazzini” virtuali di Google.
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