Dal secondo successivo alla pubblicazione, effettivamente tardiva, sul sito dell’AGCOM, dei due regolamenti che disciplinano i meccanismi di autorizzazione alla prestazione di servizi media audiovisivi in modalità, rispettivamente, lineare e on demand, si è scatenato un dibattito in cui si è detto tutto ed il contrario di tutto.
Evidentemente non aiuta ad avere una univocità di lettura la difficile esegesi cui si presta l’ormai consueto lessico sibillino dell’Autorità di garanzia delle comunicazioni.
Alcuni punti fermi comunque possono, mi pare, essere fissati. Mi riferisco ai presupposti funzionali (cosa deve fare) e spaziali o geografici (dove deve prestare i suoi servizi) un fornitore di servizi media audiovisivi su internet perché sia assoggettabile alla disciplina autorizzatoria prevista dai regolamenti in questione. I due presupposti, quello funzionale e quello spaziale, devono, ovviamente, ricorrere cumulativamente, altrimenti la disciplina non si applica.
Credo che il modo migliore per provare a fare chiarezza sui profili appena evidenziati sia lasciar “parlare” la normativa, almeno dove il suo portato letterale sia inequivocabile, a tutti i livelli rilevanti: quello europeo (la direttiva SMAV), nazionale di rango primario (il decreto legislativo “Romani” di recepimento – e non solo…- della direttiva) e nazionale di rango secondario (appunto i regolamenti attuativi del Romani di cui stiamo parlando).
Una analisi di questo genere può essere utile per capire se ci sia un contrasto tra il livello regolamentare, quello legislativo e quello comunitario. Come è a tutti noto, infatti, il primo è vincolato a rispettare il secondo ed il secondo, a sua volta, il terzo.
Analizziamo il primo profilo, quello che abbiamo definito “funzionale”, cominciando dal livello più “basso”, quello dei regolamenti attuativi approvati dall’AGCOM. Più precisamente, i due regolamenti prevedono che la disciplina autorizzatoria si applichi ai fornitori di tali servizi media audiovisivi, nel caso in cui, in capo a questi ultimi, vi sia congiuntamente: 1) responsabilità editoriale, in qualsiasi modo esercitata; 2) sfruttamento economico della propria attività; 3) una soglia minima di ricavi derivanti da attività tipicamente radiotelevisive (pubblicità, televendite, sponsorizzazioni, contratti e convenzioni con soggetti pubblici e privati, provvidenze pubbliche e da offerte televisive a pagamento). Tale soglia, individuata in 100.000 euro, rappresenta, a detta dell’Autorità – punto a mio avviso poco condivisibile – un parametro di riferimento per qualificare l’attività in effettiva concorrenza con la televisione, ed è basata sulle dimensioni economiche di settori affini; 4) infine l’Autorità di garanzia ha ritenuto di precisare che l’esclusione dall’ambito di applicazione del regolamento dei servizi basati su contenuti generati da utenti privati opera a condizione che in capo agli stessi non vi sia alcuna responsabilità editoriale. Qualora, invece, dovessero esservi congiuntamente responsabilità editoriale, in qualsiasi modo esercitata, e sfruttamento economico da parte dei soggetti che provvedono all’aggregazione dei contenuti, anche tali servizi rientrerebbero nella categoria di servizio di media audiovisivo a cui, a patto che sia sussistente il requisito geografico di cui si parlerà successivamente, va applicata la disciplina dettata dal regolamento.
Andiamo ad analizzare uno per uno i 4 punti che insieme compongono il profilo funzionale del fornitore di servizi media audiovisivi assoggettabile a detta disciplina.
Per quanto riguarda il primo requisito della responsabilità editoriale, esso è conforme a quanto prevede il nuovo art. 2, c. 2, b del nuovo Testo Unico (post-Romani), a norma del quale “fornitore di servizi di media è la persona fisica o giuridica cui è riconducibile la responsabilità editoriale della scelta del contenuto audiovisivo del servizio di media audiovisivo e ne determina le modalità di organizzazione; sono escluse dalla definizione di fornitore di servizi di media le persone fisiche o giuridiche che si occupano unicamente della trasmissione di programmi per i quali la responsabilità editoriale incombe a terzi”. Il che, a sua volta, è in linea con la ratio della direttiva SMAV che, come è ovvio che sia, condiziona la qualifica di fornitore di servizi media audiovisivi al fatto che il soggetto abbia il controllo sui contenuti. Il considerando 23 della direttiva è abbastanza chiaro a questo riguardo: “la nozione di responsabilità editoriale è essenziale per la definizione del ruolo del fornitore di servizi di media e, di conseguenza, per quella dei servizi di media audiovisivi”.
Per quanto riguarda il secondo presupposto prima identificato, quello dello sfruttamento economico, anche questo è in linea con quanto prevede il Testo Unico novellato dal Romani, che esclude dal novero dei servizi di media audiovisivi, al nuovo art. 2, c. 1, «i servizi prestati nell’esercizio di attività precipuamente non economiche”. Il che è, a sua volta, conforme con la direttiva che, nella seconda parte del suo considerando 16, prevede che il suo ambito di applicazione “deve limitarsi ai servizi definiti dal trattato, inglobando quindi tutte le forme di attività economica, comprese quelle svolte dalle imprese di servizio pubblico, ma non dovrebbe comprendere le attività precipuamente non economiche”
Con riferimento al terzo elemento prima identificato (ci si vuole concentrare ora, lo si ricorda, sugli art. 2 dei regolamenti in questione che prevede che devono intendersi per servizi che non siano in concorrenza con la radiodiffusione televisiva quei servizi i cui ricavi annui derivanti da pubblicità, televendite, sponsorizzazioni, contratti e convenzioni con soggetti pubblici e privati, provvidenze pubbliche e da offerte televisive a pagamento non superino centomila euro) bisogna fare due considerazioni. Sotto il profilo della legittimità formale esso non pare attaccabile, perché non fa altro che attuare (cosa che un regolamento attuativo deve fare), nel senso di sviluppare, quanto previsto dall’art. 2, c. 1 del nuovo Testo Unico che prevede che non sono da considerarsi servizi di media audiovisivi i servizi che non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva. Il che è, a sua volta, conforme con la direttiva SMAV che prevede lo stesso identico portato al considerando 16 prima ricordato. Per quanto riguarda il profilo di opportunità della fissazione di tale ammontare, inutile ribadire che la valutazione è assai negativa. La soglia è ridicolmente bassa.
Andiamo adesso al quarto punto prima evidenziato, allorchè si dice, agli artt. 2 dei due regolamenti che “l’attività di comunicazione e di messa a disposizione di contenuti audiovisivi attraverso internet è libera e, in particolare, sono esclusi dal campo di applicazione del presente regolamento (…) siti internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati che provvedono alla selezione e alla organizzazione dei contenuti medesimi a fini di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità di interesse, tranne nel caso in cui sussistano, in capo ai soggetti che provvedono all’aggregazione dei contenuti medesimi, sia la responsabilità editoriale, in qualsiasi modo esercitata, sia uno sfruttamento economico”.
Il punto è stato criticato da autorevolissimi commentatori, come Guido Scorza, secondo cui, prevedendo tale specificazione, “la disciplina dettata dall’AGCOM propone una rivisitazione – peraltro di dubbia legittimità perché volta a ridefinire una previsione di rango superiore, ovvero primario – di quanto disposto dall’art. 2 del Testo Unico”. Ci si riferisce in particolare al punto in cui tale disposizione include tra i soggetti che non devono considerarsi servizi media audiovisivi, in quanto non in concorrenza con la radiodiffusione televisiva, “i siti Internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità di interesse”.
Io, onestamente, però, non ci vedo alcuna rivisitazione. Abbiamo appena visto, infatti, che anche l’art. 2 del Testo Unico, così come novellato dal Romani, prevede, come del resto fa la direttiva SMAV che l’ha recepito, la responsabilità editoriale e lo sfruttamento economico quali condizioni per la identificazione di un fornitore di servizio media-audiovisivi.
Si aggiunga, a fortiori, che l’art. 1 dei due regolamenti ribadiscono espressamente, riprendendo letteralmente il portato della disposizione del decreto Romani appena citata, che “non rientrano nella nozione di “servizio di media audiovisivo”:- i servizi prestati nell’esercizio di attività precipuamente non economiche e che non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva, quali i siti internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fine di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità di interesse”.
In poche parole qui si sta dicendo che o hai responsabilità editoriale, fai sfruttamento economico della tua attività, hai una soglia di fatturato superiore ai 100.000 euro ed allora presti un servizio media audiovisivo e, dunque, se in più hai un “collocamento geografico” che andremo tra un momento ad analizzare, sei vincolato a chiedere l’autorizzazione o a inviare una segnalazione certificata di inizio attività, oppure mancano uno od entrambi i due requisiti della responsabilità editoriale e dello sfruttamento economico ed allora non sei un fornitore di servizi media audiovisivi e non devi preoccuparti di niente, a prescindere da dove ti trovi. In altre parole una piattaforma che ospita user generated content anche se che presta tale servizio a fine di lucro ma non ha controllo editoriale suoi contenuti, non è comunque soggetta alla disciplina prevista dai due regolamenti.
Tutto qui. Tutto dunque, per quanto riguarda il profilo funzionale, in linea con il decreto Romani e la direttiva SMAV che, sempre allo stesso considerando 16, aggiunge che non rientrano nell’ambito di applicazione della normativa “i siti Internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità di interesse”.
Passiamo adesso, più brevemente, a guardare all’altro profilo rilevante per l’applicazione della disciplina, quello che abbiamo definito “spaziale”. L’art. 4 del regolamento per le webtv prevede che, anche se sei un fornitore di servizi di media audiovisivi ai sensi della normativa italiana e comunitaria, ed hai quindi le caratteristiche che si sono viste in precedenza, non devi chiedere alcuna autorizzazione se rientri tra “i fornitori di servizi di media audiovisivi lineari o radiofonici legittimamente stabiliti in uno Stato appartenente all’Unione europea o in uno Stato parte della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla televisione transfrontaliera, e in questo legittimamente esercenti, non sono tenuti a richiedere l’autorizzazione per prestazione di servizi di media audiovisivi lineari o radiofonici ai sensi del presente regolamento”. Così come l’art. 4 del regolamento sulle modalità di trasmissione on demand prevede che “i fornitori di servizi di media audiovisivi a richiesta, legittimamente stabiliti in un Stato appartenente all’Unione europea o in uno Stato parte della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla televisione transfrontaliera e in questo legittimamente esercenti, non sono tenuti a presentare una segnalazione certificata di inizio attività ai sensi del presente regolamento”
E’ evidente che è cruciale stabilire, in entrambi i casi, quando un fornitore di servizi media audiovisivi su internet possa considerarsi stabilito in un determinato Stato membro e non in un altro. A questi fini è utilissimo guardare all’orientamento della giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia dell’Unione europea che, ai fini dell’identificazione della sede di stabilimento della società che presta servizi di internet, individua tale luogo nello Stato in cui si svolge in modo effettivo la sua attività economica. Inoltre ci viene in soccorso anche il considerando 19 della direttiva 31/2000 sul commercio elettronico che fa riferimento all’ipotesi in cui sia difficile determinare da quale, tra i vari luoghi di stabilimento di una società che presta servizi dell’informazione, la fornitura del servizio sia prestato, e si precisa che, in questo caso, “tale luogo è quello in cui il prestatore ha il centro delle sue attività”. D’altronde è lo stesso decreto Romani, che il regolamento in questione attua, che specifica che “sono soggetti alla giurisdizione italiana i fornitori di servizi di media audiovisivi e di radiofonia stabiliti in Italia conformemente al comma 3″ e il comma 3 dice che si considera stabilito in Italia quando ha la sua sede principale o una parte rilevante degli addetti che sono stabiliti in Italia”.
Dunque, a contrario, se la sede principale del fornitore di servizi non è in Italia o, per riprendere la normativa europea, il centro effettivo del suo business non è in Italia, esso non deve richiedere alcuna autorizzazione o presentare una certificazione.
Tutto questo sul presupposto, che emerge chiaramente tra le righe dei due regolamenti, che lo stesso fornitore sia stato autorizzato, ovviamente nel caso in cui sia prevista un’autorizzazione dalla legge nazionale- visto che la direttiva non pone alcun obbligo in questo senso – nello Stato membro in cui ha la sede principale della tua attività economica”
Definiti in questo modo i presupposti funzionali e spaziali (geografici) che delimitano l’ambito di applicazione della disciplina prevista dal regolamento, in che modo essa può toccare YouTube?
La prima domanda da farsi per capire se a YouTube sia o meno applicabile la disciplina autorizzatoria prevista dal regolamento è se, per quanto riguarda il profilo funzionale (ciò YouTube che fa), si tratta di un fornitore di un servizio media audiovisivi e se quindi ha responsabilità editoriale, sfrutta economicamente la sua attività e può entrare in concorrenza, anche alla luce della sua soglia di fatturato, con la radiodiffusione televisiva.
E’ evidente che è sul primo elemento, quello della responsabilità editoriale, che le opinioni sono più discordanti e non è ovviamente questa la sede per risolvere la questione, né tantomeno io la persona competente per farlo (la mia impressione è comunque che sia difficile provare oggi una responsabilità editoriale in senso stretto in capo a YouTube).
Un motivo in più per non entrare in questa disputa è riflettere sul fatto che, anche se, per ipotesi, si dovesse concludere che per la normativa italiana YouTube sia da considerarsi un fornitore di servizi media audiovisivi, in ogni caso la disciplina dettata dal regolamento, mi pare, non possa essere applicata allo stesso YouTube perché è carente, nel caso di specie, il presupposto spaziale o geografico previsto per la sua applicazione: ovvero, com’è noto, l’Italia non è lo Stato membro dell’Unione europea in cui YouTube ha la il centro effettivo o prevalente della sua attività.
Anche a voler considerare che il numero degli addetti presenti nella sede italiana possa essere considerata “significativa”, è lo stesso art. 1 bis del “nuovo” Testo Unico a levarci qualsiasi dubbio prevedendo che “se una parte significativa degli addetti allo svolgimento dell’attivita’ di servizio di media audiovisivo opera sia in Italia sia nell’altro Stato membro dell’Unione europea, il fornitore si considera stabilito in Italia qualora sul territorio italiano si trovi la sua sede principale””””””2ììì lklo”.
“E nessuno, credo, possa negare che sia in Irlanda e non in l’Italia, la sede principale europea di stabilimento di YouTube” bisogna aggiungere “Se quindi non è prevista alcuna autorizzazione in Irlanda, nessuna autorizzazione in Europa per Youtube è necessaria”
Dunque può dirsi che, ai sensi della nozione di stabilimento dettata dalla disciplina europea e che è rilevante ai nostri fini, YouTube non è stabilito in Italia. Ad esso si applicherà dunque, ammesso e non concesso che lo stesso YouTube si possa fare rientrare, sotto il profilo funzionale, tra i fornitori di servizi media audiovisivi, l’esonero dalla presentazione di qualsiasi segnalazione certificata di inizio attività o richiesta di autorizzazione prevista dai due regolamenti in questione.
In conclusione, per quanto riguarda esclusivamente gli aspetti oggetto di analisi, non sembra emergere un contrasto tra rispettivamente, la fonte regolamentare, quella legislativa e quella comunitaria. Si può e si deve discutere invece sull’opportunità, in termini di politica economica del diritto, di fissare la soglia “di concorrenza” ai 100.000 euro. A me pare sia assolutamente inefficace per realizzare lo scopo che si prefigge (ammesso che lo scopo sia proprio quello…).
A mio avviso, il punto più debole del decreto Romani e dunque di tutte le norme di carattere secondario che, come i regolamenti oggetto di analisi, hanno come presupposto della loro vigenza la legittimità dello stesso decreto, rimane il marchiano eccesso di delega di cui esso è viziato e che ho cercato di fare emergere altrove. Ricordo che l’istituto dell’illegittimità costituzionale consequenziale comporta l’annullamento di tutta la normativa che dipende da quella “originaria” valutata incostituzionale. Sorte che potrebbe dunque spettare, se le cose dovessero andare in un certo modo, anche ai regolamenti di cui stiamo parlando.