Commento alla Cass., Sez. V, n.16975 del 4 giugno 2020
Presidente: E. Scarlini
Relatore: M.T. Belmonte
PG: T. Epidendio
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in materia di know-how, statuendo il doppio binario di protezione previsto dall’art. 98 del codice della proprietà industriale e dall’art. 623 del codice penale.
SOMMARIO: Premessa – La sentenza della Suprema Corte, Sez. Penale, n. 16975 del 4 giugno 2020: (i) I fatti di causa; (ii) Il know how nella prospettiva del diritto penale; (iii) Il know how nella prospettiva del diritto industriale; (iv) Le ragioni del doppio binario – Conclusioni.
Premessa – In un sistema economico sempre meno improntato alla fisicità, e in cui il valore dell’esperienza lavorativa maturata sul campo è in costante aumento, la tutela dell’impresa passa anche attraverso la salvaguardia di beni immateriali, astratti e spesso difficili da comprendere appieno nel loro fenomeno, come nel caso del know-how. Da tempo la giurisprudenza è stata chiamata a riportare ordine nel complesso sistema di norme poste in materia dal legislatore, il quale – cercando di tenere il passo con lo sviluppo frenetico dell’economia – ha contribuito al proliferare di una stratificazione normativa il cui coordinamento, per l’interprete, risulta tutt’altro che agevole.
Proprio in materia di know-how il legislatore[1] ha cercato, attraverso il Codice della Proprietà Industriale, di parificare i c.d. diritti titolati (come marchi e brevetti, i quali sono formalizzati attraverso, appunto, un titolo) e i diritti non titolati (come il know-how)attraverso la quasi-privativa sul segreto commerciale di cui agli artt. 98-99[2]c.p.i. Tuttavia, la tutela è accordata solo a quelle informazioni – da intendersi secondo un ampio spettro semantico – non facilmente accessibili e aventi valore economico in sé oltre ad essere sottoposte a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.
Pur mancando un’esplicita ed analoga previsione in materia penale, da tempo la Corte di Cassazione è pacifica nell’ammettere la tutelabilità del know-how, estendendo l’applicabilità dell’art. 623 c.p., in materia di rivelazione di segreti scientifici e industriali, a quel “coordinato di regole tecniche di per sé non inventive volte a governare in modo ottimale un processo industriale”. In particolare, secondo le sezioni penali della Corte, costituisce know-how “qualsiasi notizia attinente a metodi di progettazione, produzione messa a punto dei beni prodotti che caratterizzano la struttura industriale, vale a dire quel patrimonio cognitivo ed organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di un apparato industriale. In altre parole, reputa oggetto del reato il segreto industriale in senso lato, comprensivo di quell’insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e dunque la compressione dei tempi di produzione” (Cassazione penale sez. II, 09/12/2003, n.6577; Cassazione penale sez. V, 18/05/2001, n.25008).
La recente sentenza della Suprema Corte, Sez. Penale, n. 16975 del 4 giugno 2020, forte di una consolidata tradizione giurisprudenziale in materia, fornisce alcune chiarificazioni importanti, in particolare sulla rilevanza, in sede penale, dei requisiti per la tutelabilità del know-how contemplati in sede industrialistica.
Viene dunque tracciata una puntuale, seppur sintetica, ricostruzione normativa del doppio binario di protezione e, dunque, circa l’applicazione della norma penale di cui all’art. 623 c.p. e il contestuale richiamo all’art. 98 c.p.i. in tema di “segreti commerciali”. Una dualità incapace di fondersi perché differenti sono i presupposti oggettivi e il grado di “segretezza” che connotano le norme invocate. La tutela industrialistica non assurge, quindi, a norma di carattere generale ma solo complementare.
La fattispecie da cui origina la pronuncia in commento è tutt’altro che residuale, anzi potremmo sostenere che è la frequente evoluzione di rapporti di lavoro di soggetti che occupano posizioni apicali nell’organigramma aziendale, da cui scaturisce la contrapposizione tra l’interesse alla protezione del patrimonio aziendale, da un lato, e la tutela del libero mercato insieme alla libertà di scegliere dove e con chi lavorare, dall’altro, con il conseguente “travaso di know how” dall’azienda ex datoriale alla nuova realtà imprenditoriale. Si tratta, quindi, del tipico spin-off di ex dipendenti che costituiscono o entrano a far parte di una nuova realtà imprenditoriale apportando le conoscenze maturate nel tempo.
La sentenza della Suprema Corte, Sez. Penale, n. 16975 del 4 giugno 2020
(i) I fatti di causa.
La sentenza oggetto di studio riguarda una vicenda relativa allo sfruttamento di conoscenze riservate da parte di alcuni ex dipendenti di una società operante nell’ambito della progettazione e commercializzazione di apparecchiature meccaniche, i quali, terminato il rapporto di lavoro con la suddetta società, avrebbero utilizzato le conoscenze acquisite (know how) durante gli anni di lavoro presso la stessa, attingendo a quelle conoscenze ed esperienze tecniche per realizzare in poco tempo un prodotto competitivo sul mercato rispetto a quello commercializzato dall’azienda da cui provenivamo.
L’impresa ex datrice di lavoro, nel tentativo di tutelare il proprio prodotto – una sofisticata chiave dinamometrica denominata “Torque supervisor” – propone querela e ottiene, tra l’altro, la condanna per gli ex dipendenti in primo grado per i reati di cui all’art. 623 c.p. e 171 bis l.633/1941.
Gli imputati impugnano la sentenza resa in primo grado e la Corte d’Appello di Milano, conferma la condanna per il solo reato di cui all’art. 623 c.p. anche se con una pena ridotta.
In entrambi i gradi di giudizio le argomentazioni della parte civile, accolte dai giudici del merito, hanno riguardato l’illecito sfruttamento di conoscenze/informazioni riservate facenti parte del patrimonio aziendale, frutto di un lavoro di equipe protrattosi per diversi anni per cui erano stati necessari investimenti economici consistenti da parte dell’azienda datoriale. Del tutto irrilevante è stato considerato il patrimonio di conoscenze personali e la notorietà delle informazioni singolarmente intese.
Gli imputati hanno quindi proposto ricorso in Cassazione, prospettando vari motivi di illegittimità della sentenza, tra i quali rileva, ai fini di quest’analisi, il prospettato errore di motivazione in riferimento alla violazione dell’art. 623 c.p. in relazione all’art. 98 c.p.i., nonché all’art. 2 n. 1 della Direttiva UE 2016/943, opponendo, in prima battuta, che “non potesse riconoscersi valore di know-how al processo produttivo in discussione”, in quanto di pubblico dominio a partire dal momento della messa in commercio; in secondo luogo – e qui il fulcro del ricorso – che i giudici di merito, “nell’identificare il processo produttivo della chiave dinamometrica come know-how – non (hanno tenuto) conto dei requisiti prescritti dall’art. 98 c.p.i. ai fini della tutela della segretezza”.
(ii) Il know how nella prospettiva del diritto penale
La Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi su diverse questioni, di cui due, strettamente connesse tra loro, particolarmente rilevanti ai fini di quest’analisi. Da un lato, cosa costituisca know-how, dall’altro quali caratteristiche esso debba rispettare per poter ricevere tutela in sede penale. Individuati quindi i confini del know-how, la Cassazione si pronuncia sulla valenza della nozione industrialistica di segreto commerciale ai fini della tutela penale.
L’incipit del secondo motivo di ricorso riporta una questione che, seppur risolta in modo molto conciso dalla Corte – la quale si limita, per lo più, a confermare il ragionamento dei giudici di merito – pure ha valore pregiudiziale nel discorso intorno ai requisiti del know-how.
Opponevano i ricorrenti come i giudici di merito avessero erroneamente identificato il prodotto oggetto di contesa tra le due società in termini di know-how, e non piuttosto di puro e semplice software. Nella prospettazione della difesa, infatti, anzitutto non vi sarebbe stato alcun indebito sfruttamento del programma informatico, in quanto, una volta immesso nel commercio, il codice sorgente era divenuto noto e fruibile al pubblico. In ogni caso, essi non avrebbero in alcun modo sfruttato le loro preconoscenze in modo abusivo, ma si sarebbero limitati, al più, a duplicare parte del codice da loro già prodotto. L’accusa, quindi, si sarebbe potuta circoscrivere all’ambito dell’art. 171-bis l. 633/1941 (norma speciale rispetto l’art. 623 c.p.), che persegue proprio la duplicazione abusiva del software. Accusa per la quale, per altro, gli imputati erano già stati assolti in secondo grado.
Tuttavia, nella complessità dell’operazione di scrittura di un programma informatico, l’azione di copia del codice sorgente non esclude, dall’altro lato, lo sfruttamento delle preconoscenze dei programmatori. Condividendo il ragionamento svolto dai giudici di merito, la stessa Cassazione sottolinea come – e qui l’errore dei ricorrenti e il fulcro della motivazione sul punto – il know-how non coincida con la conoscenza, in sé, delle righe di software che compongono, in parte o in tutto, un applicativo, quanto piuttosto con l’insieme di conoscenze derivanti dall’esperienza degli imputati, che hanno permesso ai programmatori non tanto di scrivere un software analogo (e quindi duplicarlo), ma di farlo in un tempo significativamente inferiore rispetto quello che sarebbe stato richiesto in assenza di queste nozioni pratiche precedentemente acquisite. Non è, come prospettato dai ricorrenti, il software in sé il vero patrimonio dell’impresa, quanto l’esperienza in materia accumulata negli anni che le ha permesso di svilupparlo, contribuendo a renderla una società altamente competitiva sul mercato e attribuendole, quindi, l’aspettativa di un maggiore profitto economico.
Definiti così con più precisione i caratteri del know-how, la Corte prosegue affrontando il più complesso tema del rapporto tra la nozione industrialistica e penalistica di segreto commerciale, e, in particolare, valutando se, ai fini dell’applicazione del reato di cui all’art. 623 c.p., in materia di rivelazione di segreti, il giudice debba tenere conto dei requisiti di cui all’art. 98 c.p.i.
L’art. 623 c.p. sanziona con la reclusione fino a due anni chiunque, venuto a cognizione per ragioni del suo stato o ufficio, o della sua professione o arte, di segreti commerciali o di notizie destinate a rimanere segrete, sopra scoperte o invenzioni scientifiche, li rivela o li impiega a proprio o altrui profitto.
E’ pacifico che non siano coperte da segreto le innovazioni già oggetto di brevetto (o mini-brevetto), poiché questo comporta, per sua natura, la piena avvenuta divulgazione delle stesse.
Non solo. Come ha chiarito la sentenza in commento, ai fini della configurazione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 623 c.p. non è richiesto che la scoperta o l’applicazione rivelata (a cui le informazioni segrete si riferiscono) presenti i requisiti della brevettabilità. Quindi il giudizio di novità e altezza inventiva richiesti dalla disciplina industrialistica per la concessione della privativa brevettuale non è oggetto di indagine in campo penale (sul punto: Cass. V, n. 11965/2010; Cass. V, n. 25174/2005; Cass. V, 23 giugno 2000).
(iii) Il know how nella prospettiva del diritto industriale
I segreti commerciali sono definiti dal “nuovo” art. 98, comma 1, secondo capoverso, codice della proprietà industriale di cui al d.lgs. n. 30/2005, introdotto dall’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 63/2018, come “le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni:
- a) siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore;
- b) abbiano valore economico in quanto segrete;
- c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette,a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete”.
Viene, di conseguenza, rinominata anche la rubrica dell’articolo[3].
In sostanza, in ambito industrialistico viene riconosciuta una nuova (quasi) privativa che si allontana dalla disciplina concorrenziale, posto che i destinatari della disciplina non solo imprese ma anche le persone fisiche, con l’obiettivo – a livello europeo – di creare una tutela armonizzata. Il segreto commerciale non viene quindi solo protetto nell’ambito dei rapporti concorrenziali tra imprese. Questo significa che anche una persona fisica che detiene legittimamente un secreto commerciale può cederlo a svariato titolo; allo stesso modo un’impresa può difendersi dall’uso colpevole o dalla colpevole ignoranza nell’uso illecito dei propri segreti commerciali da parte di persone fisiche. Solo la completa buona fede esclude l’illiceità della condotta. Il rischio di tale estensione nella tutela del secreto commerciale riguarda la compressione della circolazione delle conoscenze con la conseguente creazione di monopoli informativi a durata illimitata.
(iv) Le ragioni del doppio binario
Attraverso una corposa motivazione, che guarda tanto al consolidato orientamento giurisprudenziale in materia quanto alla stessa ratio dell’art. 623 c.p., la Corte esclude, una volta per tutte, la rilevanza della nozione industrialistica di segreto commerciale in sede penale, distinguendo in modo netto i due ambiti di applicazione. É impossibile, a parere della Corte, operare una assimilazione tra il segreto di cui all’art. 623 c.p. e il secreto commerciale di cui all’art. 98 c.p.i.
Diversi elementi orientano la Corte in questo senso.
Anzitutto, le modifiche apportate alle norme del codice di proprietà industriale ed al codice penale lascerebbero sostanzialmente intatto l’impianto normativo preesistente.
Mutuare la nozione di segreto commerciale a partire dai requisiti dell’art. 98 c.p.i., quindi, significherebbe attribuire alla disposizione industrialistica valore di norma integrativa del precetto penale, nonché al concetto di segreto industriale, come definito da tale norma, valore generale. Questa interpretazione, oltre a contrastare esplicitamente con lo stesso codice della proprietà industriale[4], è per di più criticabile alla luce della lettera della norma, la quale, per definire i requisiti del know-how, non ha operato alcun richiamo all’art. 98 del c.p.i.
Inoltre, anche ragionando sulla base del bene giuridico tutelato dalla norma, l’art. 623 c.p. – a differenza dell’art. 98 c.p.i. – oltre a tutelare il patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio, la manutenzione di un apparato industriale, ha altresì come obiettivo quello di punire la condotta infedele del dipendente.
É di tutta evidenza, quindi, come “la copertura offerta dall’art. 623 c.p., vada oltre quella predisposta dall’ordinamento civilistico all’invenzione brevettabile” e come “ai fini della tutela penale del segreto industriale, novità (intrinseca od estrinseca) ed originalità non siano requisiti essenziali delle applicazioni industriali, poiché non espressamente richiesti dal disposto legislativo e perché l’interesse alla tutela penale della riservatezza non deve necessariamente desumersi da questi attributi delle notizie protette” (Cass., Sez. V, n.16975 del 4 giugno 2020).
Rimane comunque la necessità di individuare, nel caso concreto, il bene oggetto di tutela sulla base dell’esistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto, che, se non viene rinvenuto sulla base delle indicazioni dell’art. 98 c.p.i. dovrà essere ricercato altrove. Interesse che, nel caso concreto, i giudici di merito avevano correttamente identificato.
A parere della Corte, quindi, l’evoluzione giurisprudenziale che fino a questo momento aveva caratterizzato la tutela penale del know-how rimane attuale anche dopo l’intervento legislativo del 2018.
Può quindi “escludersi che il concetto penalistico di segreto soffra interferenze ad opera di quello ricavabile dall’art. 98 del codice di proprietà industriale (in tal senso Cass. Pen., Sez. 2, 11 maggio 2010, n. 20647; Sez. 5 n. 48895 del 20/09/2018, entrambe non mass.), risultando accolta, dall’art. 623 c.p., una nozione di segreto commerciale più ampia di quella descritta dall’art. 98 c.p.i.” Quella che accomunerebbe gli artt. 98 c.p.i. e 623 c.p., quindi, sarebbe una mera identità terminologica, “non sufficiente per giustificare una assimilazione anche della disciplina, in due settori diversi e indipendenti dell’ordinamento”.
Conclusioni
Per la prima volta la Corte di Cassazione, mettendo in secondo piano la coincidenza letterale (l’uso del termine “commerciale” in ambito civile e penale in ragione delle modifiche introdotte dalla direttiva Trade secret), statuisce in modo inequivocabile che tra il segreto industriale di cui all’art. 623 c.p. e i segreti commerciali di cui all’art. 98 c.p.i. non possa esservi alcuna assimilazione. L’art. 98 c.p.i. non può costituire norma integrativa dell’art. 623 c.p., e può escludersi che il concetto penalistico di segreto soffra interferenze ad opera di quello ricavabile dll’art. 98 c.p.i., risultando accolta dall’art. 623 c.p. una nozione di segreto commerciale più ampia e, di fatto, diversa.
L’art. 98 c.p.i. non è norma idonea a definire i confini applicativi della fattispecie previsti dall’art. 623 c.p; tuttavia, in presenza di un know-how avente i requisiti previsti dall’art. 98 c.p.i., potrà accordarsi la tutela prevista dall’art. 623 c.p., trattandosi di notizie segrete ed essendovi un interesse giuridicamente tutelato ( individuabile nella ricorrenza dei requisiti richiesti dalla norma civilistica) al mantenimento del segreto. Laddove, invece, non sussistano i requisiti previsti dall’art. 98 c.p.i., dovrà individuarsi aliunde l’esistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto, tale, quindi, da poter giustificare l’invocata tutela penale.
[1]Direttiva europea 2016/943 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2016,sulla protezione del know-how e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) attuata in Italia dal d.lgs. 63/2018.
“L’espressione non introduce alcuna novità circa il know how commerciale che era già incluso, insieme alle informazioni tecnico-industriali, nell’ambito di protezione previsto dall’art. 98 c.p.i. secondo una giurisprudenza consolidata” (cfr. OTTOLIA, sub art. 98 c.p.i., in L.C. UBERTAZZI (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, 2019, p. 602 ss. e OTTOLIA “Il D.lgs. n. 63/18 di attuazione della direttiva 261/943/UE sulla protezione dei segreti commerciali fra tutela e bilanciamenti” in Le nuove leggi civili e commentate 5/2019).
[2]Parla di ‘‘quasi-privativa’’ A. Ottolia, Big Data e innovazione computazionale, Milano, 2017, 49 esegg.; cfr anche A. Vanzetti, La tutela ‘corretta’ delle informazioni segrete, in Riv. Dir. Ind., 2011, I, 95 esegg. A. Andolina Tutela delle liste clienti tra concorrenza sleale, segreto industriale e banche dati commento alla sent. Trib. Bologna, Sez. Imp., 4 luglio 2017 in Giur. It maggio 2018.
In particolare il considerando 2 della direttiva2016/943 «Le imprese, a prescindere dalla loro dimensione, attribuiscono ai segreti commerciali lo stesso valore dei brevetti e di altre forme di diritto di proprietà intellettuale. Esse usano la riservatezza come strumento di competitività commerciale e di gestione dell’innovazione nel settore della ricerca, e in relazione ad un’ampia gamma di informazioni, che si estendono dalle conoscenze tecnologiche ai dati commerciali quali ad esempio le informazioni sui clienti e i fornitori, i piani aziendali e le ricerche e le strategie di mercato. Le piccole e medie imprese (PMI) attribuiscono un valore anche maggiore ai segreti commerciali e vi fanno un più grande affidamento. Tutelando una gamma così ampia di know-how e di informazioni commerciali, in via complementare o alternativa ai diritti di proprietà intellettuale, i segreti commerciali consentono al creatore e all’innovatore di trarre profitto dalle proprie creazioni o innovazioni e quindi sono particolarmente importanti per la competitività delle imprese nonché per la ricerca, lo sviluppo e la capacità innovativa».
[3] Da “Rivelazione di segreti scientifici o industriali” a “Rivelazione di segreti scientifici o commerciali”.
[4] Si veda, in proposito, l’art. 99 c.p.i., il quale, operando esplicito riferimento alla disciplina della concorrenza sleale, comporta che l’art. 2598 c.c., sia applicabile, in via complementare, qualora gli atti di acquisto, utilizzazione e divulgazione soddisfino i requisiti soggettivi e oggettivi prescritti per l’azione di concorrenza sleale.