Non accenna a placarsi il fuoco della polemica sulla riforma della normativa anglosassone in materia di copyright, anche adesso che la tanto dibattuta private copying exception è diventata realtà.
Lo scorso 27 gennaio 2015 la High Court Inglese ha accolto l’istanza, presentata dalla BASCA (British Academy of Songwriters, Composers and Authors), unitamente alla Musicians’ Union, sindacato dei musicisti anglosassoni, e all’associazione UK Music, per l’ottenimento dell’autorizzazione a richiedere la judicial review della neonata normativa sulla eccezione per copia privata.
L’Alta Corte ha difatti riconosciuto la contrarietà dell’attuale disciplina – connotata dall’assenza della previsione di una fair compensation a favore dei titolari dei diritti – al dettato della direttiva 2001/29/CE (c.d. direttiva InfoSoc), autorizzando le associazioni istanti a chiedere la revisione della decisione governativa di escludere un meccanismo di equo compenso.
In attesa del responso – l’udienza per la judicial review è prevista per il mese di maggio 2015 – è utile fare un passo indietro, al fine di comprendere a pieno i termini del dibattito.
Il 29 luglio 2014 il Governo anglosassone ha finalmente abbattuto l’antico baluardo del divieto di copia privata, introducendo una norma ad hoc che, consentendo di derogare all’esclusività del diritto di riproduzione, legittima l’effettuazione di copie, a fini non commerciali, dei contenuti protetti.
Alla base dell’intervento riformatore, l’esigenza – da più partiavvertita– di procedere a un ammodernamento della disciplinasul copyright in grado di colmare il gap esistente tra dato normativo e prassi; uno scollamento, divenuto ormai lampante, tra divieto legislativo – quello di eseguire copie private dei contenuti protetti – e comportamento delle parti.
Più precisamente, nel vigore della precedente disciplina, qualsiasi attività di riproduzione di materiali protetti, anche se confinata nella sfera domestica, richiedeva la preventiva autorizzazione da parte del titolare dei diritti –c.d. copyright owner – ; ne discendeva l’illiceità di qualsivoglia operazione di copia dei contenuti, ivi comprese attività routinarie quali quella di back up di dati e di space shifting.
Un’ illiceità – preme evidenziare – che nella maggior parte dei casi risultava ignorata dagli utenti – i quali agivano nella convinzione di operare within the law – e tollerata dai titolari dei diritti, i quali solo in rarissimi casi si attivavano a fronte di attività costituenti ““reasonable acts of private copying”.
La nuova section 28 B, realizzando un ormai indilazionabile allineamento della disciplina anglosassone a quella degli altri Paesi Europei, ha finalmente introdotto una eccezione per copia privata in grado di spogliare del connotato della illiceità attività ormai saldamente radicate nel comportamento degli users e da sempre percepite come lecite e innocue.
A ben vedere, si tratta di una eccezione formulata con estrema cautela, in un’ottica di minimizzazione del potenziale pregiudizio per i copyright owners e di accorto – o forse poco coraggioso? – bilanciamento tra le istanze degli utenti e quelle dei titolari dei contenuti.
In primis, la nuova private copy exception circoscrive la possibilità di effettuare copie ad uso privato delle opere protette ai soli contenuti posseduti “on a permanent basis”,con esclusione dunque dei materiali noleggiati, presi in prestito o di cui gli utenti fruiscano via streaming.
E’ inoltre tassativamente vietato il trasferimento permanente delle copie realizzate a soggetti terzi, anche all’interno del nucleo familiare, il che consente di ridurre in misura significativa il pregiudizio per gli autori legato ai lost incomesdelle vendite.
Permane, infine, la facoltà per i titolari dei diritti di utilizzare misure tecnologiche di protezione (TPM), quale strumento di monitoraggio e controllo della effettuazione di copie da parte degli utenti.
Una “narrow exception”, com’è stata da subito definita , i cui rigidi limiti applicativi incontrano il loro contrappeso nella mancata previsione di un sistema di levy, in totale discordanza con quanto previsto dalle normative interne degli altri Paesi dell’Unione, la cui disciplina sulla copia privata risulta imperniata sul meccanismo della fair compensation.
Invero, il Governo anglosassone, sin dai primi vagiti della riforma del CDPA, si è mostrato tassativamente contrario alla previsione di un meccanismo di equo compenso per copia privata, evidenziando come la formulazione di una privatecopying exception così cauta nel preservare gli interessi dei rightholders rendesse del tutto superflua e ingiustificata l’imposizione di un levy system.
Secondo quanto ampiamente argomentato dall’esecutivo britannico, se è vero che la ratio della fair compensationrisiede nella esigenza di indennizzare il titolare del copyrightper il pregiudizio derivantegli dalla compressione del diritto esclusivo di riproduzione delle opere protette, deve allora ritenersi che tale necessità di remunerazione non sussista laddove tale sacrificio sia di entità così insignificante da non incidere in misura effettiva sui diritti del titolare.
Una logica di pesi e contrappesi, quella su cui si fonda la private copying exception che, sebbene ineccepibilmente coerente nel calibrare gli interessi delle parti, ha incontrato l’agguerrita opposizione delle associazioni di categoria degli autori, i quali invocano il proprio diritto alla percezione di un equo compenso, alla pari dei colleghi europei.
Più precisamente, l’argomento invocato dai copyright ownersa sostegno della propria pretesa di introdurre un levy system analogo a quello previsto dagli altri Stati dell’Unione, attiene all’asserita difformità della neo-approvata private copying exception rispetto al disposto dell’art. 5, n.2 (b) della direttiva 2001/29/CE, il quale subordina la facoltà per gli Stati Membri di introdurre deroghe alla esclusività del diritto di riproduzione alla corresponsione di una fair compensation a favore dei titolari dei diritti.
Una tesi, questa appena esposta, giudicata convincente dall’Alta Corte, che ha ritenuto fondate le obiezioni sollevate dalle associazioni di categoria, le quali hanno rilevato come la lettera dell’art. 5 sia univoca nel condizionare l’introduzione della eccezione per copia privata alla contestuale previsione di una remunerazione a favore dei rightholders.
Qualcosa però non convince. Difatti, un siffatto approccio interpretativo, fondato sull’assunto dell’assoluta inscindibilità tra diritto di copia privata e corresponsione dell’equo compenso, parrebbe confliggere con il dettato del considerando n. 35 della direttiva InfoSoc, in forza del quale è esclusa la sussistenza di un obbligo di remunerazione del titolare dei diritti qualora il danno potenzialmente derivantegli dalla eccezione alla esclusività del diritto di copia sia minimo.
Invero, nel caso di specie, l’estrema cautela con cui è stata concepita e costruita l’eccezione per copia privata prevista dalla section 28B potrebbe ragionevolmente legittimare l’applicazione della clausola contenuta al considerando 35, atteso che i vincoli ai quali è assoggettato il diritto di riproduzione privata risultano così stringenti da neutralizzare quasi del tutto il pregiudizio dei rightholders.
Com’ è agevole intuire, la chiave di volta per sciogliere il nodo sulla sussistenza o meno di un dovere di fair compensation è rappresentata dalla corretta interpretazione della nozione di “minimal harm” di cui all’ultima parte del considerando 35, nonché nel coordinamento tra la disposizione richiamata e l’art. 5.
Spetterà ai giudici stabilire se la deroga introdotta nel luglio del 2014 ricada nella ipotesi contemplata dal considerando o, al contrario, importi una compressione dei diritti di sfruttamento dei copyright owners meritevole di remunerazione, ai sensi dell’art. 5, n.2 (lett.b).
In quest’ultimo caso, sarebbe tutto il sistema a vacillare.
Se è vero, difatti, che l’eccezione per copia privata è stata così rigidamente formulata dal Governo inglese con l’intento – dichiarato – di bypassare l’obbligo di fair compensation, un siffatto rigore resterebbe evidentemente ingiustificato ove si procedesse alla introduzione di un levy system comune agli altri Paesi dell’Unione.
A pagarne le spese, ancora una volta, sarebbe la libera circolazione delle creazioni intellettuali e la loro utilizzazione da parte degli utenti, i quali, oltre a sopportare la maggiorazione dei prezzi di vendita dei dispositivi e supporti di registrazione, derivante dalla imposizione dell’equo compenso, si troverebbero con in mano un diritto “monco”, il cui contenuto era stato così rigorosamente calibrato proprio a fronte della mancata previsione di un equo compenso a favore dei rightholders.
Non resta che attendere l’udienza di maggio per conoscere il verdetto, con la speranza che a soccombere non sia il buonsenso.