Tre decisioni recenti emesse dalle corti di Milano, Torino e Roma consentono di fare il punto sul tema della responsabilità degli Internet Service Provider.
La sentenza n. 1928 del 7 aprile 2017 del Tribunale di Torino decide, in primo grado, la controversia che ha opposto Delta TV a Google/YouTube, con alterne fasi cautelari, a partire dal 2014.
Delta TV Programs S.r.l., una società operante nel settore della produzione, distribuzione e compravendita di prodotti televisivi, ha lamentato che su YouTube fossero stati caricati dei contenuti audiovisivi (in particolare delle telenovelas) di cui la società deteneva i diritti di sfruttamento economico anche per l’Italia.
Dopo aver diffidato Google e YouTube a rimuovere i contenuti in violazione dei diritti di Delta TV, inviando delle diffide stragiudiziali prive però degli URL dei singoli audiovisivi, non avendo ricevuto adeguato riscontro la stessa ha adito il Tribunale di Torino.
Con un primo provvedimento (ordinanza del 5 maggio 2014), il Tribunale ha integralmente rigettato le domande cautelari di Delta TV. In primo luogo, il Tribunale ha sostenuto che YouTube non fosse tenuta a operare un vaglio preventivo della titolarità dei diritti d’autore dei singoli soggetti che caricano i video sulla piattaforma. In aggiunta, pur con valutazione sommaria, il Giudice, dopo aver preso atto dell’assenza di indizi che facessero pensare a YouTube come un hosting provider attivo, ha ritenuto una diffida generica inidonea a far scattare l’obbligo di rimozione.
In sede di reclamo (ordinanza del 23 giugno), il Collegio ha affermato che “il progresso tecnologico che ha consentito a YouTube di sfruttare in modo così intensivo e mirato i contenuti grezzi immessi in rete dagli utenti non può non aver fatto sorgere, in capo allo stesso intermediario, maggiori responsabilità per la tutela dei diritti dei terzi”. Tuttavia, il Collegio ha confermato la neutralità del gestore può venire meno solo in presenza di una diffida specifica, contenente gli URL dei singoli contenuti che si presumono in violazione dei propri diritti.
Di conseguenza, il Collegio ha ordinato in via cautelare a YouTube e Google di rimuovere i contenuti audiovisivi indicati da Delta TV tramite gli URL contenuti in un documento allegato all’atto di citazione. In aggiunta, ha ordinato a YouTube di utilizzare il proprio software “Content ID” per impedire l’ulteriore caricamento sulla piattaforma degli stessi materiali rimossi.
Infine, passato all’esame del merito, con una corposa sentenza pubblicata lo scorso aprile il Tribunale di Torino ha:
(i) ordinato a YouTube e Google di rimuovere dalla piattaforma i contenuti audiovisivi indicati da Delta TV in un documento allegato all’atto di citazione;
(ii) ordinato a YouTube e Google di utilizzare strumenti tecnici adeguato, tra cui anche il software “Content ID” per impedire l’ulteriore caricamento dei contenuti di cui sopra sulla piattaforma;
(iii) ordinato a YouTube e Google di rimuovere sia dai propri sistemi informatici sia dai sistemi informatici di terzi con abbiano rapporti contrattuali di memorizzazione e conservazione;
(iv) condannato YouTube e Google al pagamento di un risarcimento del danno pari a Euro 250.000,00, oltre alle spese di lite.
Ciò che emerge, in sostanza, è la conferma della linea adottata dal Collegio in fase di reclamo, con la precisazione che, però, YouTube questa volta è stata condannata a cancellare completamente i contenuti. Nel corso dei 3 anni di causa, infatti, YouTube aveva solo provveduto all’oscuramento delle puntate. Alle stesse era comunque possibile accedere dall’estero, attraverso meccanismi informatici molto semplici.
I Giudici si sono poi espressi sulla posizione dell’hosting provider, allineandosi a quanto sancito dalla Corte d’Appello di Milano nella sentenza RTI vs. Yahoo! del 9 gennaio 2015. Il Tribunale “ritiene che il punto di discrimine fra fornitore neutrale e fornitore non neutrale debba essere individuato nella manipolazione o trasformazione delle informazioni o dei contenuti trasmessi o memorizzati”.
“Qualora invece” proseguono i Giudici “vengano attuate delle mere operazioni volte alla migliore fruibilità della piattaforma e dei contenuti in essa versati (attraverso – ad esempio – il caso tipico della indicizzazione o dei suggerimenti di ricerca individualizzati per prodotti simili o sequenziali ovvero quello altrettanto tipico dell’inserzione pubblicitaria e dell’abbinamento di messaggi pubblicitari mirati), le predette clausole di deroga di responsabilità continueranno ad operare poiché nel caso in esame ci si troverà nell’ambito di espedienti tecnologici volti al miglior sfruttamento economico della piattaforma, e non già innanzi a un’ingerenza sulla creazione e redazione del contenuto intermediato”.
Di opposto tenore appare la pronuncia della Corte d’Appello di Roma n. 2883 del 29 aprile 2017, la quale ha integralmente confermato la sentenza n. 8437 del 27 aprile 2016 del Tribunale di Roma nel caso Break Media.
In primo grado, RTI ha lamentato una violazione dei propri diritti di sfruttamento economico di una serie di programmi televisivi, i quali erano stati pubblicati sulla piattaforma di Break Media senza l’autorizzazione di RTI.
Break Media si è difesa sostenendo che i contenuti vengono caricati in piena autonomia dagli utenti e che, in qualità di hosting provider, essa è tenuta ad attivarsi per rimuovere l’accesso ai contenuti solo in presenza delle condizioni fissate dalla direttiva 2000/31/CE e dal decreto legislativo n. 70 del 2003, ovverosia in seguito a un ordine emesso dall’autorità amministrativa o giudiziaria competente.
In primo grado, il Tribunale aveva accolto le domande di RTI, evidenziando come Break Media, lungi dall’essere un mero hosting provider, rappresenti invece un “sofisticato content-provider” per l’attività svolta, per le dimensioni assunte e per la tipologia di controllo operata sui contenuti – i quali vengono meticolosamente analizzati e categorizzati da un editorial team.
In evidente contrasto con l’orientamento del primo Giudice sul caso Delta TV di cui si è detto sopra e della sentenza della Corte d’Appello di Milano sul caso RTI vs. Yahoo! (avverso la quale è tutt’ora pendente un ricorso in Cassazione), il Tribunale ha ravvisato l’assenza di una base normativa che imponga al segnalante l’obbligo di individuare gli URL dei contenuti illeciti. Pertanto, una diffida precisa e dettagliata – ancorché priva degli URL – è sufficiente per far scattare l’obbligo del provider di agire per rimuovere l’accesso ai contenuti evidenziati.
Queste statuizioni sono state integralmente confermate dalla Corte d’Appello. Quest’ultima ha aderito pienamente a quanto sostenuto dal Tribunale di primo grado sia in merito alla posizione di Break Media, che deve essere trattata non quale mero hosting provider, ma come un content provider, sia all’assenza nell’ordinamento di una disposizione che imponga al segnalante l’obbligo di indicare nella diffida gli URL dei singoli contenuti.
Si segnala, infine, che sia in primo grado che in secondo grado, i Giudici hanno respinto l’eccezione di carenza di giurisdizione, ritenendo che per gli illeciti extracontrattuali “per cooperazione colposa mediante omissione” assumono un ruolo decisivo per radicare la giurisdizione il luogo dove l’evento lesivo si verifica o l’azione si compie: entrambi – a detta della Corte – collocabili sul territorio italiano.
Infine, un’ importante decisione della sezione specializzata in materia d’impresa del Tribunale di Milano (ordinanza dell’8 maggio 2017) ha integralmente accolto un ricorso cautelare proposto da Mediaset Premium avverso i fornitori di connessione alla rete, volto a ottenere l’oscuramento del sito Internet Live TV che – secondo la ricorrente – trasmetteva contenuti di titolarità di Mediaset Premium, senza averne né l’autorizzazione né i diritti.
Respingendo le tesi dei fornitori di connessione alla rete, il Tribunale ha disposto la misura del blocco dell’accesso ai siti internet con nomi a dominio LiveTV, sia presenti che futuri. Mediaset Premium ha ora la facoltà di segnalare ai fornitori di connessione alla rete le violazioni dei loro diritti. Questi avranno 48 ore al massimo per adottare tutte le misure tecniche idonee per prevenire la divulgazione dei contenuti segnalati, pena l’applicazione di una penale di Euro 50.000 per ogni violazione constatata successivamente.