Con sentenza del 1 giugno 2011, la III sezione penale della Suprema Corte ha ritenuto integrato il delitto di trattamento illecito di dati, previsto dall’art. 167 del Codice Privacy, nel fatto di un utente internet che aveva diffuso su una chat pubblica, per mera finalità ritorsiva, a seguito di un diverbio avuto con uno dei partecipi, il numero di utenza cellulare appartenente a questi.
La motivazione si presenta, in alcuni punti, fragile ed offre lo spunto per approfondire taluni aspetti controversi legati alla menzionata figura di reato.
Ripercorrendo l’iter motivazionale seguito dai Giudici, in primo luogo viene in esame l’esigenza di perimetrare la nozione di trattamento dati, da cui dipende logicamente l’individuazione del soggetto attivo del reato.
Nel vigore della precedente normativa, si era formato un orientamento volto ad escludere (facendo leva sul dato normativo che, nell’identificare l’oggetto materiale della condotta, si riferiva sempre al plurale “dati”) che la raccolta o diffusione di un unico dato personale, avulsa da un’illecita attività di registrazione, elaborazione e fissazione di basi di dati illegittimamente trattati potesse integrare la condotta tipica del precetto penale. (CORRIAS LUCENTE, Dato o notizia? La tutela della riservatezza ed il diritto di cronaca, in Dir. Inf., 1999, p. 96, nota a decr. arch. Pret. Roma, 10 ottobre 1998, ivi, p. 94).
Il legislatore del 2003 ha espressamente inserito, nella definizione di trattamento contenuta nell’art. 4 lett. a)del Codice, l’inciso “anche se non registrati in una banca di dati”, la pregressa interpretazione, dunque, non è più attuatesi è così creata un’ espansione dell’ambito operativo della norma penale.
La sentenza citata aderisce alla modifica normativa e correttamente afferma che la disciplina legislativa si applica anche al privato che occasionalmente sia venuto in possesso di un dato personale appartenente ad altro soggetto.
Respinge, poi, l’argomentazione difensiva secondo la quale l’imputato non poteva essere qualificato come “titolare del trattamento”, osservando che l’incipit “chiunque” già esclude in radice una interpretazione in senso restrittivo riferita ai destinatari dell’art. 167, che è reato comune.
In più nota come dall’ampiezza della definizione di cui all’art. 4 lett. a), si ricava che la nozione di trattamento va intesa “in senso ampio, non circoscritto quindi ad una raccolta di dati, ma anche – e soprattutto – alla diffusione indebita senza il consenso dell’interessato, del dato acquisito, non importa se casualmente o meno”.
Così risolto il problema circa la portata applicativa del reato contestato, i Giudici soffermano quindi l’attenzione sulla riconducibilità del numero di utenza mobile nel novero dei dati protetti dal Codice della privacy.
Questo appare il punto più complesso della decisione. Infatti, non vi è dubbio che il numero di utenza mobile (essendo, come nota la sentenza, un dato riservato, stante l’inesistenza di pubblici registri o l’inserimento automatico in elenchi), sia idoneo a costituire un “dato personale” ai sensi dell’art. 4 lett. b) del codice.
Essendo questo il reale tema, non si intende perché la Corte utilizzi la qualifica, in diversi passaggi della motivazione, di “dato sensibile”.
Si deve escludere che l’ organo nomofilattico abbia potuto utilizzare tale termine in senso atecnico, resta, allora, di difficile intelligibilità il ragionamento attraverso il quale un’utenza mobile possa ricondursi tra “i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
La questione non è priva di ripercussioni: quando, infatti, il trattamento illecito riguardi dati sensibili, trova applicazione l’autonoma fattispecie delittuosa prevista dal secondo comma dell’art. 167 del codice della privacy, che comporta un notevole aggravio sanzionatorio.
Condivisibili appaiono, invece, le considerazioni svolte in tema di elemento soggettivo del reato: correttamente, infatti, la Corte ha ritenuto integrato il dolo specifico di danno, richiesto dalla norma, nell’intento “ritorsivo” perseguito dall’imputato attraverso la diffusione in chat dell’altrui numero telefonico.
Lacunosa, invece, appare la motivazione della Corte, laddove fa coincidere tout court il nocumento, il cui concreto verificarsi è richiesto dalla norma ai fini della punibilità del reo, con la compromissione della riservatezza della persona offesa, identificata nella diffusione presso terzi del numero di telefono.
Secondo la ricostruzione più accreditata in dottrina e giurisprudenza, l’inciso “se dal fatto deriva nocumento”, inserito a seguito della riforma del 2003, non costituisce evento del reato (e quindi oggetto di dolo), ma rientra nel novero delle condizioni obiettive di punibilità c.d. intrinseche (in tal senso, Cass., sez. III pen., sent n. 30134 del 9/07/2004 e Cass. III sez. pen., sent. n. 26680 del 1/07/2004), le quali, accedendo ad una fattispecie di reato, già perfezionatasi in tutti i suoi elementi, determinano un ulteriore aggravio dell’offesa già insita nella condotta tipizzata, approfondendo la lesione del bene protetto.
In tal modo, il legislatore ha inteso rendere più aderente al principio di offensività, una fattispecie prima costruita secondo una esclusiva logica di pericolo.
Tuttavia, se tale requisito venisse fatto coincidere sic et simpliciter con l’ integrazione della condotta tipica di diffusione del dato, e la relativa potenziale lesione del bene tutelato, si realizzerebbe una inaccettabile abrogazione tacita di parte della fattispecie.
In questo senso, non pare condivisibile l’osservazione della Corte, secondo cui la sussistenza del nocumento sarebbe testimoniata dal fatto che il soggetto offeso, già prima del delitto, “si era recisamente lamentato di intrusioni pubblicitarie sulla sua chat line: segno evidente che detta persona tenesse ad una particolare riservatezza nelle comunicazioni con terzi e che, quindi, una diffusione allargata avrebbe potuto generare altri contatti indesiderati lesivi della privacy”. Come già evidenziato, infatti, la presenza di una condizione obiettiva di punibilità impone l’accertamento del danno in termini di concreto pregiudizio verificatosi a seguito del fatto di reato, a nulla rilevando lesioni soltanto potenziali del bene protetto.
A mio parere la costruzione stessa della norma è complessa e impone acrobatiche interpretazioni, richiedendo la contemporanea presenza di elementi aventi funzioni contrapposte: il dolo specifico di danno, che impone una direzione finalistica della volontà (irrilevante restando il concreto realizzarsi dell’evento voluto), e la necessità, per integrare il reato, che quello stesso nocumento avuto di mira si sia effettivamente verificato (sub specie di evento o condizione obiettiva di punibilità).
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una domanda; se il recapito telefonico di una altra persona viene iserita in uno slogan che manderà un messaggio al fine di creare un abbonamento costituisce reato anche se poi la risposta è da confermare?