E’ di qualche giorno fa la notizia della condanna da parte del Tribunale di Roma del direttore del sito Il Post Luca Sofri in relazione al contenuto di alcuni articoli che informavano i lettori del sito della possibilità di vedere in streaming alcuni eventi sportivi oltre che attraverso le piattaforme online offerte da RTI e da SKY anche per il tramite di alcuni siti di streaming.
Un estratto della decisione è stata, per ordine del Tribunale, pubblicata su Il Post nei giorni scorsi e la notizia ha da subito scatenato il dibattito in rete riaccendendo il fuoco delle polemiche nell’eterna disputa tra difensori del copyright online senza se e senza ma, da una parte, e difensori della “libertà della rete” dall’altra. La decisione interviene, peraltro, in un periodo nel quale l’attenzione dei commentatori in materia è catalizzata dal recente regolamento proposto da AGCOM sul copyright online che attualmente è in fase di consultazione pubblica e che in alcune disposizioni sembra più che presente nella decisione del giudice capitolino.
Prima di analizzare il ragionamento seguito dal giudice nell’ordinanza è opportuno soffermarsi sulla situazione di fatto dalla quale è scaturita la pronuncia. In effetti l’elemento di novità della decisione sta proprio nel fatto/condotta che è stato sanzionato. E’ stato, infatti, riconosciuto per la prima volta che non solo il linking a siti pirata, ma anche il semplice dare notizia della presenza di tali siti (magari indicandoli nominativamente) può costituire un’attività illecita in violazione del diritto d’autore.
Ma andiamo al fatto che è stato considerato dal giudice nella decisione. Il Post nell’imminenza dello svolgimento di determinati eventi sportivi (incontri del campionato di calcio, della Champions League e dell’Europa League) pubblicava sulle proprie pagine “dandone grande risalto”, come riconosciuto dal Tribunale, dei testi che informavano sul fatto che era possibile vedere tali partite a pagamento su Mediaset Premium o Sky Sport e che “[…] in alternativa ci sono molti streaming disponibili on line, segnalati su Live TV, su Rojadirecta e su Adthe. Su questi siti però, spesso le fonti che trasmettono non hanno acquisito legalmente i diritti delle partite”.
Tali messaggi, a fronte delle contestazioni mosse da RTI e dalla Lega Calcio in sede stragiudiziale, venivano modificati da Il Post che, come sottolineato nella decisione, ha pubblicato e continua a pubblicare nell’imminenza delle partite il seguente messaggio lievemente modificato rispetto al precedente: “Oggi alle ore…, si giocherà….La partita si potrà vedere su Mediaset Premium Calcio e Sky Sport. In streaming, la si può vedere su mobile, tablet, e computer con il servizio SkyGo di Sky o con Play di Mediaset Premium. Ci sono anche molti streaming disponibili on line, segnalati su siti internet dei quali non è possibile verificare la legalità delle trasmissioni”. L’ultimo paragrafo del testo viene evidenziato in grassetto e linkato a questa pagina che riporta un articolo del 10 febbraio 2013 dal titolo “I siti dove vedere le partite in streaming”.
L’articolo in questione, come rilevato dal giudice “[…] dà atto con adeguata precisione e puntualità, sia dell’esistenza in internet di siti – i più noti dei quali vengono nominativamente indicati – che con frequenza segnalano come fare per vedere gratis in streaming gli eventi sportivi di maggiore interesse, sia delle indagini giudiziarie avviate per reprimere tale fenomeno”. Scorrendo l’ordinanza si rileva, quindi, come il giudice abbia ritenuto illecito non tanto e non solo il contenuto degli articoli informativi segnalati, quanto le modalità tecniche utilizzate dal Il Post per la diffusione di tali messaggi.
Secondo il giudice infatti: “[…] benché il singolo articolo di informazione in ordine al fenomeno della diffusione gratuita in streaming delle partite di calcio di maggiore interesse costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca e di informazione, che si estende anche all’indicazione puntuale degli estremi dei fatti e dei suoi autori, il sistematico e ripetuto rinvio, mediante il link contenuto nel comunicato informativo delle singole partite in procinto di svolgimento, sembra avere l’effetto non tanto di porre a conoscenza il pubblico dell’illiceità del predetto fenomeno […] quanto piuttosto, di offrire al pubblico uno strumento per l’immediata e facile individuazione dei siti ove è possibile vedere gratuitamente l’evento”.
Sciogliendo le possibili ambiguità del linguaggio tecnico utilizzato, dalla lettura dell’ordinanza, sembra, quindi, che siano state riconosciute come illecite le modalità attraverso le quali tali articoli sono stati diffusi ed, in particolare, il link inserito all’articolo del 13 febbraio 2013 idoneo a garantire “[…] l’immediata e facile individuazione dei siti ove è possibile vedere gratuitamente l’evento”. Tale condotta e le modalità utilizzate da Il Post sono state considerate idonee ad integrare un illecito sulla base della considerazione che “[…] non può ragionevolmente escludersi che, anche mediante tale modalità, venga offerto un apporto causale alla commissione degli illeciti, sia pure in via mediata”.
Alla luce di quanto sopra il giudice ha quindi “[…] inibi[to]a Sofri Luca di fornire, in qualsiasi modo e con qualunque mezzo, espresse indicazioni sulla denominazione e la raggiungibilità dei portali telematici che, direttamente o indirettamente, consentono di accedere illegalmente ai prodotti audiovisivi delle Reti Televisive Italiane S.p.A. aventi per oggetto gli eventi calcistici disputati nell’ambito del “Campionato”, della “Champions League” e della “Europa League”” imponendo, altresì, delle significative penali per il ritardo nell’esecuzione del provvedimento e per ogni successiva violazione, la pubblicazione del dispositivo dell’ordinanza ed il pagamento delle spese processuali in favore dei ricorrenti.
L’ordinanza sopra descritta segna, come anticipato, un momento di forte discontinuità nella giurisprudenza che negli ultimi anni si è occupata della responsabilità per violazione del diritto d’autore in rete. In questo caso, infatti, non è stata punita la violazione diretta del diritto d’autore quanto il contributo offerto, in via mediata, da Il Post nelle violazioni del diritto d’autore commesse dai fornitori di servizi di streaming illegali attraverso la pubblicazione di alcuni articoli informativi.
L’asticella della protezione del diritto d’autore è stata spostata significativamente in avanti e bisogna interrogarsi se tale balzo costituisca, su un piano tecnico-giuridico e sul terreno dei principi fondanti il nostro sistema, un’innovazione da accogliere con favore o, piuttosto, un pericoloso passo indietro.
Sul versante strettamente tecnico bisogna sgombrare il campo da possibili equivoci. La legge sul diritto d’autore – seppur iperprotettiva per i titolari dei diritti come più volte e ben più autorevolmente sostenuto – non riconosce direttamente le condotte di agevolazione delle violazioni del diritto d’autore come fattispecie di per sé illecite. A questo proposito è opportuno segnalare come, tuttavia, in giurisprudenza, in più occasioni sia stata riconosciuta come illecita la condotta di chi attraverso la fornitura di link a pagine web che contengono materiale protetto, ad esempio, contribuisca a consentire le violazioni del diritto d’autore. Il punto è, quindi, capire se effettivamente la pubblicazione di un articolo giornalistico, attraverso le modalità indicate, possa contribuire a livello causale nell’agevolazione della condotta illecita altrui.
Il discorso si sposta, quindi, sulla valutazione del c.d. nesso di casualità tra il comportamento del Il Post e il danno derivante dalla diffusione non autorizzata delle partite in streaming su internet. Su questo aspetto, tuttavia, la motivazione è stringata, forse troppo stringata pur nell’ambito di una valutazione sommaria come quella che avviene in un procedimento d’urgenza. Il giudice ritiene che non possa “ragionevolmente escludersi” che la pubblicazione di un articolo possa contribuire, seppur in via mediata, alla realizzazione dell’illecito.
Ma su quali basi si poggia tale valutazione?
Da un punto di vista causale non può dubitarsi che la pubblicazione dell’articolo con le modalità indicate possa, in qualche modo, contribuire alla causazione dell’illecito e, quindi, del danno ma per poter imputare un certo fatto ad un determinato soggetto è necessario, come insegna la Cassazione (si vedano Cassazione III civile sentenza del 16 ottobre 2007 n. 21619 e Cassazione III civile 21 luglio 2011 n. 15991) dimostrare che vi sia un “apprezzabile margine di probabilità” che l’evento di danno si produca in conseguenza di una determinata condotta.
La regola di giudizio nell’ambito della responsabilità da fato illecito è quella del “più probabile che non”. Bisogna dunque, chiedersi se è più probabile rispetto al contrario che il danno si produca in conseguenza della condotta.
Ed è su questo piano che la decisione non convince, o quanto meno, non risulta adeguatamente motivata, perché non spiega i dati sulla basi dei quali è fondata la valutazione compiuta dal giudice. Gli strumenti per compiere tale operazione sarebbero stati nella disponibilità del giudice che attraverso una consulenza tecnica avrebbe potuto accertare, ad esempio, i comportamenti degli utenti del sito Il Post dimostrando che nella maggior parte dei casi, o quantomeno in numero significativo di essi, chi leggeva l’articolo come immediata conseguenza si collegava ad uno dei siti di streaming indicati. In mancanza di tale accertamento o, quantomeno, di una specifica motivazione sul punto la decisione che si segnala non convince.
Oltre che da un punto di vista tecnico, come si diceva, la decisione pone dei seri interrogativi sul piano dei principi e dei valori che ispirano il nostro sistema. Nella decisione che si commenta vengono in rilievo almeno due diritti/libertà di rango costituzionale da un lato la libertà di espressione e l’esercizio del diritto di cronaca e dall’altro il diritto d’autore riconosciuto come diritto fondamentale dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea.
L’interrogativo è, dunque, il seguente: possono le esigenze di protezione del diritto d’autore costituire un limite così forte alla libertà di espressione da impedire per via giudiziaria ad un giornalista di segnalare l’esistenza di siti web attraverso i quali è possibile avere accesso a contenuti protetti senza la preventiva autorizzazione dei rispettivi titolari?
Per rispondere a questa domanda in maniera non ideologica bisogna chiedersi se, come in più occasioni ricordato dalla Corte di Giustizia europea, il Tribunale nella decisione abbia raggiunto un bilanciamento tra i vari interessi e diritti in gioco nel quadro costituzionale vigente. Ebbene la risposta è senza dubbio negativa.
Anzitutto, cercando anche di andare al di là della situazione di fatto considerata, dobbiamo ricordarci che in questo caso il confronto è operato tra un diritto di libertà che costituisce l’architrave di ogni sistema di democrazia compiuta ed un diritto di natura eminentemente patrimoniale come il diritto d’autore.
In secondo luogo, al sacrificio sofferto dal richiamato diritto non corrisponde un vantaggio apprezzabile o significativo per il diritto che si intende tutelare. Quale sarà l’efficacia di questa decisione o di altre che vorranno seguire lo stesso orientamento in termini di repressione dei fenomeni di pirateria in rete? Praticamente nulla o comunque prossima allo zero. Se le misure di enforcement dei diritti di proprietà intellettuale in rete fin ad ora elaborate hanno prodotto dei risultati assolutamente inconsistenti, come dimostrato da recenti studi empirici condotti sul tema, è ragionevole prevedere che non miglior fortuna avranno strumenti ancor più avanzati di protezione come quelli proposti dal Tribunale di Roma.
Da ultimo vanno considerate le possibili conseguenze indirette derivanti da una decisione come quella segnalata che, in termini generali, appare idonea a contribuire ad un ulteriore restringimento degli spazi di libertà sulla rete internet ma anche offline e, se portata alle estreme conseguenze, potrebbe condurre a delle conseguenze paradossali.
L’auspicio, a questo punto, è che la strada seguita dal Tribunale di Roma sia presto abbandonata dalla giurisprudenza nostrana alla luce del rispetto da assicurare alla libertà di espressione quale cardine del nostro ordinamento sul quale ricostruire e ripensare il sistema di protezione dei diritti di proprietà intellettuale in rete.