Necessità e proporzionalità in “Immuni”

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Nel ricco dibattito ospitato in questo simposio e altrove sul merito dell’app Immuni sono state espresse diverse, argomentate, posizioni. Non intendo riprendere qui temi già affrontati altrove, anche perché ho avuto modo di maturare una più articolata riflessione in uno studio dal titolo “Quanto Immuni? Luci, ombre e penombre dell’app selezionata dal Governo italiano” in corso di pubblicazione presso Diritti umani e diritto internazionale. Mi limiterò pertanto ad alcune sintetiche osservazioni su quelli che mi sono parsi i (più evidenti) pregi e i (più chiari) difetti della soluzione approntata dal Governo italiano. Passerò in seguito ad alcune considerazioni su un aspetto più specifico: quello degli elementi da ponderare ai fini di un corretto bilanciamento.  Concluderò, infine, con una nota più personale.

Le quattro caratteristiche positive più evidenti dell’app Immuni sono: (1) Il fondamento giuridico – correttamente individuato nella salute pubblica – con relativa copertura attraverso il decreto legge 30 aprile 2020, n. 28 entrato in vigore 1° maggio 2020; (2) il tratto, oltre che gratuito, volontaristico dell’app, con la specificazione, contenuta nel decreto, che alcuna penalizzazione sarebbe stata prevista per chi non intende farne uso; (3) l’attenzione rivolta al tema della tutela dei dati personali insieme con l’architettura pubblica del sistema: non solo Immuni non è in grado di geolocalizzare l’utente, ma l’intero meccanismo di registrazione dei dati, in seguito a un parziale cambio di prospettiva attuato al fine di dare esecuzione ai protocolli forniti da Apple e Google, si caratterizza per un modello più decentralizzato; e (4) il codice sorgente rilasciato con licenza open source.

Per contro, i quattro rilievi più critici concernono: (1) la scarsa diffusione – rectius: diffondibilità – dell’app, sulla quale torneremo in occasione del discorso in merito al bilanciamento; (2) l’imprecisione sul piano della rivelazione bidirezionale della prossimità, con i conseguenti problemi sul piano dei cd. ‘falsi positivi’ e ‘falsi negativi’; (3) alcune zone grigie che ancora permangono alla luce del dettato disposto dal decreto-legge (per il quale rimando al più strutturato articolo di cui supra, oppure sinteticamente qui);  e infine (4) il follow up che segue l’auto-dichiarazione di contagio e dunque le fragilità riscontrabili nell’insieme di azioni richieste per soddisfare l’intero arco della strategia di contrasto ‘a tre t’: tracing, testing e treatment.  

Come bilanciare questi elementi tra loro? Molti tra i numerosi documenti elaborati in seguito alla diffusione del Virus Covid-19 – ad opera di una pluralità di attori, interni come internazionali – offrono utili spunti a riguardo. Ex multis: la raccomandazione della Commissione Europea del 8 aprile 2020; il documento elaborato dal e-Health Network il 15 aprile 2020;  le linee guida pubblicate dalla Commissione Europea il giorno seguente; le indicazioni del Ministero per l’Innovazione del 21 aprile 2020; le linee guida approvate dal Comitato europeo per la protezione dei dati personali il medesimo giorno; il parere della sezione giuridica della Task Force Immuni del 30 aprile 2020; nonché, da ultimo, il parere positivo dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali del 1° giugno 2020.

Curiosamente però, i documenti più rilevanti sono quelli elaborati dal Garante europeo per la protezione dei dati personali in un periodo precedente l’emergenza pandemica, l’11 aprile del 2017 e ancora il 19 dicembre 2019, dal titolo, rispettivamente: “Assessing the necessity of measures that limit the fundamental right to the protection of personal data: A Toolkit” e “Guidelines on assessing the proportionality of measures that limit the fundamental rights to privacy and to the protection of personal data”.

Più specificamente si tratta di un approfondimento intorno a un test che si snoda intorno a diversi punti critici attinenti i criteri di necessità e di proporzionalità. Adopero il verbo ‘snodare’ perché secondo i documenti anzidetti occorre un esame distinto e sequenziale: prima il test di necessità e, solo se quest’ultimo ha dato esito positivo, quello di proporzionalità.

Come ricordato in una riflessione comune prodotta insieme con gli studenti della Law Clinic da me diretta presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica, nel valutare il rispetto del criterio di necessità occorre tenere in considerazione: (1) il contesto fattuale dove la misura è immersa; (2) i diritti e le libertà suscettibili di compressioni; (3) gli obbiettivi che si intendono perseguire; e (4) l’individuazione dell’opzione meno invadente tra quelle efficaci.

Nell’ipotesi, come è il caso, che si ritenga soddisfatto il requisito di necessità, occorre verificare i criteri attinenti quello di proporzionalità nel quadro del peculiare contesto italiano. Anche in questo caso rilevano quattro parametri principali relativi a: (1) l’idoneità della misura a perseguire l’obiettivo; (2) l’estensione e l’intensità della interferenza prodotta; (3) il bilanciamento tra l’obbiettivo e l’interferenza; e (4) la previsione di modifiche al sistema nel caso in cui il test di proporzionalità non dia esito positivo.

A tale riguardo e con speciale riferimento ai punti n. (1) e n. (3) del test di proporzionalità, acquista uno speciale rilievo la questione della limitata diffusione dell’app cui abbiamo fatto cenno in precedenza. Più in particolare, combinando i dati dell’Università di Oxford e del Garante italiano per la protezione dei dati personali con quelli analizzati dal Censis, se ne desume che il buon funzionamento dell’app Immuni è subordinato alla circostanza per cui almeno il 60% della popolazione italiana ne faccia un uso corretto. Si tratta indiscutibilmente di una percentuale assestata su una soglia molto alta, specialmente in un contesto in cui solo il 73,8% degli italiani (popolazione, peraltro, anziana e poco digitalizzata) dispone di uno smartphone. Senza entrare nel merito di alcune successive dichiarazioni provenienti dal mondo politico e volte a riconsiderare al ribasso tale soglia, la domanda che bisogna porsi per inquadrare da una corretta prospettiva di metodo la questione è la seguente: se detta soglia-obiettivo – apparendo intuitivamente irraggiungibile (se non addirittura inaccostabile) – possa avere delle ricadute sul piano dell’esercizio di bilanciamento. Ovvero se misure restrittive che appaiono proporzionali rispetto al vantaggio ottenuto attraverso l’ideale perseguimento di un obiettivo necessario restino ancora tali – intendo: in equilibrio proporzionale – nel caso in cui detto obiettivo, pur continuando a restare necessario, non sembri realizzabile nel contesto concreto.

È questa, per me, la questione giuridicamente più delicata. È vero che l’app Immuni è ben strutturata e presenta diversi vantaggi (v. supra), ma è il modo in cui questi ultimi devono essere proporzionalmente bilanciati che comporta le insidie maggiori. Quid se si potesse dimostrare – con i limiti propri di ogni proiezione – che l’app Immuni è sostanzialmente irrilevante nell’azione di contrasto al diffondersi dell’epidemia? Quid se si potesse dimostrare che si è trattato di una sorta di prova generale nell’eventualità di nuove ondate di contagi e/o epidemie? La contrazione dei diritti risulterebbe ancora proporzionale? Ergo: legittima?

In conclusione, appare ben chiaro che la pandemia da Covid-19 ha rappresentato una situazione letteralmente senza precedenti, lasciando emergere nuove questioni rispetto alle quali – in campo giuridico, come in quello sanitario, economico ecc. – si sperimentano inedite strategie di contrasto. È altrettanto chiaro che il cd. soluzionismo digitale («do-something-itis») non è di per sé sufficiente e che ogni strategia – a cominciare da quella di tracing, testing e treating – deve inquadrare l’utilità di un’app in un contesto più generale dove sono presenti azioni positive a carico innanzitutto degli attori pubblici (in questo caso: testare le persone a rischio di contagio e trattare coloro che hanno contratto il virus). Tuttavia per potere avanzare in questa direzione, anche solo a livello sperimentale in vista di una più incisiva capacità di risposta in futuro, occorre un esercizio di bilanciamento che sia quanto più accurato ed equo. Le osservazioni presentate in questo contesto possono essere interpretate come un piccolo sforzo in tale direzione.

Come postilla una nota più personale. Nel corso dell’ultimo approfondimento dedicato all’app Immuni nel quadro dei lavori della Law Clinic richiamata in precedenza ho a lungo discusso con gli studenti. In un’occasione ho espresso le mie perplessità in merito alla soluzione digitale concernente la possibilità che solo gli smartphone di recente produzione potessero beneficiare della protezione offerta dall’app Immuni, dal momento che la medesima risulta, oggi, compatibile unicamente con i dispositivi Apple che supportano una versione di iOS pari o superiore alla 13.5, o di Android pari o superiore alla 6: «il problema, cari studenti, è che coloro i quali non dispongono degli ultimi modelli, ma di quelli meno recenti, magari rigenerati o comunque di seconda mano, sono proprio coloro più a rischio: operai con redditi bassi, migranti, riders ecc.». Mi è stato risposto che questo è il prezzo, in qualche modo inevitabile, della corsa tecnologica e che a fronte dei vantaggi di sistemi sempre più efficienti bisogna arrendersi all’evidenza della rapida obsolescenza dei dispositivi (un ciclo, mi assicurano gli esperti, è di grosso modo quattro anni –  il mio iPhone ne ha cinque… e infatti non riesco a installarvi Immuni: «Professore, lo deve cambiare!»). Ho contro-obiettato che questo argomento potrebbe essere valido dal punto di vista di una società produttrice di smartphone o di servizi (app) destinati a questi ultimi, ma non di uno Stato il cui compito è quello di ridurre il rischio pandemico attraverso una politica di protezione quanto più larga e che cominci proprio dai più esposti ai rischi. Mi è stato nuovamente opposto un richiamo al principio di realtà: viviamo in un tempo, in un mondo, in cui è la tecnologia ad esprimere i limiti del possibile: se l’Application Programming Interface elaborata da Google e Apple è la sola condizione perché il sistema di Contact Tracing via Bluetooth funzioni in modo efficiente occorre uno smartphone di recente produzione per supportare il nuovo protocollo e non ci sono altre soluzioni.

Per parte mia, continuo a pensare a questo dialogo.

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