La* dicitura “CE”, introdotta nel 1993, esprime la “Conformité Européenne” di un prodotto. Come noto, non si tratta di un marchio in senso proprio, in quanto il segno non assolve ad una funzione distintiva del prodotto sul mercato per le proprie qualità o per l’origine dello stesso. Tale segno, al più, potrebbe essere accostato ai cd. “marchi collettivi”, dal momento che l’apposizione del simbolo “CE” ha la funzione di indicare che il prodotto è conforme alle prescrizioni normative previste dalle Direttive comunitarie in materia di sicurezza, sanità pubblica, tutela del consumatore et similia.
D’altronde, il contrassegno “CE” viene apposto dallo stesso produttore, che tramite tale operazione autocertifica la conformità del bene ai requisiti essenziali per la commercializzazione e utilizzo nel mercato comunitario (soltanto in alcuni casi, può essere richiesta la valutazione da parte di un ente certificato ed, in tal caso, il segno “CE” deve essere accompagnato dai numeri di identificazione dell’ente). La marcatura “CE” è, invece, obbligatoria per i beni prodotti in Paesi terzi e, successivamente, introdotti e messi in commercio entro lo Spazio Economico Europeo (SEE); in questa seconda ipotesi, graverà sull’importatore l’obbligo di garantire che il produttore extraeuropeo si sia uniformato ai requisiti previsti per l’ottenimento del contrassegno “CE”. Il produttore (o l’importatore) è, comunque, tenuto a redigere una “Dichiarazione CE di conformità”, ove sono specificate la (o le) Direttive applicate e le norme tecniche di riferimento, ed a predisporre e conservare uno specifico “Fascicolo tecnico” (contenente la descrizione delle caratteristiche tecniche del prodotto e delle prove effettuate comprovanti la sicurezza del prodotto). Tale documentazione dovrà essere resa disponibile in favore delle Autorità competenti in materia (per l’Italia, a vario titolo, Ministero delle Attività Produttive, Ministero della Salute, Camere di Commercio, Forze di Polizia e Guardia di Finanza, ma si pensi anche all’Agenzia delle Dogane), che possono richiederla in occasione dell’esercizio dei rispettivi poteri di controllo.
Occorre sottolineare come le sanzioni connesse alla violazione della disciplina comunitaria (e nazionale) in materia siano piuttosto gravi e prevedano, accanto all’obbligo di ritiro di tutti i prodotti dal mercato (qualora l’infrazione non comporti rischi immediati per la salute dei consumatori, tuttavia il produttore potrà evitare il ritiro del bene, purché intraprenda le misure necessarie per ottenere la conformità “CE”), sanzioni di tipo pecuniario e, nei casi più gravi ed in relazione a particolari prodotti (ad esempio, i giocattoli), l’arresto. Inoltre, accade spesso che la violazione della disciplina comunitaria in materia finisca per integrare anche fattispecie di reato previste dal codice penale, come la “truffa” (art. 640 c.p.), la “frode contro le industrie nazionali” (art. 514 c.p.), la “frode nell’esercizio del commercio” (art. 515 c.p.) e la “vendita di prodotti industriali con segni mendaci” (art. 517 c.p.); ancora, i prodotti immessi sul mercato in violazione della disciplina sulla marcatura “CE” possono essere oggetto di sequestro ed, eventualmente, di confisca.
Accanto a questi profili sanzionatori di carattere pubblicistico, non deve trascurarsi il dato privatistico delle potenziali richieste di risarcimento danni che i consumatori possono indirizzare nei confronti del produttore (e/o dell’importatore), qualora il bene si riveli non conforme alle direttive comunitarie di riferimento o rechi una marcatura “CE” ingannevole e/o fuorviante (cfr., in tal senso, le disposizioni del “Codice del consumo” sulla marcatura dei prodotti, la responsabilità del produttore e le pratiche commerciali scorrette). Qui le conseguenze economiche possono rivelarsi assolutamente rovinose visto il numero potenzialmente elevatissimo di istanze risarcitorie che l’operatore di mercato potrebbe essere costretto a soddisfare.
Inoltre, deve pure farsi menzione dei profili di carattere concorrenziale, dal momento che l’utilizzo illegittimo della marcatura “CE” può senz’altro essere valutato ai sensi dell’art. 2598 ss. c.c. (penso, ad esempio, anche alla possibilità di azioni promosse contro l’“usurpatore” del simbolo comunitario da parte delle associazioni di categoria ex art. 2601 c.c.).
Dunque, il robusto sistema sanzionatorio, comunitario e nazionale, che accompagna la violazione delle regole concernenti la marcatura “CE”, comprensivo delle regole in materia di responsabilità civile e concorrenza sleale, almeno in teoria, presenta indubbiamente una notevole forza deterrente rispetto a condotte trasgressive. In altre parole, il “costo” della violazione, in termini di sanzioni e risarcimento danni, parrebbe, in astratto, talmente elevato da essere idoneo a scoraggiare condotte non conformi alle disposizioni normative.
Eppure, nonostante discorriamo del principale indicatore della conformità di un prodotto alle normative UE, presupposto per la libera commercializzazione di numerosi prodotti (tra i più importanti: giocattoli, computer, telefoni cellulari, materiali elettrici e dispositivi medici), anche di largo consumo, entro lo Spazio Economico Europeo, il rispetto delle regole che accompagnano l’utilizzo del simbolo è, da sempre, poco diffuso.
Nel provare a generalizzare, due paiono essere le fattispecie principali di violazione:
a) Apposizione di una marcatura “CE” su prodotto non conforme alle direttive comunitarie di riferimento;
b) Apposizione di marchi, simboli e/o altri segni che possano confondersi e/o limitare la visibilità e/o sovrapporsi e/o comunque indurre in errore terzi in relazione al significato o alla forma grafica della marcatura “CE” (indipendentemente dalla conformità o meno del prodotto alle direttive comunitarie di riferimento).
Proprio quest’ultima ipotesi è tornata agli onori della cronaca, allorché si sono diffusi nel mercato comunitario prodotti recanti un marchio, molto simile alla marcatura “CE”, ma indicante in realtà la provenienza da produttori cinesi (discorriamo del marchio “China Export”: “CE”, appunto). Peraltro, di recente, si è pure registrato, da parte di operatori economici pur importanti del mercato europeo, i cui prodotti sono assolutamente conformi alle normative comunitarie di settore, un utilizzo del simbolo “errato”, con ulteriore confusione tra marcatura “CE” e marchio “China Export” (si rammenta, in tal senso, che il contrassegno “CE” deve sempre misurare almeno 5 mm. e mantenere inalterate le proporzioni iniziali anche nel caso di ingrandimenti).
Quelle citate, tuttavia, sono soltanto le ipotesi più eclatanti, ma esistono un numero elevatissimo di fattispecie di prodotti posti in commercio in dispregio della disciplina in materia di marcatura “CE”.
Come si spiega, dunque, questa apparente contraddizione tra l’esistenza di un apparato sanzionatorio astrattamente pur efficace rispetto all’incontrollato (e spesso impunito) diffondersi di pratiche contrarie alla normativa comunitaria in materia di conformità “CE”?
La spiegazione è da ricercare, come spesso accade, nella carenza di controlli: in materia, si assiste, infatti, all’assenza di effettivo esercizio dei poteri di controllo dei prodotti recanti marcatura “CE”. Come noto, il modello seguito dalla legislazione comunitaria in materia è quello di affidare tali poteri alle autorità pubbliche dei singoli Paesi membri, in collaborazione con la Commissione Europea (con la possibilità di ricorrere, in alcuni casi, a “procedure di salvaguardia” in caso di disaccordo tra gli Stati membri riguardo a misure adottate da uno di essi).
Ora, se, a livello nazionale, i “watchers” pubblici del mercato omettono di esercitare o esercitano in maniera negligente o inadeguata le proprie prerogative, è evidente che ne deriva una sostanziale “svalutazione” della marcatura “CE” e, di conseguenza, un pregiudizio indiretto, anche di tipo concorrenziale, per tutti coloro che, operando nello Spazio Economico Europeo, hanno investito risorse, economiche e non, per conformarsi effettivamente alle direttive comunitarie di settore.
In conclusione, il problema della diffusione di prassi scorrette connesse alla marcatura “CE” non è, dunque, da imputare al quadro normativo di riferimento, che pure è “costruito” in maniera tale da consentire agli organismi deputati al controllo di perseguire e sanzionare in maniera efficiente i trasgressori (compresi coloro che si limitano a riportare marcature “CE” semplicemente irregolari o non conformi). Al contrario, il problema si registra allorquando tale contesto normativo deve essere applicato in concreto, visto che proprio le autorità nazionali delegate ai controlli si rivelano inadeguate e/o inefficienti rispetto all’esercizio dei poteri pure loro affidati.
Ne deriva un deficit di effettività della disciplina di settore, che finisce per favorire i trasgressori e fenomeni distorsivi del mercato quale quello del marchio “China Export”, chiaramente in contrasto con la disciplina ed i principi ispiratori delle direttive sulla conformità “CE”. Come si diceva, poi, la situazione è ulteriormente aggravata da quegli operatori di mercato che, per ignoranza della disciplina di settore, utilizzano marcature “CE” irregolari o graficamente difformi dai rigidi standard comunitari.
La situazione di confusione che ne deriva, accompagnata dall’evidenziata carenza dei controlli, si è tradotta negli anni in una progressiva perdita della complessiva capacità di deterrenza dell’apparato sanzionatorio dettato in materia, fenomeno di underdeterrence che è causa della parallela svalutazione, nella prospettiva dei consumatori come degli operatori di mercato, della stessa marcatura “CE”.
Nel complesso, dunque, uno strumento importante per il funzionamento dello Spazio Economico Europeo, quale il simbolo della garanzia di conformità “CE”, rischia seriamente di essere compromesso in sede applicativa per l’incapacità di effettiva e consapevole utilizzazione dello stesso, tanto da parte degli operatori economici che dovrebbero riportarlo sui propri prodotti, quanto delle autorità pubbliche che sulla corretta applicazione del segno dovrebbero vigilare.
* Lo scritto riproduce una riflessione in tema per l’Associazione Italiana Pubblicitari Professionisti, originariamente pubblicata sul blog dell’ente.