Ottobre 2007. Le grandi sorelle del disco sono pronte ad affrontare il loro primo processo per violazione ripetuta del diritto d’autore. Il caso Capitol vs. Thomas vede contrapposta la Recording Industry Association of America (RIAA) e quella che diventerà negli anni la mamma più famosa del file sharing, la 30enne Jammie Thomas di Brainerd, Minnesota. I legali delle major – ci sono Sony, Virgin e compagnia – accusano la donna di aver scaricato illegalmente più di 1700 file musicali sulla rete Kazaa. La richiesta iniziale della RIAA è a dir poco astronomica: quasi 4 milioni di dollari più spese legali. Ma Jammie Thomas si dichiara non colpevole, con il suo avvocato pronto ad una delle più violente battaglie legali in nome del copyright.
Passa poco meno di una settimana. La giuria arriva al fatidico verdetto: Jammie Thomas dovrà pagare all’industria discografica un totale di 220mila dollari, praticamente più di 9mila dollari per 24 canzoni scaricate sulla rete di scambio Kazaa. Il processo si concentra infatti su una porzione minima del totale indicato inizialmente dalla RIAA, che porta in aula prove inconfutabili grazie a specifiche tecnologie per il monitoraggio delle reti di file sharing. L’IP fornito dal provider Charter Communications è associato all’utente tereastarr, nella vita reale Jammie Thomas. I legali della donna annunciano subito il ricorso in appello, sottolineando come non basti provare la “condivisione” di un file. Bisognerebbe dunque dimostrare che qualcuno abbia effettivamente prelevato in download le canzoni incriminate.
E c’è un’altra tesi sbandierata dalla difesa della donna: i 220mila dollari di multa rappresenterebbero una pena eccessiva – nonché anticostituzionale – rispetto ai reali danni economici sofferti dall’industria. Il web inizia a mobilitarsi, in particolare attraverso il sito FreeJammie.com. Mentre gli avvocati della RIAA sottolineano come la sanzione tenga conto della distribuzione online – ad un numero imprecisato di utenti – delle 24 canzoni su Kazaa. Agli inizi del dicembre 2007, il Department of Justice (DoJ) statunitense si allinea alla visione dell’industria: la multa da quasi un quarto di milione di dollari è perfettamente costituzionale, perché i cosiddetti statutory damages – i danni tabellari – andrebbero applicati quando è difficile calcolare quelli reali.
Giugno 2008. Un gruppo di eminenti professori statunitensi arriva di gran carriera in difesa di Jammie Thomas. L’industria del disco dovrebbe dimostrare l’avvenuta distribuzione dei 24 brani presi da Kazaa. Perché di fatto la condivisione online di un contenuto protetto dal copyright non sarebbe equivalente alla distribuzione illecita su Internet. In difesa della RIAA arriva la Motion Picture Association of America (MPAA), associazione equivalente per quanto concerne l’industria cinematografica. Per le due organizzazioni, basterebbe il possesso di una cartella votata al P2P per subire un processo come quello che ha travolto Jammie Thomas.
Passano pochi mesi e il processo arriva ad un clamoroso punto di svolta. Il giudice distrettuale Michael Davis stabilisce la necessità di un dibattimento più equo. La tesi sbandierata dalla RIAA – appunto che basta avere una cartella per essere incriminati – si scioglie come neve al sole. L’industria del disco dovrà in sostanza provare che condividere significhi distribuire illegalmente. E’ lo stesso Davis che chiede al Congresso statunitense di avviare le pratiche per una significativa riforma del Copyright Act, per evitare che si ripetano sanzioni economiche così pesanti per un pugno di brani scaricati.
Giugno 2009. Arriva il secondo verdetto per Jammie Thomas. E’ pesantissimo, ancora più astronomico di quello precedente. La mamma del P2P deve pagare all’industria qualcosa come 1,92 milioni di dollari per lo scaricamento “volontario” dei 24 brani musicali su Kazaa. Praticamente 80mila dollari – il massimo possibile è 150mila secondo i danni tabellari – per file condiviso in Rete. La donna è spezzata in due, ovviamente impossibilitata a pagare la cifra. La RIAA è pronta a proporre al suo legale un accordo extra-giudiziale per porre fine alla vicenda.
Ma Jammie Thomas non si arrende e passa al contrattacco. Rifiutando le proposte di accordo economico presentate dalla RIAA. La multa da quasi 2 milioni di dollari sarebbe altamente incostituzionale. La squadra legale della donna presenta così una nuova tesi al giudice Davis: le major devono dimostrare che i soldi chiesti rispecchino effettivamente i danni subiti. E nel gennaio 2010 il caso arriva all’ennesimo colpo di scena: la giuria non accetta la maxi-sanzione a carico della donna, ritenuta spropositata e incostituzionale. Secondo il giudice Davis, la forbice dei danni tabellari – da 750 a 150mila dollari per brano scaricato – avrebbe un valore più che altro deterrente. Il conto da pagare scende del 97 per cento, da quasi 2 milioni a 54mila dollari, praticamente 2.250 dollari a brano scaricato.
La RIAA inizia ad indietreggiare. Chiede alla donna un patteggiamento da 25mila dollari, circa la metà di quelli imposti dal giudice Davis. Ma la mamma del P2P non ne vuole sapere: “sarete fortunati se riuscirete a dimostrare che vi devo più di 24 dollari”, minaccia a viso aperto. Il processo Capitol vs. Thomas dura ormai da anni, con il giudice ormai spazientito dai continui ricorsi delle parti in causa. Che vengono praticamente esorate a trovare un accordo, magari intorno ai 750 dollari a brano scaricato. E invece arriva l’ennesimo no da parte della donna, con i suoi legali che tentano l’ultimissimo azzardo in vista del terzo atto del processo: 1 dollaro a canzone. L’effettivo danno economico subito dallo scaricamento di un solo file su Internet.
La frustrazione arriva a livelli altissimi nel novembre 2010. I giurati del Minnesota si accordano su una nuova maxi-multa da 1,5 milioni di dollari. I motivi sono quelli di sempre. Jammie Thomas rifiuta e va avanti. E infatti passa più di un anno ed è sempre il giudice Michael Davis a ritenere “sproporzionata” anche l’ultima multa, tornando una seconda volta sui 54mila dollari totali. Ma questa volta è la RIAA a tener duro, annunciando il ricorso in appello nell’agosto 2011.
Gennaio 2012. L’industria del disco torna in campo, ancora una volta sostenuta dalla MPAA. Sia la multa iniziale (220mila dollari totali) che quella finale (1,5 milioni) sarebbero perfettamente in linea con quanto stabilito dalla Costituzione a stelle e strisce. Secondo i legali della RIAA, il Copyright Act statunitense non prevede affatto il bisogno di dimostrare gli effettivi danni economici subiti dallo scaricamento selvaggio. Mentre nella visione del giudice Davis i calcoli andrebbero fatti eccome se per una multa superiore ai 2mila dollari a canzone. La speranza delle major sembra chiara: ottenere il ripristino della sanzione originaria nei confronti di mamma Jammie. Ovvero 220mila dollari. Anni e anni di estenuante battaglia in aula si rivelerebbero all’improvviso del tutto vani.
Mamma Jammie, l’eterno ritorno
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