pubblicato su Il Sole 24 Ore di domenica 10 gennaio
Un anno dopo la strage, la copertina di Charlie Hebdo mostra l’immagine del carnefice: è Dio con il mitra in spalla, che ancora fugge con l’abito insanguinato. Questa è un’immagine blasfema? E, se blasfema, è illecita? Sicuramente aiuta ad avere gli strumenti per deciderlo un bel libro curato da Alberto Melloni, Francesca Cadeddu e Federica Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, fresco di stampa per il Mulino. È un confronto tra storici, teologi, filosofi e giuristi sul tema della parola che offende il sacro: si va dall’evoluzione del concetto di blasfemia, al racconto di episodi di vilipendi storici – con qualche esempio in forma di immagine – e di persecuzioni, fino al tentativo di definire i limiti dell’intervento statale nella punizione. Il volume mantiene quel che Melloni promette nell’introduzione, ovvero «fornire […]conoscenze giuridiche, politiche, storiche e teologiche che servano a comprendere e giudicare fatti, atti, ragioni, sfondi – incluso quello ambivalente della “blasfemia”».
Dai saggi non emerge una risposta univoca, anzi le posizioni sono diverse e a volte in contrasto tra loro. Ciò non ci pare discendere soltanto dalle credenze personali ma anche dalle differenti prospettive delle scienze di cui gli autori sono esponenti. Gli studiosi della società – antica o contemporanea – hanno un’ottica che consente di affermare l’inopportunità e financo la pericolosità di alcune espressioni oltraggiose, specie in alcuni passaggi storici o in contesti culturalmente non omogenei, con diversi gradi di tolleranza all’irrisione. Il giurista, invece, lo evidenzia bene Giancarlo Bosetti, sembra avere una via maestra: quella di riconoscere che il diritto a non essere offesi nei propri sentimenti religiosi debba passare attraverso una porta stretta. Il poco spazio che gli ordinamenti liberali possono riservare ai reati a presidio delle fedi deriva dalla constatazione che le religioni sono anche dei poteri che condizionano la vita pubblica. E come ogni altro potere, esse meritano, con le parole di Rushdie citate da Mauro Gatti, «le critiche, la satira e tutta la nostra impavida irriverenza».
Del resto, in una società laica, le convinzioni religiose non hanno maggiore dignità e valore rispetto a quelle filosofiche, politiche o di altro genere. E quindi, come nessuno può invocare la forza dello Stato per offese a una propria qualunque ideologia, analogamente, in una società davvero aperta, i fedeli non hanno strumenti giuridici per opporsi alla critica, anche feroce o irrisoria, alle religioni, soprattutto quando queste non si curano solo d’anime.
A conferma di ciò, non è certo un caso che in Europa negli ultimi decenni le leggi che puniscono la blasfemia siano sempre meno e sempre meno applicate. E pure negli Stati Uniti, ove nel Primo Emendamento sono incise una accanto all’altra la neutralità nei confronti delle religioni e la libertà di parola, già negli anni ’50 la Corte Suprema ha stabilito che «lo Stato non ha alcun legittimo interesse a proteggere una qualsiasi religione, o tutte le religioni da espressioni a loro sgradite», come ricorda ancora Gatti.
La violenza contro Charlie ha mutato il clima e ha fatto sostenere a taluno, forse per un principio di prudenza, che vietare l’offesa alla religione fosse una buona soluzione. Al contrario, grazie anche alla lettura del libro, a noi piace ancora un legislatore che rinuncia a usare lo strumento penale contro il blasfemo, invece di cercargli «l’anima a forza di botte», come nella Spoon River di De Andrè.