L’Italia e la sfida geopolitica del digitale. Riflessioni attorno a resilienza, competizione e sicurezza all’interno dell’ecosistema digitale globale

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1. La definizione, ormai invalsa da tempo, di “quinto dominio” è già in sé sintomatica del rilievo politico strategico dello spazio cibernetico, in quanto allude alla sua contendibilità da parte di forze antagoniste che si confrontano con opposte volontà di potenza.

A manifestarsi nello spazio cibernetico è stata innanzitutto la potenza economica dei grandi players globali, i quali, sebbene in una forma nuova e diversa dal modello classico, presentano due degli elementi fondamentali della sovranità (territorio e popolo) e in una misura eccezionalmente estesa e complessa .

Una prima osservazione è che la competizione digitale globale trova – e non da oggi – un suo ineludibile fattore strutturale nel lascito di questa straordinaria evoluzione della vicenda tecnologica planetaria; la quale non è affatto giunta al suo punto di arrivo, posto che occorre capire se i grandi operatori, assurti, come dicevo, a potentati economici, possano avere – come sottolinea Frosini in un suo scritto sull’ordine giuridico del digitale – non solo e non tanto un’influenza condizionante sul mercato economico ma anche sul mercato delle idee, peraltro in reciproca interdipendenza.

Dall’altro capo dell’occidente, l’Europa ha guardato alla regolazione dello sviluppo digitale per garantire due fondamentali obiettivi, in una logica che ha cercato di perseguirli in maniera integrata: far sì che la competizione tra attori economici nel mercato digitale unionale avvenga nel rispetto del principio di concorrenza, principio cardine della costruzione europea, garantendo, al contempo, la sicurezza e la resilienza dei prodotti e dei servizi digitali; sicché l’istanza mercatista è destinata a compenetrarsi con quella sicuritaria; ed è fuori dalla competizione, secondo questa logica, l’operatore che intenda avvantaggiarsi sui propri competitors a scapito della qualità, alias sicurezza, del prodotto.

2. Questa visione ha finito, tuttavia, col dare la stura ad un eccesso di regolazione della dimensione digitale.

Questo è il nocciolo della critica che viene mosso all’Unione europea, di cui peraltro si sottolinea il gap che accusa con Stati Uniti e Cina proprio nel campo dell’innovazione e delle tecnologie trasversali, qual è appunto quella digitale presente in tutti i settori produttivi. Si acuiscono, perciò, le preoccupazioni, che si erano già affacciate in passato, riguardo alla possibilità di un ulteriore ampliamento del divario in conseguenza soprattutto della forbice ancora troppo alta nell’investimento di capitale umano nelle materie STEM e, più in generale, nelle attività di ricerca, fattori cruciali entrambi nel recupero del ritardo produttivo e tecnologico.

Anche riguardo al Chips Act, il Regolamento sui microprocessori ad alta integrazione che si inquadra nel processo di autonomia strategica europea, sono stati mossi rilievi che ne evidenziano la tardività e, soprattutto, la relativa carenza di investimenti, cioè l’essere, in sostanza, “too little, too late”.

Ed è anche spiegabile, alla luce di quanto detto, la recentissima posizione di un paese leader nella produzione di prodotti digitali di altissima qualità, la Germania, che ha posto il tema di una “moratoria”, che faccia sì che l’implementazione del quadro regolatorio conosca una pausa, una tregua, che consenta un assestamento del processo e la valutazione pratica dei suoi impatti.

Ci si chiede, insomma, se l’eccesso di regole non rappresenti in sé un limite, cioè un freno al raggiungimento di una postura maggiormente competitiva dell’Europa, intanto all’interno dell’ambito regionale e poi anche oltre lo scacchiere continentale.
Tuttavia, questo attivismo normativo non dovrebbe essere considerato alla stregua soltanto di una compulsiva stratificazione di regole, rispondente a un atteggiamento di puro arroccamento difensivo della “fortezza Europa”.

Andrebbe invece anche considerato nel suo dichiarato obiettivo di stimolare un approccio più ampio e aperto verso il mercato dei dati, laddove si gioca una fondamentale partita di democrazia digitale.

Il Digital Governance Act, il Data Act e il Data Markets Act sembrano indicare, nel loro complesso, una linea evolutiva in cui i poteri digitali – quelli pubblici e quelli privati – sono in qualche modo costretti a fare i loro conti con cittadini e imprese, attori di questo ecosistema, e, in quanto tali, titolari di un diritto all’utilizzo e al riutilizzo dei dati che essi stessi contribuiscono a creare. E in quanto diritto, esso può ben essere oggetto di una vera e propria pretesa nei confronti delle grandi piattaforme globali.
I Regolamenti europei che ho appena ricordato tracciano, dunque, un filo conduttore, delineano una catena conseguenziale che unisce dati, algoritmi e piattaforme : i dati, “risorsa fondamentale dell’economia e della società digitale”, ne rappresentano il primo anello; gli algoritmi sono visti, in questa sequenza, come strumenti capaci di estrarre valore dai dati; le piattaforme, infine, come luoghi nativi digitali nei quali avviene una significativa mole degli scambi e delle interazioni sociali contemporanee.

3. Ora, il Regolamento europeo sulla intelligenza artificiale irrompe su questo complesso reticolo di norme con una forza ed un impatto straordinari, anche per le aspettative che lo hanno accompagnato e che hanno finito col generare sovente delle vere e proprie hypes, come giustamente è stato sottolineato di recente.

In qualche modo l’approvazione dell’AI Act ha ravvivato il dibattito tra l’approccio europeo e quello oltreatlantico, riguardo alla pretesa unionale di voler regolamentare qualcosa che ancora attende di conoscere il suo completo e definitivo sviluppo, e di cui si sottolinea l’inanità dello sforzo; sicché la competizione globale, nel momento in cui essa conosce la sua fase più calda e terribilmente decisiva, segnerebbe lo svantaggio ulteriore del già arrancante gigante europeo, gigante nella fabbricazione delle regole, ma purtroppo non in quella di beni digitali, e quindi afflitto da una congenita inadeguatezza nel campo dello sviluppo tecnologico.

Tuttavia, proprio l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa e il suo uso in ambienti particolarmente critici – dalle infrastrutture energetiche ad alcuni sistemi di armamento – ha suscitato, non solo nel mondo occidentale, un dibattito vivacissimo e che prosegue incessante riguardo al dilemma rischi/opportunità, con variegate posizioni che tendono a valorizzare l’uno o l’altro dei due poli, ma in ogni caso richiamando l’estrema e cogente esigenza di fissare principi e limiti, e quindi regole, sia pure di larga tessitura e di ampio respiro, che diano plausibili risposte al centralissimo tema del controllo umano.

4. Certo è un fatto che quando l’Agenzia italiana ha proposto un summit alle altre agenzie e ai centri di competenza cyber dei paesi G7 vi sia stata concorde volontà di porre l’intelligenza artificiale tra i topic di cui si sarebbe dovuto parlare.

È stato detto da tutte le delegazioni che dobbiamo cooperare per lo scambio e il trasferimento delle conoscenze e per comprendere come rafforzare la governance dei sistemi definendone insieme, all’interno dello stesso framework, gli standard, così da offrire ai nostri paesi modelli sicuri per gli open data e soprattutto per le infrastrutture cloud che ospitano dati critici e strategici inerenti alla sicurezza nazionale.
Mi ha colpito il riconoscimento unanime che non abbiamo le risposte a tutte le domande e che dobbiamo sfruttare le conoscenze di noi tutti; invito che riecheggia anche nelle parole pronunciate dall’Ambassador Cyber degli Stati Uniti pochi giorni fa a San Francisco in occasione della presentazione della nuova strategia internazionale cyber.
La solidarietà, invero, è anche il focus di un altro atto normativo europeo, ancora in fase di negoziazione, che mira a creare un cyberscudo europeo imperniato su un meccanismo di mutua assistenza che potrà essere attivato nei casi di incidenti su vasta scala o di natura transfrontaliera.
Insomma, gli eventi conflittuali che stanno segnando la storia recente sembrano aver spinto ad un generale ricompattamento dei ranghi, per effetto del quale lo spirito competitivo, che da sempre alimenta ed agita i mercati digitali, lascia spazio ad un empito di rafforzata cooperazione, il cui fine è quello di irrobustire e soprattutto di estendere a favore dei paesi occidentali la rete protettiva della resilienza.
Un tratto distintivo di questo processo si coglie anche, con tutta evidenza, nell’ampliamento dei settori critici che la NIS2 ha già affermato e nel rilievo che va assumendo la compliance degli operatori delle supply chains.
Il tema della sicurezza, dunque, investe ed interroga anche i produttori e i fornitori di beni e servizi. E qui si assiste ad un singolare moto di inversione che avvicina molto il discorso allo spirito regolatorio europeo, perché, in definitiva, è la sicurezza ad avere la forza di spostare i termini della competizione.

È questo l’aspetto che, sotto altra forma, emerge dall’Ordine Esecutivo del Presidente Biden sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale; un atto che, sebbene privo di vincolatività normativa, tende a istituire un rapporto stretto, fatto di responsabilità e fiducia, tra i grandi sviluppatori dei sistemi di intelligenza artificiale e le agenzie governative statunitensi.

5. Il ruolo dell’Italia è importante innanzitutto nelle negoziazioni a Bruxelles, in ordine alle quali è sembrato necessario assumere una posizione che tenesse conto che la conclamata sovranità europea nel digitale può e deve concepirsi in una solida cornice euroatlantica, all’interno della quale la sicurezza dell’ambiente digitale è una chiave della difesa, in senso lato, dei valori del patrimonio occidentale.

L’armonizzazione e il ravvicinamento degli standard di sicurezza digitale, di cui si è anche discusso nel vertice cyber del G7, è un obiettivo fondamentale se si vuole che alla minaccia – per sua natura globale e incrementale – si contrapponga una risposta altrettanto globale e in grado di tenere il passo veloce degli attaccanti.

Possiamo pensare di essere digitalmente più sicuri se un certo prodotto che corrisponda a determinati requisiti, certificati ed asseverati da paesi like-minded, possa ottenere un passaporto di libera circolazione che gli permetta di essere riconosciuto ovunque come affidabile e di essere commercializzato, acquistato ed usato, con lo stesso grado di fiducia, in qualunque parte del mondo.

Tale obiettivo appare, del resto, in naturale connessione, sul piano tecnico, con il graduale processo di convergenza tra USA e UE su una serie di fronti tecnologici; processo che trova un punto di riferimento nel Trade Technology Council, la cui istituzione ha corrisposto anche alla finalità di contrastare l’uso della tecnologia per obiettivi antidemocratici.

6. Queste ultime considerazioni mi portano a qualche breve riflessione finale in merito al rapporto con l’Africa.

L’attenzione verso l’altra sponda del Mediterraneo si è concentrata da parte italiana nella definizione di un accordo di collaborazione con la Tunisia in ambito cyber e potrà proseguire con il Ghana anche in ragione del ruolo fortemente attivo che questo paese sta svolgendo in seno al processo continentale di Cyber Capacity Building, concepito anche con la finalità di dare supporto a obiettivi di sviluppo più ampi.

Se la rete, il web, è la struttura noetica in cui potranno essere calati i contenuti della “nuova democrazia digitale” credo che il nostro sguardo non possa non volgersi verso il continente africano, altrimenti una posta importante, forse capitale, del gioco competitivo andrebbe inevitabilmente perduta.

A questo proposito credo che vada fatto un richiamo conclusivo ai gravi pericoli della disinformazione che già rappresenta un palese rischio di inquinamento per le democrazie più mature. Essa può costituire, nei confronti dei paesi in via di sviluppo e con maggiore deficit di cultura e competenze digitali, una potente fonte di manipolazione usata per esercitare forme diffusive di pressione e di influenza, volte a nutrire un discorso pubblico denigratorio o apertamente ostile nei confronti dell’Occidente.
L’Africa è un terreno fertile per campagne ibride rivolte sia a propagare messaggi antioccidentali, sia a guadagnare, sfruttando ataviche fragilità, posizioni di vantaggio competitivo in ambiti strategici: quello economico, quello politico, quello militare.
Questo scenario ci richiama drammaticamente al pericolo che la dimensione cibernetica, spazio di progresso e di liberazione, venga invece utilizzata per perpetuare forme strumentali di dipendenza e per dar vita a una sorta di “neocolonialismo del terzo millennio”.

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