“Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Non sono i versi di uno sprovveduto in preda a derive etiche, ma le parole che Virgilio rivolge a Catone l’Uticense presentandogli Dante nel racconto descritto dal primo canto del Purgatorio. Una rivisitazione in chiave positiva del suicidio, inteso come atto supremo di libertà, nella misura in cui tale gesto, pur nella drammaticità estrema che lo connota, reagisce alla costrizione della stessa libertà entro vincoli che ne impoveriscono o svuotano il contenuto.
Non è certo, tuttavia, la soggezione a delle regole che menoma il senso e la portata della libertà. L’esistenza delle regole appare invece come una precondizione della libertà, che trova la sua origine, la sua garanzia e rinnova il suo significato autentico proprio in quel vincolo “necessitato” che è la regola.
Lungi da me voler scadere in un’acritica e opportunistica adesione, per trarne conclusioni in altri campi d’indagine, alle teorie del contratto sociale, ma la sensazione che emerge dando lettura ai commenti –in prevalenza critici- che hanno accompagnato la delibera con cui l’Autorità garante ha consegnato lo Schema di regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica è quella di un peccato originario, di un vizio genetico che spesso infirma la validità di giudizi anche pregevoli nel merito.
Non per indulgere in considerazioni di scarso momento pratico, ma l’impressione dominante è che i rilievi critici avanzati nei riguardi dello Schema, pur talvolta fondati, non siano stati sempre preceduti da una ponderata riflessione sul senso della libertà in rete e sull’autentico significato che essa riveste, alla luce delle specificità che la contraddistinguono.
Credo sia doveroso esprimere un dissenso fermo ma ragionato rispetto a profili che attengono in parte all’impostazione e all’approccio di partenza, in parte al merito della regolazione. In entrambe le categorie di censure, tuttavia, ravviso una comune radice nel fraintendimento di cui la portata della libertà in rete forma oggetto, che si traduce inevitabilmente anche in un apprezzamento non equilibrato dei valori in gioco e della rispettiva rilevanza costituzionale o paracostituzionale.
“Non siamo mica come gli americani…”. No, infatti: siamo peggio
Sembra a me paradossale, anzitutto, che dalla divisata adozione di una procedura di notice and takedown si traggano conseguenze, apparentemente catastrofistiche, sul piano della (possibile) incisione della libertà di espressione, soprattutto degli utenti, che non si registrano nell’esperienza nordamericana, laddove la freedom of speech gode di una considerazione pressoché sacrale e la rimozione selettiva costituisce uno strumento di enforcement ormai corroborato negli anni di vigenza del Digital Millennium Copyright Act. Stupisce, dunque, come l’implementazione di un sistema siffatto venga ritenuta foriera di un pregiudizio irreparabile alla libertà di espressione degli utenti in un sistema, qual è il nostro, di democrazia militante –in cui cioè si ammette un possibile sacrificio della libera manifestazione del pensiero, ove l’esercizio di tale diritto provochi un detrimento ad altre libertà costituzionalmente garantite-, quando simili conseguenze appaiono del tutto fisiologiche e normali nella principale democrazia tollerante mondiale, dove –al contrario- la libera espressione tende a prevalere su ogni fronte. Probabilmente, la risposta di un nordamericano al problema della tutela del diritto d’autore e delle conseguenze asseritamente liberticide di un meccanismo di notice and takedown si risolverebbe in un “that’s not matter of freedom of speech”, dal momento che –come ragione impone- se un contenuto viola il diritto d’autore, allora è un contenuto illecito, e nessuna guarentigia può essergli accordata.
Il sospetto che l’italica tendenza a trasformare un illecito in un atto di libertà, con tutto ciò che comporta, abbia preso il sopravvento è più che legittimo.
La verità, vi prego, sulla libertà di espressione
L’ultima che ho letto riferisce di preoccupazione da parte di organismi internazionali in ordine alle possibili conseguenze sulla garanzia di effettività dei diritti umani, fra cui la libertà di espressione. Non scherziamo, per favore.
Trovo giuridicamente riluttante l’opera di mistificazione della realtà confezionata ad arte, con immancabile puntualità, attraverso una retorica dei diritti fondamentali che sfiora il ridicolo se comparata ad altri ambiti nei quali sarebbe parimenti non consona, ma meno inopportuna. Pare talvolta di scorgere riflessioni anche acute che nondimeno tralasciano un elemento essenziale nella ponderazione dei valori in gioco: ciò di cui si discute è la possibilità di procedere alla rimozione di un contenuto dal web. Vero che in termini generali un intervento sui contenuti configura un potenziale vulnus alla libera espressione. Ma le precisazioni necessarie sono due:
-in primo luogo, non c’è libertà senza regole che la presiedono. E quando le regole vengono violate, è giusto che la libertà sia ristretta. Altrimenti un cattivo esercizio della libertà diviene menomazione della libertà altrui;
-in secondo luogo, se il vulnus che la rimozione di un contenuto crea alla libera espressione si accetta come conseguenza, occorre comunque apprezzare l’intensità di questo vulnus attualizzandola al grado di incisione effettivo causato dall’intervento ablativo. Se mi strappo un capello, non potrete negare che io abbia i capelli. Se me ne strappo dieci, potrete affermare la stessa cosa. Se mi strappo tutti i capelli, direte invece che sono calvo.
“La procedura di notice and takedown configurerebbe un meccanismo liberticida in grado di infirmare il godimento di diritti umani”. Non scherziamo, per favore. Senza scomodare la fantozziana “Corazzata Kotiònkin”, raccontiamo la verità: non tutti i lettori sono clienti..
Libertari con il diritto degli altri
Se poi una libertà può essere effettivamente infirmata, pare a me più consono individuarla, semmai, nella libertà di iniziativa economica che fa capo agli Internet Service Provider. Le stesse indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia sembrano deporre in tal senso, segnalando l’esigenza di non gravare gli ISP di controlli che snaturerebbero la relativa disciplina, imperniata sull’assenza di un obbligo di sorveglianza in via preventiva.
Anche a questo proposito, tuttavia, occorre avanzare alcuni rilievi critici. Il caso esaminato dalla Corte di Lussemburgo era originato dall’adozione di un meccanismo di filtraggio del flusso di dati riconducibile agli utenti. Di sistemi analoghi, nello Schema di regolamento, non figura alcuna traccia. Pare a me, anzi, positivo il riconoscimento del valore di eventuali procedure di rimozione adottate in via di autoregolamentazione dai gestori delle pagine Internet (che in molti casi corrispondono agli stessi ISP), funzionale a una risoluzione in via precontenziosa di ogni rapporto controverso. Nemmeno privo di pregio è il tentativo, sicuramente perfettibile, dell’Autorità di consentire l’instaurazione di un vero e proprio contraddittorio nel corso della fase amministrativa. Peraltro, non vorrei fosse dimenticato che il decreto E-Commerce (d. lgs. 70/2003), per come è stato recepito in Italia, subordina l’obbligo di rimozione in capo al provider all’esistenza di una previa notifica da parte dell’Autorità. Frutto questo di una scelta anomala da parte del legislatore italiano, ma che consente di preservare un controllo in via ammnistrativa (ed eventualmente giurisdizionale) sull’esistenza di una violazione. Ebbene, la procedura delineata dallo Schema di regolamento non sembra discostarsi da questo fondamento involontariamente (?) garantistico, non essendo istituito alcun un obbligo di rimozione da parte del provider all’esito della mera segnalazione da parte del titolare dei diritti. Ciò che, a ben vedere, avrebbe potuto essere, all’opposto, se il nostro Parlamento avesse pedissequamente recepito le indicazioni della Direttiva E-Commerce. E su questo sono il primo a dire: meno male.
Serve allora una riflessione, forse meno sensazionalistica e più ponderata, sul ruolo degli ISP all’interno della moderna società dell’informazione. Se si accetta di riconoscerne il ruolo fondante nell’architettura della rete, è giocoforza esigere un contributo nel contrasto alle attività illecite che sulla stessa rete si consumano. Senza che questo, beninteso, possa tradursi in uno snaturamento dei principi che ne governano la responsabilità, seppure oggetto di una problematica e forse pionieristica rivisitazione giurisprudenziale.
Anche su questo versante, sul contenuto della libertà nella rete si è forse dimenticata, archiviandola troppo rapidamente dopo la (giusta) sentenza di appello, la lezione che proviene dal primo capitolo del caso Google-Vividown.
Quello che le critiche alle critiche non tolgono
Le critiche che ho cercato di articolare fin qui, tutte ancorate sulla pretesa lesione della libertà di espressione e, più in generale, della libertà della rete che deriverebbe dallo Schema di regolamento, ove questo fosse adottato, non eliminano a mio avviso alcuni profili problematici che sono stati correttamente messi in luce dai numerosi commenti apparsi negli scorsi mesi, nel corso della consultazione pubblica. Sarebbe tuttavia ingeneroso non tributare allo Schema il merito di aver restituito attualità a un tema lasciato alla deriva negli scorsi mesi, in un silenzio facilitato dall’assenza di casi eclatanti di violazioni massive, non senza aver (finalmente) aperto a un confronto con operatori ed esperti del settore. Si è paventato che, al confronto con altre esperienze europee, l’implementazione della procedura di notice and takedown apparirebbe come una modalità recessiva. Non trovo infondato questo rilievo, ma ritengo che occorrerebbe mantenere ciascun singolo giudizio correlato alle irrepetibili caratteristiche di ogni sistema (le peculiarità del sistema francese, per esempio, impongono di non estendere giudizi di valore). La prova dei fatti potrebbe sortire risultati forse meno drammatici di quanto paventato. Di certo la rimozione selettiva non costituisce nulla di innovativo e in questo lo Schema delude, soprattutto alla luce dell’attenzione che era stata annunciata verso iniziative volte alla promozione dell’offerta legale, di cui si ha riscontro soltanto marginale nel testo.
Sul piano della competenza e del controllo amministrativo e giurisdizionale, permangono certamente aspetti critici. Non ho fatto mistero, in passato, di ritenere precaria la base normativa assunta dall’Autorità a fondamento dei propri poteri regolamentari. La teoria dei poteri impliciti, tuttavia, potrebbe venire in aiuto e prestare il fianco all’azione dell’Agcom: nella misura in cui si attribuiscono poteri di vigilanza, seppure in una materia coperta teoricamente da una riserva di legge, l’assenza di un’espressa competenza legislativa potrebbe essere compensata dall’adozione di un provvedimento rispettoso dei requisiti di legalità formale e sostanziale per una fonte di rango primario. In questo modo il tema della tutela del diritto d’autore potrebbe essere efficacemente emancipato dalle sabbie mobili dell’immobilismo parlamentare (sul punto), sottraendo la materia a giudizi di valore politico che inasprirebbero le polemiche che tanto sopra ho biasimato.
Tanto altro meriterebbe di essere detto, molte le critiche che possono essere condivise, ma il dibattito non può efficacemente procedere se non depurato dalle pregiudiziali che ho cercato di evidenziare.