L’esimente della provocazione nella diffamazione in atti giudiziari

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Corte di cassazione, sez. V, 9 aprile 2021 (dep. 14 luglio 2021), n. 1077

Non può essere invocata, per mancanza del requisito dell’immediatezza, la scriminante della provocazione di cui all’art. 599 c.p. quando l’offesa sia contenuta in una comparsa conclusionale, posto che tale atto giudiziario, per sua natura, viene depositato dopo un considerevole lasso di tempo rispetto a qualsiasi altro momento processuale nel quale, in ipotesi, si sia realizzato il fatto ingiusto altrui.

Sommario: 1. Il principio. – 2. La vicenda. – 3. La motivazione della Cassazione. – 4. La comunicazione a più persone. – 5. Il diritto di toga.

  1. Il principio.

Chiamata ad affrontare una non frequente ipotesi di diffamazione a mezzo atti giudiziari, la Corte di Cassazione si esprime – tra l’altro – sul tema dell’applicabilità dell’esimente della provocazione.

Con la sentenza che si annota, la quinta sezione penale della Corte di cassazione, in linea con diversi precedenti giurisprudenziali propri e di altre sezioni, ribadisce che, ai fini del riconoscimento dell’esimente in parola, pur non essendo necessaria una reazione istantanea, è però richiesta l’immediatezza della reazione, intesa come legame di interdipendenza tra reazione irata e fatto ingiusto subito, con la conseguenza che il trascorrere di un lasso di tempo considerevole può escludere il rapporto causale.

  1. La vicenda.

Così riassunto il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte, pare opportuno soffermarsi sul caso concreto che ha originato la decisione.

Per quanto si riesce a comprendere dalla ricostruzione dei fatti operata in motivazione, invero molto sintetica, un avvocato depositava in un giudizio civile una comparsa conclusionale che conteneva espressioni offensive dell’onore e della reputazione del legale di controparte.

Pur non essendo noto il tenore letterale delle parole utilizzate, il giudice di prime cure prima e la corte d’appello poi ritenevano integrato l’elemento oggettivo della diffamazione, vale a dire la valenza offensiva dello scritto e sul punto nessuna censura veniva mossa in sede di ricorso per cassazione dall’imputato.

Quest’ultimo, infatti, nel rivolgersi alla Suprema Corte, chiedeva l’annullamento della sentenza sul presupposto del mancato riconoscimento dell’operatività della scriminante di cui all’art. 599 c.p.; a suo avviso, infatti, l’offesa sarebbe stata una reazione posta in essere in uno stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui.

Il ricorrente lamentava poi anche la mancanza del requisito della diffusività della comunicazione, sostenendo come la comparsa conclusionale fosse in realtà destinata solo al giudice e alla controparte.

Premessa l’impossibilità di sapere – stante il silenzio della motivazione sul punto – in cosa sarebbe consistito il fatto ingiusto altrui che avrebbe determinato la reazione, la Cassazione, come anticipato, rigettava il ricorso sotto entrambi i profili, enunciando, per quanto attiene l’esimente della provocazione, il principio sopra riportato.

  1. La motivazione della Cassazione.

Il percorso motivazionale che ha condotto la Corte – concordemente ai giudici di merito – ad escludere qualsiasi rilievo alla scriminante invocata è decisamente sintetico, oltre che del tutto allineato alla giurisprudenza di legittimità.

Il Supremo Collegio ribadisce il consolidato insegnamento secondo cui nei delitti contro l’onore, per il riconoscimento dell’esimente della provocazione, prevista dall’art. 599 c.p., è sufficiente che la reazione sia posta in essere nel perdurante stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui (quello identificabile, appunto, come provocazione); con la specificazione, però, che se, da un lato, non è necessaria l’istantaneità della reazione, dall’altro deve ritenersi certamente richiesta l’immediatezza della stessa, intesa come legame di interdipendenza tra reazione irata e fatto ingiusto subito.

A chiarire la differenza tra istantaneità e immediatezza della reazione, con ciò che consegue in termini di configurabilità o meno della scriminante in parola, soccorre la specificazione contenuta in motivazione, laddove gli ermellini sottolineano come il trascorrere di un lasso di tempo considerevole tra il fatto ingiusto e la reazione possa  assumere rilevanza dirimente, portando a escludere il rapporto causale e, per converso, a riferire la reazione a un sentimento differente, quale l’odio o il rancore, come tale estraneo all’ambito di operatività della norma in questione e perciò non scriminabile.

Applicando tale principio di diritto al caso di specie e considerata la scansione processuale del giudizio civile e, in particolare, l’ampio lasso di tempo che intercorre tra la precisazione delle conclusioni e il deposito della memoria conclusionale, la Cassazione conferma la correttezza della valutazione operata dai giudici di merito in ordine alla mancanza di immediatezza della reazione posta in essere dall’imputato e alla conseguente insussistenza dell’invocata esimente.

  1. La comunicazione a più persone.

Nella sentenza in commento la Cassazione affronta anche un altro tema piuttosto interessante, perché relativo alla comunicazione a più persone, elemento necessario per la sussistenza del contestato reato di diffamazione.

L’imputato, infatti, aveva lamentato anche la mancanza del requisito della diffusività della comunicazione, sostenendo come la comparsa conclusionale fosse in realtà destinata solo al giudice e alla controparte e quindi inidonea a integrare quella specifica parte della condotta materiale sanzionata dall’art. 595 c.p.

Anche in relazione a tale censura la pronuncia della Corte risulta piuttosto netta: richiamando propri specifici precedenti, il supremo Collegio ha chiarito come la comparsa conclusionale sia un atto destinato a essere conosciuto non solo dal giudice e dalla controparte, ma anche, quanto meno, dagli addetti di cancelleria, sottolineando tra l’altro come ciò non potesse certamente essere ignorato dal ricorrente, che, essendo un avvocato, doveva essere ben consapevole delle conseguenze che il deposito dell’atto avrebbe determinato, quanto meno in termini di conoscibilità del “fraseggio offensivo” da parte dei soggetti tenuti alla ricezione dell’atto e al suo inserimento nel fascicolo del procedimento.

Si tratta, invero, di un’affermazione che non appare del tutto convincente. Se è vero, infatti, che la propalazione delle offese contenute nell’atto giudiziario era certamente diretta o comunque conoscibile quanto meno dal giudice e dalla parte  (ammesso e non concesso che la controparte dell’imputato e il difensore di quest’ultima non coincidessero in un’unica persona, circostanza che non è dato comprendere dalla scarna ricostruzione della vicenda contenuta in sentenza) e che per tale via poteva dirsi già integrata la comunicazione a più persone, ciò che lascia perplessi è l’affermazione – posta in termini assai perentori dalla Corte – che il personale di cancelleria, in quanto “naturalmente” destinato a ricevere gli atti e a inserirli nel fascicolo processuale, debba per ciò solo considerarsi un destinatario “naturale” e conseguentemente un (almeno ipotetico) lettore “naturale” del contenuto degli stessi.

Anche a voler prescindere, ovviamente, dall’attuale tendenza in atto alla smaterializzazione del processo, a cominciare dall’eliminazione del deposito fisico dei suoi atti, il ragionamento espresso dai giudici di legittimità non appare convincente,  posto che tra le mansioni del personale di cancelleria non pare rientrare certo la lettura di quanto viene depositato, tanto più ove si tratti, come nel caso di specie, di una comparsa conclusionale, vale a dire di un atto privo di istanze urgenti da sottoporre al giudicante che sole, in ipotesi, potrebbero imporre una preventiva lettura da parte del cancelliere.

  1. Il diritto di toga.

Da ultimo, appare interessante notare come nella vicenda – quanto meno per come “ricostruita” nella sentenza della Suprema Corte – manchi completamente qualsiasi riferimento al cosiddetto diritto di toga, vale a dire a quella speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 598 c.p., secondo cui non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati (o nei discorsi pronunciati) dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, quando le offese concernono l’oggetto della causa.

Ovviamente, non essendo specificato nel testo della sentenza in commento né in cosa sia consistito il “fraseggio offensivo” dell’imputato ricorrente, né il preteso fatto ingiusto della controparte astrattamente idoneo a integrare gli estremi dell’esimente della provocazione, non è possibile esprimersi in termini di certezza, potendosi al più solo ipotizzare che quelle espressioni offensive fossero così pacificamente estranee all’oggetto della causa che neppure il suo autore abbia provato a difendersi chiamando in causa la speciale causa di non punibilità ora ricordata.

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