L’adozione, da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, del Regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica (approvato con Delibera n. 680/13/CONS) ha suscitato, come è noto, un dibattito aspro e partecipato che ha conosciuto anche una retorica piuttosto diffusa dei diritti fondamentali, e della libertà di espressione in particolare.
Questo dibattito, a tratti sterile, ha trovato finalmente la sua conclusione, non si sa se in via definitiva, ieri, quando la Corte costituzionale ha depositato la sentenza n. 247/2015 che, come ampiamente previsto ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR Lazio con due distinte ordinanze che avevano investito la base giuridica del Regolamento, ossia le norme di rango primario dedotte dall’Autorità a fondamento del proprio potere di ordinare la rimozione selettiva di contenuti o la disabilitazione dell’accesso a siti Internet.
Beninteso: il peccato originale che ha condotto alla declaratoria di inammissibilità delle questioni affonda le sue radici, almeno direttamente, nelle ordinanze di rinvio n. 10016 e 10020 del 2014. Due provvedimenti dal contenuto pressoché identico che, già prima facie, apparivano fortemente indiziarie e a tratti dal valore confessorio: entrambe le ordinanze si caratterizzavano per un contenuto decisorio sulla gran parte dei motivi di ricorso, al netto dei dubbi di costituzionalità deferiti alla Consulta. Ma proprio il contenuto decisorio delle ordinanze, a tratti non certo cristallino, ha senz’altro influenzato la formulazione delle questioni di legittimità costituzionale, oscure nel loro ambito applicativo e nella loro effettiva pertinenza alle problematiche al centro della vicenda.
Se, però, il peccato originale “diretto” risale alla cattiva qualità delle ordinanze di rimessione, non si può negare che queste ultime siano state il prodotto anche di un dibattito che troppo spesso ha icasticamente rappresentato la vicenda, banalizzandola, come una contrapposizione tra buoni (motivati dalla tutela della libertà di espressione, e dunque di un diritto fondamentale) e cattivi (l’Autorità che protegge le lobby del copyright, derubricato dal catalogo dei diritti fondamentali quando documenti internazionali e dell’Unione europea, basti pensare alla Carta dei diritti fondamentali).
Al di là del merito delle posizioni soggettive e dell’esito della vicenda, spiace soltanto che questa sovrapposizione di un quadro ideologico a un quadro prettamente giuridico abbia poco giovato al lavoro di diversi, tra costituzionalisti e non solo, che alla questione hanno invece dedicato attente riflessioni sul piano più strettamente giuridico e che si sono espressi nel senso della illegittimità (quantomeno parziale) della base giuridica del Regolamento.
Da una prospettiva di giustizia costituzionale, non è immediato risalire alla tipologia decisoria in cui ricade la pronuncia, che non viene esplicitata dalla Corte. Si può pensare che il giudice remittente non abbia adeguatamente motivato sulla non manifesta infondatezza della questione (o meglio, delle questioni) che ha sollevato, soprattutto alla luce dell’omissione di un tentativo di interpretazione delle norme censurate conforme non solo alla Costituzione ma anche a documenti di sicuro rilievo costituzionale, come parametro interposto. Al di fuori di una stretta tipizzazione, si può ritenere più probabilmente che si versi nella fattispecie di una questione di costituzionalità sollevata in maniera generica, ipotetica o contraddittoria dal giudice a quo (v. Corte cost., n. 351/2007).
Venendo al merito: anzitutto, la Corte rileva che le disposizioni impugnate «non attribuiscono espressamente ad AGCOM un potere regolamentare in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica». Prosegue poi: «Detto potere è, invece, desunto implicitamente e in via interpretativa dallo stesso rimettente, in base a una lettura congiunta di tutte le disposizioni impugnate». Riemerge qui la questione della competenza, altro tema centrale nell’economia della legittimità del Regolamento. Apparentemente la Consulta sta fornendo un assist per i ricorrenti nel giudizio di impugnazione; più realisticamente, la Corte si sta limitando a constatare un dato tutt’altro che nuovo: e cioè che mancano nell’ordinamento fonti di livello primario espressamente attributive di una potestà regolamentare, a eccezione del settore dei servizi di media audiovisivi, dove invece la competenza è esplicitata dall’art. 32-bis del D. Lgs. 177/2005.
Ma il vizio di competenza, semmai, è motivo di annullamento in sede amministrativa, non certo di illegittimità costituzionale di una norma (quale, del resto, potendo la Consulta giudicare della costituzionalità di leggi e atti con forza di legge?). E su questo tema il Tar del Lazio, che pure avrebbe potuto fare tabula rasa della vicenda, senza nemmeno procedere al rinvio alla Consulta, dichiarando il vizio di competenza e annullando il Regolamento, adotta una soluzione opposta: il problema della competenza, per il Tar, non c’è. Nulla esclude, però, che la medesima censura possa riproporsi davanti al Consiglio di Stato, in sede di (prevedibile) appello dopo che il Tar avrà preso atto della sentenza della Corte e verosimilmente respinto il ricorso anche nei motivi residuali. E’ ben possibile che tale rigetto possa essere affiancato da parte del Tar da una più convincente e meglio argomentata posizione rispetto al fondamento della competenza in capo all’Autorità, aderendo in questo modo alle indicazioni della Corte. E’ invece da ritenere assai remota la possibilità che il Tar ritorni del tutto sui propri passi in tema di competenza, rovesciando il proprio orientamento, per due semplici ragioni, di cui la seconda è evidentemente assorbente: in primo luogo, perché il Tar è formalmente vincolato esclusivamente dal dispositivo della sentenza, che ragiona soltanto in termini di inammissibilità della questione; in secondo luogo, perché pur volendo attribuire a quell’obiter dictum un portato vincolante, non sembra certo che questo possa essere identificato nel senso di un accertamento da parte della Consulta della inesistenza di competenza di AGCOM ad adottare il Regolamento, ma piuttosto -come si è sempre sostenuto fin dalle origini- della mancanza di una disposizione di rango primario che espressamente attribuisca detta competenza.
Quindi, la Corte si sofferma sulle disposizioni impugnate. In particolare, osserva la Consulta, riguardo al trittico di norme sulla responsabilità degli Internet service provider, che gli artt. 14, c. 3, 15, c. 2, e 16, c. 3, del D. Lgs. 70/2003 «si limitano a riprodurre i corrispondenti artt. 12, 13 e 14 della […] direttiva n. 2000/31/CE». Le disposizioni ivi racchiuse, ricorda la Corte, stabiliscono delle esenzioni di responsabilità, che sono accompagnate da alcune condizioni e da una clausola di salvaguardia. Quest’ultima, ad avviso dei giudici costituzionali, lascia impregiudicata «la possibilità per gli Stati membri di attribuire all’autorità giudiziaria o a quella amministrativa poteri inibitori, da esercitarsi anche in via d’urgenza, nei confronti dei medesimi prestatori di servizi, al fine di impedire o porre fine a violazioni di diritti di terzi». Così, l’autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza può esigere che il prestatore impedisca o ponga fine alle violazioni commesse.
In questo passaggio viene smentito l’argomento per cui l’Italia avrebbe dato un’attuazione non coerente con l’intento della direttiva (qualcuno ha impropriamente parlato di eccesso di delega, dimenticando che tale vizio presuppone che un atto delegato, come il decreto legislativo, si discosti dal contenuto dell’atto delegante, che è la legge di delega e non certo la direttiva di cui la delega mira all’attuazione).
Altro punto rilevante in cui la Corte si addentra nelle censure al percorso motivazionale delle ordinanze di rimessione: secondo la Consulta, «il contenuto delle previsioni impugnate è per alcuni aspetti più circoscritto e per altri eccedente rispetto all’oggetto del regolamento di AGCOM. Sicché […] una decisione di accoglimento […] non avrebbe l’effetto auspicato dal giudice rimettente, ma finirebbe per espungere dall’ordinamento disposizioni che riguardano, o aspetti sostanziali della disciplina delle comunicazioni elettroniche, o l’attribuzione ad AGCOM di funzioni e poteri che non solo non sono in discussione, ma che devono essere attribuiti conformemente a quanto previsto dalla direttiva europea».
Qui la Corte costituzionale sembra stabilire un principio cardine, con il voler affermare che non possa essere messo in discussione il potere delle autorità amministrative competenti (nella fattispecie, AGCOM) di ordinare la rimozione di contenuti a un prestatore di servizi Internet. E ciò indipendentemente dal fatto che tale autorità amministrativa agisca in surrogazione o in autonomia rispetto all’autorità giudiziaria: non si tratta di una prerogativa che spetta a quest’ultima soltanto, dunque.
A ben vedere, questo rilievo è una pietra tombale su qualsiasi argomentazione fondata sulla supposta carenza di una legittimazione dell’autorità amministrativa (palesemente AGCOM nella fattispecie) a intervenire ordinando la rimozione di contenuti o la disabilitazione di un sito.
Da ultimo, la Corte prende atto della incongruenza tra la motivazione e il dispositivo delle ordinanze di rimessione. Prende atto perché, davvero, era già chiara a tutti coloro che si fossero imbattuti nella loro lettura.
Il dispositivo si articola infatti in due richieste: la prima è la declaratoria di illegittimità delle disposizioni censurate, dunque una pronuncia ablativa; la seconda è la loro censura nella misura in cui non prevedano garanzie equiparate a quelle che l’art. 21, c. 3, stabilisce per la stampa.
La stessa motivazione, per la Corte, segue un andamento incoerente: se prima il Tar si sofferma sulle ragioni che esigono maggior tutela per la stampa rispetto all’esercizio della libertà di espressione attraverso altri mezzi, poi sembra pervenire a una richiesta che si colloca nella direzione opposta, dolendosi dell’assenza di un comune statuto.
Qui la Corte si concentra anche su profili di tecnica costituzionale: l’incoerenza è ancora maggiore perché per un verso si richiederebbe una declaratoria di illegittimità costituzionale «pura e semplice», ma si chiede anche, non si comprende se in un rapporto di alternatività o di subordinazione, una pronuncia additiva che renda applicabile a Internet le garanzie costituzionali che operano per la stampa.
Tutte queste prospettazioni, dunque, per la Consulta non superano il vaglio di ammissibilità.
Tanto rumore per nulla? Tutto finito? No, ci mancherebbe: c’è sempre la possibilità di un appello in Consiglio di Stato.
In definitiva, la Corte costituzionale finirà nell’elenco dei buoni o dei cattivi? Forse è auspicabile una terza via, che superi ogni semplificazione e retorica, e restituisca al dibattito il valore aggiunto che la pronuncia della Corte senz’altro porta con sé.