L’art. 12 della legge sulla stampa inapplicabile alla diffamazione a mezzo televisione: una interpretazione correttamente restrittiva di una norma eccezionale

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1. L’art. 12 della legge stampa

In materia di diritto dell’informazione, tra le disposizioni più neglette dai cultori e talvolta, con conseguenze più perniciose per i loro assistiti, anche dagli avvocati, vi è sicuramente l’art. 12 della legge n. 47 del 1948 (legge stampa).

Supponendo che i nostri ventiquattro lettori provino il nostro stesso senso di spaesamento di fronte al mero richiamo al riferimento numerico, è bene, prima di qualsiasi riflessione, ricordare che tale articolo, rubricato Riparazione pecuniaria, prevede che «Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 del Codice penale, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato».

è dunque una norma anomala, tutto sommato marginale e di cui si coglie con difficoltà la logica. Tuttavia, essa riemerge saltuariamente dal limbo, ponendo questioni di qualche interesse per lo studioso e di più di un’utilità per il pratico.

Così, nell’ultimo biennio, in due occasioni la terza sezione civile della Cassazione si é pronunciata sull’applicabilità di tale sanzione pecuniaria alla diffamazione commessa con il mezzo televisivo e in entrambe le decisioni ha risposto in senso negativo.

Segnatamente, la sentenza n. 6490/2010 del 17 marzo 2010 – in un caso di intervista diffamatoria diffusa durante un programma televisivo – afferma il principio «secondo cui l’art. 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, nel prevedere un’ipotesi eccezionale di pena pecuniaria privata per la diffamazione a mezzo stampa, non è suscettibile di applicazione analogica a casi diversi da quelli espressamente contemplati; conseguentemente, in mancanza di un espresso richiamo alla suddetta disposizione da parte della legge 7 agosto 1990, n. 223, che disciplina i reati commessi con il mezzo televisivo, non è applicabile a questi ultimi».

Facendo applicazione di tale principio, il Giudice di legittimità, nella sentenza n.10214/2011, depositata il 10 maggio 2011, ha parzialmente accolto un ricorso di un’emittente televisiva nazionale, chiamata a rispondere civilmente delle espressioni diffamatorie pronunciate da un esuberante personaggio, all’epoca dei fatti deputato e conduttore di un programma quotidiano.

Ha in tal modo ribadito che la condanna al pagamento della pena pecuniaria prevista dall’art. 12 della legge sulla stampa è applicabile esclusivamente ai reati commessi con tale mezzo di informazione e non anche, come nel caso di specie, a quelli posti in essere tramite la televisione.

2. Il contesto normativo

Le decisioni in commento consentono di fare una riflessione sul contesto di disposizioni in cui l’art. 12 della legge stampa si iscrive: non si può non notare – accanto a dichiarazioni di principio altisonanti sulla sacralità della libertà di espressione – una sorta di accanimento in termini di sanzioni sull’attività dei giornalisti, in particolare della carta stampata. Ad esempio per la diffamazione commessa col mezzo della stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato (art. 13 legge stampa) è prevista, sia pure in astratto, la assai grave pena detentiva fino a sei anni di reclusione, la consequenziale condanna al risarcimento del danno, la sanzione pecuniaria di cui all’art. 12 legge stampa e infine una eventuale condanna in sede deontologica da parte dell’Ordine professionale. Alla responsabilità dell’autore dell’articolo va a sommarsi, ex art. 57 c.p., quella per omesso controllo in capo al direttore, che risponde anche civilmente dei danni arrecati e nei cui confronti un indirizzo giurisprudenziale – non univoco ma pure esistente – ritiene di estendere anche la sanzione pecuniaria di cui qui si discute (cfr. Cass. pen., sez. V, 5 marzo 2010 n. 13198, B., in Cass. pen. 2011, p. 1005, conf. Cass. pen., sez. V, 13 gennaio 2009, n. 9297, C.). Non si può certo dire, in base a queste disposizioni, che anche un solo incidente di percorso “costi” poco, e non solo in termini meramente economici.

3. I Costituenti e la “pena privata”

La legge stampa è uno dei rari atti normativi approvati dall’Assemblea Costituente. Vi si ritrovano, accanto ad affermazioni di principio molto nette a favore della intangibilità della libertà di espressione, anche numerose disposizioni che dimostrano una notevole cautela nell’aprire spazi di libertà: il numero di fattispecie incriminatrici e di disposizioni volte al controllo dell’attività giornalistica, oltre alla severità delle sanzioni, sono i principali indici di un tale fenomeno. Basti pensare all’obbligo di registrazione della testata e all’estensione dei soggetti responsabili, al notevole incremento di pena previsto dall’art. 13 rispetto alle pur non lievi sanzioni introdotte dal Codice Rocco, all’ampliamento del concetto di osceno negli artt. 14 e 15 e infine alla stessa previsione di cui all’art. 12.

Le ragioni di questa posizione del legislatore sono state ampiamente analizzate in lavori ben più ampi e autorevoli di questo breve appunto. Ciò che qui si può sottolineare è che gli stessi Costituenti nei lavori preparatori hanno sottolineato come la riparazione pecuniaria sia «un’aggiunta» ai danni patrimoniali e non patrimoniali eventualmente causati dalla diffamazione, sicché la previsione troverebbe la sua giustificazione nella volontà di «rendere più sensibili le conseguenze per l’offensore della diffamazione libellistica». Tale sanzione è stata definita dai medesimi Costituenti una «pena privata».

La disposizione – a quanto consta – è una rarità nel panorama dell’ordinamento e, proprio per la sua originalità, non sembra sbagliato ritenerla a tutti gli effetti riconducibile alla definizione di cui all’art. 14 delle preleggi: una legge eccezionale, in quanto fa appunto «eccezione a regole generali o ad altre leggi».

Alla luce soprattutto dell’evoluzione del diritto dell’informazione, costituzionalmente ben ispirato, tuttavia, a tale regola riesce assai difficile, soprattutto oggi, trovare un senso, se non si vuole accettare un’impostazione di preconcetto sfavore nei confronti dei giornalisti. Sembra quasi trattarsi di “antipatia”, tanto è arduo trovare una ratio accettabile a una simile previsione. Pare in sostanza uno strumento di cui il legislatore ha dotato il giudice, affinché quest’ultimo adotti la “mano pesante” nei confronti di chi si rende responsabile di diffamazione a mezzo stampa.

In pratica, poi, tenuto conto che spesso si tratta di valutazioni equitative, i cui parametri quasi mai si basano su indici precisi, accade sovente che il tribunale (civile o penale, trattandosi di sanzione irrogabile da entrambi) decida l’importo del corretto risarcimento nei confronti del danneggiato e ne divida la “somma” tra risarcimento e riparazione pecuniaria.

Insomma, se probabilmente in concreto l’effetto di una simile disposizione non stravolge in termini peggiorativi le condanne per diffamazione, certo è un istituto che manifesta l’intenzione di rendere particolarmente afflittiva la punizione per le condotte lesive della reputazione commesse a mezzo stampa.

4. Le valide ragioni di una interpretazione restrittiva

Tornando alle sentenze, pare del tutto corretto il “verso” delle decisioni di cui si dà conto, con le quali la Corte limita rigorosamente l’applicazione della riparazione pecuniaria, evitando di estenderne la efficacia dalla diffamazione a mezzo stampa a quella a mezzo televisione. I Supremi giudici, pur senza citare la disposizione delle preleggi sopra menzionata, paiono proprio richiamarsi a essa, in quanto sembrano applicare al caso di cui si tratta proprio la disposizione in questione, riproponendone altresì il tenore e financo le parole. La Corte, infatti, nella sentenza del 2011, è esplicita nel ritenere che l’art. 12 costituisca una «ipotesi eccezionale di pena pecuniaria […] non […] suscettibile di applicazione analogica a casi diversi da quelli espressamente contemplati».

La scelta appare del tutto condivisibile per un certo numero di ragioni.

La prima è di ordine letterale: il tenore dell’art. 12 legge stampa consente di ritenere la disposizione del tutto riconducibile proprio a quelle leggi eccezionali la cui applicabilità analogica è esclusa dall’art. 14 delle preleggi. La riparazione pecuniaria è una sorta di sanzione ulteriore prevista per un caso del tutto particolare, che quindi non consente interpretazioni estensive di sorta.

La seconda è di ordine sistematico: il divieto penalistico di interpretazione analogica in malam partem può essere a buon diritto ritenuto espressione di un più generale sfavore dell’ordinamento nei confronti di interpretazioni che estendano le fattispecie illecite e le sanzioni afflittive.

La terza deriva dal giudizio negativo già espresso sulla norma in questione. Si tratta, lo si ripete, di una «pena privata» di cui si fa obiettivamente molta fatica a comprendere il senso e ad accettare la presenza nell’ordinamento. Essa – come detto – sembra muovere dal mero intento di aggravare lo strumentario sanzionatorio volto a contrastare le condotte di diffamazione “a mezzo stampa”, intento figlio di una preconcetta insofferenza (o forse solo diffidenza, che in taluni casi però si trasforma in evidente avversione) nei confronti del giornalismo, cioè della condotta che costituisce la più classica concretizzazione, in chiave professionale, della libertà di espressione. Dunque quest’ultima ragione è schiettamente di “politica criminale”: di fronte ad una disposizione ritenuta poco condivisibile non si può che approvare la scelta della Cassazione di imporne un’applicazione il più circoscritta possibile.

5. Indicazioni possibili

L’orientamento della Corte fa ben sperare in una rigorosa limitazione dell’art. 12 anche in ordine ad altre ipotesi. Ad esempio: così come l’applicabilità della riparazione pecuniaria non è stata ammessa per la diffamazione a mezzo televisione, bisogna ritenere che non lo sarà nemmeno a quella “telematica”.

La circostanza conferma un orientamento in materia e suggerisce una riflessione più generale.

Il primo è sintetizzabile nell’indirizzo preso dalla giurisprudenza a favore di una sempre più marcata differenza di disciplina fra i vari media, soprattutto per quanto riguarda il cotè sanzionatorio. Alla tentazione di uniformare la disciplina di tutti, sulla scorta di un malinteso senso di giustizia sostanziale o di una scarsa comprensione delle peculiarità dei vari mezzi, sembra prevalere una più persuasiva posizione che viceversa non azzarda generalizzazioni ed evita spericolate analogie pindariche.

La riflessione più ampia riguarda la ragionevolezza oggi di alcune disposizioni sanzionatorie previste per la stampa strettamente intesa, fossili normativi di un’epoca passata. La inapplicabilità ai “nuovi” media di queste ultime (si pensi all’art. 12 legge stampa, ma anche all’art. 57 c.p.) dovrebbe forse far riflettere il legislatore non tanto sulla necessità di intervenire per estenderle, quanto sulla opportunità di mantenerle inalterate per la “carta stampata”.

L’apparato sanzionatorio italiano, infatti, punisce la diffamazione con una severa sanzione detentiva (l’art. 13 legge stampa consente la reclusione fino a sei anni), sanzioni pecuniarie e deontologiche e ascrive la responsabilità civile per danni in capo a svariati soggetti (oltre al giornalista autore materiale della diffamazione, al direttore del periodico e all’editore, nonché allo stampatore, a determinate condizioni). Si tratta di un quadro che pare sempre più in contrasto con le tendenze della Corte europea dei diritti.

La Corte di Strasburgo, infatti, valorizzando oltremodo la Risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del 4 ottobre 2007, n. 1577 (Towards decriminalisation of defamation), ha progressivamente accentuato il controllo sull’entità  delle sanzioni penali e civili astrattamente previste dalle leggi e concretamente irrogate dai giudici nazionali.

Per la Corte, infatti, non solo una pena detentiva (Kydonis c. Grecia), ma anche sanzioni pecuniarie o risarcitorie eccessivamente elevate possono determinare un effetto dissuasivo nell’esercizio della libertà di informazione. Così, negli ultimi anni, si registrano condanne ripetute in ragione della severità delle pene (es. i casi Saaristo, Niskasaari e Ruokanen, tutti relativi alla Finlandia, Długołęcki c. Poland, le decisioni Bozhkov e Kasabova, entrambe contro la Bulgaria, etc.).

Anche l’Italia ha subito una condanna derivante dall’entità eccessiva della sanzione (è il noto caso Riolo del 2008), ma invero non è entrata nel “girone dei dannati”, probabilmente grazie alla prudenza e saggezza dei giudicanti. Certo è che se il legislatore dimostrasse anch’esso senno e accortezza, una complessiva revisione del sistema delle pene per la stampa potrebbe scongiurare tale rischio in futuro.

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