Dopo la Cassazione anche il Garante per la protezione dei dati personali con due pronunce “gemelle” sposa l’idea dell’aggiornamento perpetuo degli archivi on-line in nome della presunta tutela dei dati personali e dell’identità personale (Gar. 24 gennaio 2013, doc. web n. 2286820 e Gar. 20 dicembre 2012, doc. web n. 2286432).
Questo il passo decisivo che ricorre in entrambe le pronunce in questione, salvo per il fatto che in una si tratta di tre articoli editi (Gar. 24 gennaio 2013) e nell’altra di cinque (Gar. 20 dicembre 2012):
“deve essere separatamente valutata la diversa questione concernente le richieste dell’interessato volte ad ottenere l’aggiornamento/integrazione delle notizie pubblicate nei tre articoli specificamente oggetto del ricorso; visto che a questo riguardo, come indispensabile corollario della riconosciuta liceità della conservazione degli articoli di cronaca a suo tempo pubblicati nella sezione del sito internet dell’editore resistente denominato archivio storico, va garantito il diritto (pienamente compreso fra le posizioni giuridiche azionabili ai sensi dell’art. 7 del Codice) dell’interessato ad ottenere l’aggiornamento/integrazione dei dati personali che lo riguardano quando eventi e sviluppi successivi abbiano modificato le situazioni oggetto di cronaca giornalistica (seppure a suo tempo corretta) incidendo significativamente sul profilo e l’immagine dell’interessato che da tali rappresentazioni può emergere”.
Come già fece la Cassazione con la sentenza n. 5525 del 2012, di cui si è già avuto modo di sottolineare le criticità in un altro commento, anche il Garante (che tale sentenza esplicitamente richiama) afferma il diritto alla contestualizzazione delle notizie presenti in un archivio di giornale in nome di un (malinteso) diritto all’identità personale.
Il Garante, tradendo i precedenti della stessa Autorità, fa proprie le contraddizioni in cui già caddero i giudici di Cassazione, avallando la ratio secondo cui “se, pertanto, una vicenda ha registrato una successiva evoluzione, “dall’informazione in ordine a quest’ultima non può invero prescindersi, giacché altrimenti la notizia, originariamente completa e vera, diviene non aggiornata, risultando quindi parziale e non esatta, e pertanto sostanzialmente non vera’ ”. In tal modo si ignora come la nozione di verità della notizia non sia mai stata intesa dalla giurisprudenza nel senso di pretendere un aggiornamento costante dei fatti riferiti in passato, ma solo ed unicamente come correlata alla divulgazione che si realizza al momento della pubblicazione.
Tale asserzione tradisce la confusione di fondo, che induce ad attribuire a chi crea un archivio storico il ruolo ed i compiti propri del giornalista che ripercorra, con un nuovo contributo, vicende pregresse o quelli dello storico che indaghi il passato. Proprio da tale mancata distinzione deriva l’incongruità della conclusione cui addiviene il Garante in maniera sostanzialmente identica in entrambe le decisioni:
“visti i significativi sviluppi indicati specificamente dal ricorrente nell’interpello e nel successivo ricorso e riportati nelle premesse dell’odierno provvedimento, le predette richieste di integrazione/aggiornamento formulate dal ricorrente debbano essere accolte e che pertanto l’editore resistente debba provvedere a predisporre un idoneo sistema nell’ambito del citato archivio storico, idoneo a segnalare (ad esempio, a margine dei singoli articoli o in nota agli stessi) l’esistenza del seguito o dello sviluppo della notizia in modo da assicurare all’interessato il rispetto della propria (attuale) identità personale, quale risultato della completa visione di una serie di fatti che lo hanno visto protagonista e ad ogni lettore di ottenere un’informazione attendibile e completa”
Non è tuttavia possibile assimilare ed omologare fra loro le diverse attività intellettuali che hanno per oggetto documenti o vicende del passato, creando un unicum che va dalla ricostruzione storica, all’articolo giornalistico su fatti pregressi, all’archivio. Trattasi infatti di fattispecie diverse e che come tali vanno conseguentemente trattate in maniera differente, richiedendo al giudicante di esercitare l’ “arte del distinguere”.
Nello specifico la finalità perseguita dalla raccolta on-line delle passate edizioni di un giornale è quella di conservazione in forma di archivio dei testi storici digitalizzati, non quella di cronaca, né tanto meno di ricostruzione storica dei trascorsi individuali.
Se questa è la finalità del trattamento, i dati risultano esatti e completi, poiché non estrapolati dal documento originale ed organizzati per creare una banca dati, ma semplicemente esposti come presenti in origine nella copia del giornale archiviata. Pretendere un aggiornamento del dato, muta la finalità del trattamento, non più archivistica, bensì storica-ricostruttiva: l’archivio perde dunque la sua natura ontologica di mera raccolta di documenti come fissati nel tempo per divenire un data-base descrittivo dello stato attuale, completo ed aggiornato delle vicende.
Richiedere l’integrazione ad opera del titolare dell’archivio comporterebbe dunque un improprio “travaso” di competenze.
Rinviando al richiamato commento per una più ampia analisi delle motivazioni giuridiche che portano a rigettare la linea interpretativa adottata dalla Cassazione nella citata sentenza del 2012, ora fatta propria anche dal Garante, occorre in questa sede soffermarsi invece sulle conseguenze che una simile (infondata) interpretazione del d. lgs. 196/2003 e della tutela dell’identità personale può comportare. Conseguenze che non paiono essere state finora tenute in adeguato conto e che meritano di essere sottolineate.
L’enunciato delle decisioni di Cassazione e del Garante ha l’effetto di condurre ad un’indiscriminata integrazione di qualsiasi raccolta di dati, prescindendo dalle finalità della stessa, in nome del diritto all’identità personale. In tal senso, se si pensa all’applicazione concreta della ratio delle pronunce in esame, diversi sono i dubbi e gli interrogativi che emergono.
Si immagini ad esempio il caso di una persona nota la cui condanna in primo grado venga resa pubblica dai media attraverso resoconti televisivi, nonché articoli apparsi sui giornali e sul web, tanto a livello locale che nazionale. Tutte queste diverse fonti possono dar vita ad archivi di notizie: dalle raccolte cartacee dei vari numeri di un giornale, agli archivi multimediali televisivi, agli archivi storici on-line di quotidiani o periodici, agli archivi di blog o di siti web di varia natura. Ove poi i soggetti coinvolti nella vicenda non si siano avvalsi delle previsioni di cui all’art. 52 d. lgs. 196/2003 la pronuncia potrebbe comparire anche sulle riviste giuridiche riportando i dati identificativi degli stessi, nonché venire inserita con tali dati “in chiaro” nelle varie raccolte di decisioni redatte dai diversi editori. A questo punto cosa accadrà se il soggetto in questione vedesse prevalere le proprie ragioni in un successivo ipotetico appello? La sua pretesa tutela dell’identità personale come inciderà sulle copie cartacee dei giornali che diedero la notizia della sua condanna presenti negli archivi dei giornali? Come verranno aggiornate? Quale la sorte dei filmati di eventuali notiziari televisivi inerenti alla condanna contenuti negli archivi multimediali? Quali gli accorgimenti che gli editori dovranno prendere rispetto alle pronunce contenute nelle banche dati giuridiche? Quali quelli da adottarsi nel caso di pubblicazione della decisione di primo grado in una rivista giuridica?
Senza complicare ulteriormente la vicenda ipotizzando un terzo grado di giudizio, emerge da questo esempio come la riduzione ad un unicum (incentrato solo sulla Rete) di problemi complessi, destinati a riverberarsi in più contesti, porti inevitabilmente alla contraddizione insita nel tratteggiare soluzioni pensate per casi particolari (il web) attraverso l’enunciazione di principi generali che, in quanto tali, andrebbero applicati in ogni ambito comunicativo.
Nell’affrontare le sfide poste dalle nuove tecnologie v’è dunque il rischio di non coglierne le peculiarità e, nella fretta di porre rimedio ai (temuti) danni che le stesse possono generare, di finire per perdere di vista gli effetti sistemici dei principi enunciati.
Nello specifico, la pronuncia in questione, come il precedente di Cassazione, finiscono per imporre con la forza della legge (i.e. l’illiceità del trattamento) quello che per altri (es. Wikipedia) è un obiettivo, ovvero il costante aggiornamento dei contenuti, la visione enciclopedica ed aggiornata del corso degli eventi. Ancorché la ratio delle decisioni porti a tale conclusione, non pare tuttavia che i giudicanti, troppo concentrati sulla fattispecie concreta (laddove basta un semplice link a soddisfare le pretese dei ricorrenti), ne colgano appieno il portato applicativo.
Sebbene la continuità fra la decisione della Cassazione del 2012 e le pronunce del Garante non sia di buon auspicio, non resta dunque che sperare in una futura più meditata analisi del problema della raccolta di notizie e documenti per mere finalità archivistiche.
Sarebbe infine auspicabile che anche le categorie direttamente interessate (in primis i giornalisti) prendessero maggiormente coscienza degli effetti potenziali di queste pronunce, anziché limitarsi a darne notizia senza delinearne le implicazioni, e ne traessero spunto per coglierne le criticità e denunciarne gli effetti distorsivi.
1 Comment
Tanto la decisione della Cassazione (e va “bé”, i giudici hanno un’età), como le decisione del Garante (questi, però, dovrebbero essere un po’ più giovincelli), dimostrano che non sanno come funziona Internet. Aggiornare le notizie a seconda dell’evoluzione dei fatti? O pazzi o ignoranti, scelga Lei.