A quasi sette anni di distanza, la legge Gasparri (n. 112/2004) e il successivo Testo unico della radiotelevisione (d. lgs. n. 117/2005, per il quale la legge Gasparri fungeva appunto anche come legge di delega) non cessano di dividere gli osservatori e suscitare dibattiti che vedono contrapposte posizioni così discordi da rasentare la schizofrenia. C’è chi dice che la nuova normativa ha lanciato l’Italia verso il futuro della trasmissione digitale consentendo la moltiplicazione del ventaglio di scelte possibili, e c’è chi sostiene, al contrario, che essa ha invece messo definitivamente la pietra tombale sul pluralismo dell’informazione, consentendo ad un certo soggetto privato di perpetrare la propria posizione dominante sul mercato e facendo carta straccia di un bel po’ di sentenze della Corte costituzionale che invece di tale condizione lamentavano l’inadeguatezza ai principi fondamentali dell’ordinamento democratico. La contrapposizione di interpretazioni differenti è quanto di più usuale esista nel dibattito giuridico, ma raramente si è assistito a un dibattito caratterizzato da uno scontro tra posizioni così polarizzate, così “bianche” o così “nere”. Senza dubbio, contribuisce a sollevare il polverone di voci discordi il contrasto tra obiettivi ufficiali e obiettivi ufficiosi delle due novelle legislative; però, proprio perché i polveroni impediscono sempre di guardare lontano, conviene mettere da parte questo livello di discussione e cercare invece di concentrarsi sulle norme per il solo contenuto e domandarsi anche cosa prevedono altri ordinamenti per la tutela del pluralismo.
L’innovazione più discussa del pacchetto normativa in materia televisiva è stata l’introduzione del sistema integrato delle radiofrequenze, o SIC: più che i limiti alla concentrazione del mercato (il singolo operatore non può detenere frequenze che gli consentano di superare il 20% dei canali televisivi e radiofonici, sia in analogico sia in digitale, né realizzare ricavi che superino il 20% del fatturato totale del mercato) è proprio la definizione di mercato il nodo della discordia, visto che, ai fini del calcolo delle percentuali di presenza sul mercato, il mercato stesso si considera composto dei ricavi derivanti dal finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo, da pubblicità nazionale e locale, da televendite, da sponsorizzazioni, da attività di diffusione del prodotto, da convenzioni con soggetti pubblici a carattere continuativo e da provvidenze pubbliche, da offerte televisive a pagamento, dagli abbonamenti e dalla vendita di quotidiani e periodici inclusi i prodotti librari e fonografici commercializzati in allegato, dalle agenzie di stampa a carattere nazionale, dall’editoria elettronica e annuaristica anche per il tramite di Internet e delle opere cinematografiche.
È stato scritto, tra l’altro, che considerare la stampa, la radio, la televisione e Internet in un unico mercato equivarrebbe a sommare mele, pere e arance, cioè categorie commerciali affini ma non analoghe, che non vengono cioè consumate da tutti nello stesso modo e non sono perfette succedanee le une delle altre. Si è anche obiettato che un calcolo del mercato siffatto non costituisce alcun argine ad eventuali posizioni dominati in ciascuno dei singoli segmenti di mercato di cui si compone il SIC, perché un soggetto potrebbe pure controllare, per ipotesi, oltre il 50% dei canali televisivi ma poi questa percentuale, pure così alta, non andrebbe comunque a superare le soglie consentite una volta diluita nel maxi-calderone del SIC onnicomprensivo.
Le due questioni, per quanto strettamente legate l’una all’altra, sono comunque differenti e i due punti non vanno confusi l’un con l’altro. Il problema della definizione del mercato rilevante è uno dei più rilevanti del diritto della concorrenza e nel settore dei media non è affatto di facile soluzione, tanto che la Commissione europea, nel 2002, ha dedicato un ampio studio al tema. I risultati finali dell’indagine hanno dimostrato che, in linea di principio, nulla osta a che il diritto della concorrenza si applichi anche al settore dell’informazione come a qualsiasi altro; tuttavia, le specificità di questo mercato richiedono alcune accortezze. A differenza di quanto avviene solitamente, l’operazione di individuazione dei prodotti e servizi rilevanti per la definizione degli stessi confini del mercato non si può derubricare a mera formalità, ma richiede una valutazione ancor più accorta e specifica alla luce dell’estrema velocità dei cambiamenti cui è sottoposto questo specifico settore e dall’impossibilità di dare un’esatta quantificazione ai flussi commerciali, dato che le notizie, in quanto public goods, non sono effettivamente vendute e acquistate come i beni materiali (i giornali, almeno, si comprano, ma le loro edizioni on line di solito si consultano gratuitamente, le trasmissioni della TV on demand si acquistano ma per le altre si paga solo un generico canone, e così via). La valutazione della sostituibilità deve farsi quindi più analitica, considerare tutti i diversi segmenti della filiera, basarsi su valutazioni qualitative più che quantitative (non essendo simili dati disponibili in misura significativa) e, soprattutto, concentrarsi sul lato della domanda più che su quello dell’offerta.
Dal punto di vista del consumatore, i diversi canali informativi sono sostanzialmente equivalenti? La lettura di un telegiornale può sostituire l’ascolto di un telegiornale? Una medesima informazione può reperirsi indifferentemente su Internet, sulla carta stampata o in televisione? Entro un certo grado, si può sicuramente ritenere che i diversi media abbiamo un significativo livello di sostituibilità sul lato della domanda. Se negli ultimi anni si è scatenata una specie di gara ad azzeccare la profezia su quando i giornali cesseranno di essere stampati (2043 secondo Philip Meyer, docente all’Università della North Carolina, probabilmente il primo ad essersi cimentato in questo tipo di esercizio, o addirittura 2013 secondo l’editore del New York Times), evidentemente non è perché il quotidiano è improvvisamente passato di moda come oggetto, ma perché soffre la presenza di un concorrente nuovo e temibile: l’informazione via Internet, appunto. Mentre le tirature dei giornali calano ovunque, è stimato che il numero di utenti di Internet cresce nel mondo di circa il 20% all’anno, e una ricerca ddell’Autorità britannica Ofcom ha dimostrato recentemente che la navigazione a banda larga ha portato a una diminuzione del tempo dedicato a televisione, radio e giornali. L’anno appena trascorso ha segnato, negli Stati Uniti, lo storico sorpasso di Internet sulla carta stampata per i ricavi pubblicitari: 26 miliardi di dollari per il primo, solo 23 per la seconda, e tutto lascia intendere che la forbice sia destinata ad allargarsi ulteriormente nei prossimi anni.
Ma la convergenza tra settori diversi non riguarda solo la carta stampata e Internet. Rupert Murdoch, il famoso magnate australiano, controlla nel Regno Unito tramite la società News Corporation il 100% di News International, che pubblica il Times, il Sunday Times, il Sun e il News of the World, e il 39.1% di British Sky Broadcasting; all’annuncio della sua intenzione di rilevare anche il rimanente 60.1% di BSkyB si è sollevata una ridda di voci allarmate per il futuro del pluralismo dell’informazione nel Regno Unito, culminata, finora, con la richiesta di Ofcom che il Ministero per la cultura e l’Autorità antitrust verifichino se la transazione potrebbe effettivamente restringere il numero di voci nel panorama informativo nazionale. Riprendendo il parallelo proposto prima, sembrerebbe che a un venditore di mele si voglia ora impedire di vendere anche arance. Perché mai? Perché, lamenta un gruppo di analisti, l’acquisizione di una posizione di maggioranza anche nel consiglio di amministrazione di Sky consentirebbe di trarre benefici anche nel mercato dei giornali, a discapito anche del pluralismo e della concorrenza tra questi ultimi. Ad esempio, Sky potrebbe proporre pacchetti comprensivi del proprio magazine (che è già ora distribuito nel Regno Unito ai sottoscrittori dell’abbonamento alla pay-TV in 7.4 milioni di copie al mese, cifre che lo rendono il periodico più diffuso nel Paese) e di uno dei quotidiani editi dal gruppo Murdoch, andando così a drogare il mercato della carta stampata; oppure, le versioni on line dei quotidiani del gruppo NewsCorp potrebbero avvantaggiarsi della disponibilità dei contenuti video prodotti da Sky.
La convergenza tecnologica tra i diversi media ha ormai reso obsoleti i tempi in cui si poteva pensare che i diversi canali informativi non si facessero concorrenza tra loro. Le barriere tra un medium e l’altro sono invece cadute e la concorrenza tra l’uno e l’altro è ormai reale e agguerritissima, così come, con tutta evidenza, la sostituibilità almeno sul lato della domanda. Ecco perché è diventata necessaria una definizione di mercato che comprenda, insieme, le “mele”, le “pere” e le “arance”.
Ecco perché un approccio onnicomprensivo come quello del SIC, più ancora che opportuno, è divenuto necessario. Due fenomeni come convergenza e digitalizzazione hanno aumentato la competizione a livello internazionale ed evidenziato l’inefficienza della compresenza di molteplici sedi di controllo e norme a tutela del pluralismo che abbiano un campo di applicazione solo settoriale. Ecco che allora si osserva un trend internazionale orientato all’abbandono di discipline di settore (la strada, al contrario, perseguita fino a qualche anno fa) per rimettere invece il controllo sulle concentrazioni nel settore dell’informazione alle sedi proprie del normale diritto antitrust. Anche la Commissione europea, fino alla fine degli anni novanta, aveva sostenuto strenuamente la tesi che la pay-TV e TV non a pagamento costituissero due mercati differenti, per abbandonare questa posizione solo in anni recentissimi.
Un approccio simile è stato introdotto negli Stati Uniti dalla Federal Communications Commission (FCC) nel 2003, con l’adozione del Diversity Index (DI). Si tratta di uno strumento di calcolo (piuttosto complesso, in realtà) delle concentrazioni nel settore dell’informazione, basato sull’assunto che i diversi media (quotidiani, settimanali, TV via etere, radio e Internet, mentre nella medesima definizione non rientrano gli altri tipi di stampa periodica, come i mensili, e la TV satellitare e via cavo, che non si ritengono avere la stessa sostituibilità ai fini dell’informazione locale) debbano essere considerati come tutti afferenti a un unico mercato ma che l’impatto di ciascuno (cioè la “presa” sull’opinione pubblica e la capacità di influenzare quest’ultima) cambi da caso a caso e quindi sia necessario ponderare il peso specifico di ciascun medium. La tesi della sostituibilità tra i diversi media è sostenuta proprio avendo riguardo all’esigenza del pluralismo dei contenuti: vale a dire che, poiché un determinato punto di vista o opinione, anche qualora non riesce a raggiungere il pubblico attraverso un medium (perché da questo ignorato) può comunque raggiungerlo attraverso un altro (immaginando, ad esempio, che sul giornale si possa leggere una notizia o un commento che di cui i telegiornali non hanno dato conto), i vari media sono tra loro succedanei, sul lato della domanda, nel “mercato delle idee”. Il meccanismo prevede che la FCC calcoli la quota specifica del mercato complessivo rappresentata da ciascun singolo medium e poi la percentuale proprietaria in ciascuna di queste aree di ogni singolo competitor. La percentuale per area di ciascun soggetto viene poi moltiplicata per la percentuale relativa al mercato intero; vengono poi sommate tra loro le percentuali relative alle quote di mercato detenute in due o più diverse aree dai medesimi soggetti e i risultati elevati al quadrato. Le somme dei dati così ottenuti compongono infine l’indice di diversificazione. La ponderazione dei diversi settori del mercato è operata sulla base delle percentuali del diverso utilizzo da parte del pubblico e stimate, attraverso la tecnica della ricerca di mercato, al 33.8% per la televisione, 24.9% per la radio, 20.2% per i quotidiani, 12.5% per Internet e 8.6% per i settimanali.
Non si può mancare di osservare, comunque, che l’introduzione di questo strumento di controllo si è accompagnata, negli Stati Uniti, a critiche (a volte assai feroci) più o meno analoghe a quelle rivolte al SIC nostrano, ossia che, alla fine dei conti, finirebbe per consentire, anziché limitare, preoccupanti concentrazioni proprietarie nel settore dell’informazione (oltre ad altre di carattere più squisitamente tecnico tutt’altro che irrilevanti, ma che esulano dal discorso che si va qui a condurre). Il punto, cioè, è che effettivamente in un aggregato così ampio come quello che risulta dalla definizione di mercato comprensiva di tutti (o quasi) i diversi media anche il soggetto che detenga una percentuale molto alta (anche vicino alla metà) di una specifica area finisce per essere considerato come un piccolo o al più medio operatore nel computo del mercato complessivo e passare così indenne le maglie dei limiti antitrust. Va detto però che il problema, in questo caso, attiene più che alla definizione del mercato al rilassamento delle cosiddette cross-ownership
media rules, ossia i vincoli alla possibilità di cumulo, da parte di uno stesso soggetto, di più licenze in relazione a diversi mezzi di comunicazione radiofonici, televisivi ed editoriali. La formazione di concentrazioni monosettoriali dipende, in effetti, non dalla definizione di mercato che viene accolta, ma dal set di strumenti normativi che vengono disposti a far da contorno a questa.
Al pari di quanto avviene negli Stati Uniti, anche in Italia la legge demanda all’Autorità indipendente competente nel settore delle telecomunicazioni, l’Agcom, la vigilanza sulle concentrazioni monosettoriali, autorizzandola a porre in essere misure che vanno dal mero richiamo a l’imposizione di dismissione di aziende o di rami d’aziende (T.U. radiotelevisione, art. 43 cc. 1-5).
Mentre in Italia è stato recentemente prorogato il divieto, originariamente previsto dalla legge Gasparri, di cumulo tra giornali e televisioni, a livello internazionale va osservato invece un trend in senso opposto, che vede in molti Paesi farsi strada una progressiva deregulation e conseguente rilassamento delle cross-ownership rules. All’indomani dell’approvazione del Telecommunications Act, ad esempio, la FCC aveva ad esempio consentito alle emittenti locali di affiliarsi a più di un network (operazione prima vietata), di operare sia nel segmento di mercato della TV via etere sia in quello della TV via cavo e agli operatori di rete di diventare anche fornitori di contenuti.
Il progressivo abbandono delle cross-ownership rules ha una spiegazione precisa. Simili norme, infatti, fatalmente possono finire per sortire un effetto opposto a quello desiderato, ossia di causare una diminuzione, di fatto, delle voci presenti nel panorama informativo. Le cause, ancora una volta, sono la convergenza tecnologica e la velocità con cui gli assetti di mercato cambiano nel settore dei media. Esiste un esempio, in questo caso, quanto mai significativo. In nessun Paese europeo è in vigore un divieto di cumulo proprietario incrociato per stampa e Internet (unico esempio parzialmente contrario, la Grecia); eppure una norma simile viene spesso, da più parti, invocata, al fine di impedire che chi già possiede un quotidiano possa togliere spazio ad altre voci dell’informazione on line, giacché, dimostrano tutte le statistiche, i siti di informazione in rete privilegiati dal pubblico sono di solito le versioni telematiche dei grandi quotidiani. L’idea è che quindi, tenendo i proprietari di quotidiani fuori da Internet, aumenterebbero gli spazi liberi per altri soggetti e aumenterebbe il numero di voci complessivamente disponibili.
Funzionerebbe davvero? Tutt’altro. Al contrario, se i giornali (intesi sia come aziende, sia soprattutto come oggetto della vita quotidiana) esistono ancora, lo devono soprattutto, paradossalmente, proprio alle loro versioni disponibili su Internet. Lungi dal lasciare più spazio a diverse voci, un divieto di cumulo tra stampa e Internet finirebbe, al contrario, per ridurne il numero, condannando a morte i quotidiani, se non nel breve, quanto meno nel medio termine.
Le versioni on line, attraverso la raccolta pubblicitaria, contribuiscono a sostenere i costi di stampa e distribuzione delle copie cartacee, che ad oggi ormai in molti casi non consentono neppure, da sole, di raggiungere il punto di bilancio. Il confronto tra la fruizione dell’informazione in Internet e sui quotidiani è a tutto vantaggio della prima. Qualcuno, pochi anni fa, si è preso la briga di calcolare che per leggere una copia intera del Washington Post (dal primo all’ultimo articolo) occorrono più o meno 24 ore, il che significa quindi che il lettore che volesse sfruttare integralmente la copia che ha acquistato (e pagato integralmente) non potrebbe in pratica fare altro nella vita; e una simile, assurda considerazione vale anche, ora più ora meno, per qualunque grande quotidiano nazionale (è anche vero che il Washington Post ha una foliazione leggermente superiore alla media: forse la lettura del Corriere della Sera o di un altro giornale italiano lascerebbe tempo per una pizza, ma le conclusioni non cambiano). Quale incentivo ha il consumatore a pagare un oggetto che non può sfruttare interamente, quando può trovare gratuitamente le notizie in rete, e selezionare quelle di proprio interesse?
Ogni tanto, a intervalli più o meno regolari, qualcuno tira fuori anche una proposta che ha già un sapore antico, cioè che la strada per la salvezza dei quotidiani (intesi soprattutto come aziende, stavolta) si nasconderebbe nel prevedere un abbonamento o comunque una consultazione a pagamento anche per le versioni on line, per consentire introiti più sostanziosi anche attraverso questo canale. È una proposta dal sapore antico, si diceva, perché si è già dimostrata fallimentare: il quotidiano spagnolo El Pais, ad esempio, prevedeva originariamente una versione telematica a pagamento, che poteva contare su 18.000 abbonati, che garantivano un introito risibile attraverso la riscossione dei canoni e rendevano il sito assolutamente non appetibile per gli investitori del settore pubblicitario. Già pochi giorni dopo l’abolizione dell’abbonamento obbligatorio, il nuovo sito gratuito poteva contare su 800.000 contatti giornalieri e si è rivelato una (relativa) miniera d’oro grazie ai ricavi pubblicitari.
Limitare la libera fruibilità dei quotidiani on line, attraverso la previsione di una tariffa o le norme a tutela del diritto d’autore (per impedire, una volta che la consultazione di un sito sia a pagamento, la riproposizione dei contenuti di questo attraverso il tam-tam sui social networks come Facebook) è un’idea votata al fallimento in ragione, ancora una volta, della natura di public goods delle notizie, cioè beni dal cui consumo non è possibile escludere anche i free riders e che quindi non consentono a chi li vende di ottimizzare i ricavi catturando tutti quei consumatori che pure sarebbero disposti a pagare per procurarsi una certa informazione, ma non lo faranno perché la otterranno altrove gratuitamente. Ad esempio col passaparola, dicevano una volte le teorie classiche sull’analisi economica della regolamentazione della stampa, e più che mai oggi nell’epoca del web 2.0: se anche i quotidiani on line fossero a pagamento e protetti dalla circolazione dei loro contenuti sui social networks, chi non è disposto a spendere potrebbe pur sempre reperire gratuitamente l’informazione, ad esempio, su uno dei numerosi blogs che danno spazio a dibattiti in tema di attualità, politica e quant’altro (ne esistono di assai autorevoli e con largo seguito, come lo statunitense Huffington Post, il nostrano Lavoce.info e così via), dove cioè assieme al commento si trasmette pure il fatto su cui verte la notizia, senza con ciò violare alcun diritto d’autore.
È evidente, allora, che i quotidiani hanno bisogno di poter espandersi anche sul mercato telematico, per poter avere qualche chance di competere con una concorrenza che altrimenti, nel giro di pochissimo tempo, finirebbe per tagliarli fuori del mercato. Più che gli strumenti normativi predisposti, è la stessa natura della notizia come public good a far sì che il mercato non possa esplicare tutti i suoi meccanismi altrimenti fisiologici. E lo stesso discorso, che fin qui si è sviluppato, a titolo esemplificativo, solo tra stampa e Internet, si potrebbe riproporre in modo sostanzialmente analogo anche per quanto riguarda la convergenza tra altri media: tra pochi anni i servizi di TV lineare potrebbero vedersi rimpiazzati, nella domanda di mercato, da quelli della TV on demand e della web-TV che godono di una fruibilità più agevole da parte dell’utente, e così via. Il punto è che la digitalizzazione dei contenuti ha cambiato radicalmente, e irreversibilmente, le modalità di fruizione sociale dell’informazione, segnando una discontinuità epocale tra i media “avanti Internet” e quelli “dopo Internet”.
La compenetrazione tra i diversi mercati (rectius tra i diversi segmenti del mercato, si è visto) diventa quindi una necessità imposta dalla stessa natura tecnica della realtà che ci si propone di regolare, ma allora, al contempo, sopraggiungono dei dubbi circa l’opportunità di uno strumento come le cross-ownership rules, che pure sembravano poco fa così preziose, e anzi sull’opportunità di basare l’intera regolazione della materia su un approccio ispirato al diritto della concorrenza.
Esistono, in effetti, esempi di ordinamenti che stanno tentando di introdurre metodi radicalmente differenti. In Germania, sin dal 1997, la Commissione sulla concentrazione nei media (Kommission zur Ermittlung der Konzentration im Medienbereich, KEK) è andata sviluppando un meccanismo di tutela del pluralismo, applicato al mercato televisivo, basato non su criteri di tipo economico, come limiti a partecipazioni societarie, acquisizioni e controlli o percentuali di mercato, ma, invece, su criteri di tipo qualitativo. La Commissione utilizza, infatti, il criterio del potere predominante nella formazione dell’opinione pubblica, che a nessun soggetto deve essere consentito detenere. Avendo riguardo a indicatori come il potere suggestivo del messaggio diffuso (attraverso il linguaggio utilizzato, la combinazione di immagini e parole, e altri criteri analoghi), la potenzialità nel raggiungere un pubblico più o meno ampio e l’attualità delle notizie offerte, la KEK calcola l’impatto sull’opinione pubblica di ciascuna singola voce e il potere predominante si ritiene raggiunto quando un soggetto arriva ad influenzare il 30% dell’opinione pubblica, oppure il solo 25%, ma al contempo è significativamente attivo anche in altri settori della comunicazione, oppure se il computo complessivo delle sue attività nel settore televisivo e negli altri media è tale da poter ritenersi equivalente al potere esercitato da chi controlli il 30% dell’opinione pubblica nel solo settore televisivo. Quest’ultimo caso serve quindi ad allargare lo spettro di applicabilità di questo meccanismo, nato appunto per il solo settore televisivo, all’intero mercato dell’informazione, con alcune accortezze e indicazioni di ponderazione predisposte dalla stessa Commissione (la televisione, ad esempio, è ritenuta un mezzo più “efficace” della stampa e di Internet in termini di suggestività e diffusione, ma è svantaggiata rispetto a questi dalla sua limitatezza temporale – nella versione tradizionale, lineare, del servizio, il messaggio è disponibile solo in un determinato momento, mentre la pagina stampata o il sito Internet non esauriscono istantaneamente la propria funzione).
Accantonando i dubbi (in realtà, espressi da più parti) sull’effettivo funzionamento di questo metodo di calcolo, un plauso alla KEK va rivolto sicuramente per la fantasia e per la devozione alla causa del pluralismo, e soprattutto per aver saputo cogliere l’importanza del conseguimento di un pluralismo di contenuti e opinioni rispetto a un mero pluralismo degli assetti proprietari; ciò non toglie, tuttavia, che qui si è di fronte a una bizzarria giuridica. Su un piano strettamente costituzionale, vietare a un soggetto di diffondere una comunicazione nel momento in cui si supera una certa soglia di penetrazione nell’opinione pubblica equivale a concepire una definizione di libertà di espressione che potrebbe suonare, più o meno, così: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con ogni mezzo di diffusione, purché non riescano così a persuadere troppe persone». Sul versante passivo della medesima libertà, poi, questa limitazione significherebbe che qualcuno dovrebbe essere precluso dal ricevere un messaggio perché già in troppi l’hanno ricevuto. Il che, in democrazia, sembra quantomeno indesiderabile.
Della proposta tedesca si possono salvare però alcuni aspetti: l’approccio non meramente quantitativo e la flessibilità offerta da un istituto non ritagliato sui soli meccanismi del diritto della concorrenza, oltre che, ancora una volta, la conferma della necessità di considerare tutti i diversi media come succedanei (ancorché imperfetti) tra loro.
Questa esigenza di flessibilità potrebbe aver trovato una risposta nell’ordinamento britannico, grazie alla riforma varata con il Communications Act 2003 che ha conferito all’Autorità indipendente di settore Ofcom la possibilità di esperire un controllo battezzato public interest o plurality test. All’occorrenza di concentrazioni nell’industria delle comunicazioni, l’Ofcom può effettuare, parallelamente ai controlli antitrust esperiti nelle sedi competenti, anche un monitoraggio di tipo sostanziale e non solo quantitativo teso ad assicurare che non vengano lesi interessi come una sufficiente pluralità di soggetti operanti nel mercato, l’accuratezza nell’esposizione delle notizie, la libera espressione delle opinioni e la diversificazione dei punti di vista nel panorama informativo. Anche dall’esperienza britannica emerge quindi un’attenzione specifica al pluralismo di contenuti rispetto al solo pluralismo proprietario, nella consapevolezza (ben radicata, come emerge dalla lettura dei lavori preparatori) che quest’ultimo è solo strumentale al primo e non è poi tanto utile, da solo, alla società, perché niente assicura che canali televisivi, quotidiani e quant’altro, pur appartenendo a proprietari diversi, non possano poi finire per omologare comunque i contenuti offerti.
A dimostrazione tuttavia (qualora ce ne fosse bisogno) che la perfezione non esiste, anche l’approvazione della normativa britannica è stata accompagnata in patria da numerosi commenti negativi, e da dubbi sulla sua reale efficacia e sull’indipendenza della sorveglianza esercitata dall’Ofcom rispetto al Governo, il che però è un punto diverso dalla bontà del framework normativo disposto dalla legge.
Il difetto del nostro SIC non sta quindi in ciò che ha introdotto (il mercato delle comunicazioni onnicomprensivo), quanto piuttosto in ciò che non ha previsto. La consapevolezza che i singoli media non costituiscono ciascuno un mercato separato è giunta, anzi, quasi con ritardo; è tempo ora di porsi almeno un’altra domanda. Demandare al solo diritto della concorrenza la tutela del pluralismo è sufficiente? Sembra proprio di no: in questo modo, al più, si può aspirare a garantire un pluralismo degli assetti proprietari. Ma il pluralismo delle voci è ben altra cosa, e altri Paesi hanno fatto ulteriori passi in avanti per cogliere questo obiettivo, disponendo strumenti di controllo più flessibili, sostanziali ed efficaci.
3 Comments
Buongiorno , mi interessava molto il modello tedesco e conoscere, nello specifico, in che modo in Germania la KEK opera quando ritiene che sono superati i limiti di influenza dell’ opinione pubblica. Nel senso che agisce sulle attività specifiche dell’ operatore, limitandone la possibilità di espressione, o inducendolo a ridurre il numero dei media di propria competenza. Perchè in questo secondo caso l’ azione regolamentale-sanzionatoria sarebbe del tutto identica a quelle dell’ Antitrust o delle altre autorità
In effetti le misure di salvaguardia che la KEK può esperire, in caso venga rilevato un superamento dei limiti di influenza, consistono soprattutto nella formulazione di proposte di dismissione di partecipazioni societarie, in uno o più settori dell’industria dell’informazione, da parte del soggetto eccessivamente “presente”. La differenza più sostanziale rispetto ai modelli di tutela del pluralismo di altri Paesi risiede più nel “calcolo” delle voci che non negli istituti giuridici preposti alla loro tutela.
Il suo parere è vincolante? Ovvero solo “indicativo”?