L’identità personale è quel complesso d’idee, convinzioni, attitudini relazionali che caratterizzano la proiezione del sé nel sociale. È un nostro diritto costituzionale pretendere che tale proiezione sia fedele a quanto ci caratterizza e che non sia artificialmente distorta. Ma se nel mondo materiale il rischio è quello della distorsione, nel mondo digitale il rischio è più grosso: l’appropriazione indebita di alcuni segmenti della nostra identità elettronica.
La ragione alla base è molto semplice: mentre l’identità personale offline si caratterizza per una unitarietà di base che la rende immune da asporti selettivi, al contrario l’identità digitale è per definizione esposta alla inevitabile frammentarietà e contingenza di tracce, percorsi e preferenze che caratterizzano il nostro navigare sul web. Una molteplicità di forme e modalità che facilita l’emersione di almeno due situazioni di ‘torsione’ della proiezione del nostro sé online, una di natura fisiologica, la seconda, più grave, di natura patologica.
La prima, è la possibile asimmetria tra l’identità personale che ci caratterizza nel mondo reale e quella che invece ci rappresenta nella realtà virtuale. Asimmetria che non implica solo un rischio di schizofrenia tra il nostro essere offline e quello online, ma che è anche un’opportunità di evasione e di riscrittura (virtuale) del nostro vissuto. Un servizio come Second life ne è l’esempio emblematico.
La seconda situazione, dalle conseguenze più dannose perché spesso inconsapevoli e che mette molto più a rischio la protezione della privacy di utenti e consumatori sul web, implica una premessa: il denominatore comune, nella molteplicità e frammentarietà in cui si afferma la proiezione del nostro sé digitale, è costituito dalla posizione cruciale occupata dai dati personali e sensibili del navigatore.
Sono questi, pur se troppo spesso siamo così inconsapevoli del loro inestimabile valore da rilasciarli gratuitamente, il vero oro nero dell’economia di internet, fonte di guadagni stratosferici per i giganti del web e privilegiati strumenti per il furto di identità perpetrato dai nuovi cyber criminali del web 2.0.
Le tracce, spesso inconsapevoli ma comunque ineliminabili, dei nostri dati, preferenze e attitudini diventano la materia prima alla base della pubblicità mirata con cui gli intermediari scandiscono i nostri percorsi di navigazione online.
Una fonte di proventi di ammontare stratosferico spesso ottenuta a costo zero. Due le cautele da raccomandarsi: consapevolezza che l’anonimato in internet è una chimera e attenzione a non rilasciare i propri dati personali se non dopo aver trovato (è sempre ben nascosta), letto e approvato l’informativa predisposta dagli internet provider sulle modalità, la durata e i fini del trattamento dei propri dati.
Se non si condividono le operazioni cui andranno incontro i nostri dati ci sono due possibilità: o trascurare le conseguenze dannose che ‘regalando’ quei dati si avrebbero per la protezione della nostra privacy e identità online, oppure rinunciare, con fermezza e consapevolezza, al servizio offerto. L’astinenza digitale (di massa) è forse l’unico rimedio per costringere gli operatori del web a prendere più seriamente la normativa europea (all’avanguardia) in materia di dati personali.
In riferimento invece all’amplificazione della possibilità di commettere crimini attraverso l’appropriazione indebita della identità digitale altrui, basta ricordare che, secondo un’indagine presentata lo scorso gennaio a Milano, commissionata da Cpp Italia all’Unicri, il 29,5% degli intervistati è stato esposto a una potenziale frode di identità nel corso dell’ultimo anno.
Dal punto di vista tecnologico il furto d’identità può essere praticato tramite il trashing, che prevede il prelievo dei dati da un vecchio pc abbandonato, il phishing, in cui l’esca è rappresentata da email con finte comunicazioni e richieste da istituti di credito di cui siamo clienti, e il meno diffuso, ma già temuto nei paesi anglosassoni, vishing. Quest’ultimo combina l’idea del phishing alle caratteristiche tecniche del Voip: chi lo utilizza simula il call center di una banca, chiamata dall’utente per esempio tramite Skype, per carpirne i dati.
Cautele in quest’ultimo caso? L’unica è andare di persona alla filiale più vicina. In fondo un po’ di moto fa solo bene.
Pubblicato in www.viasarfatti25.it