Ripubblichiamo da Diritto Mercato Tecnologia
“Vorrei introdurre un concetto, che chiamerei tecnologia di prossimità: la necessità di immaginare che tutti siamo liberi di esprimerci, parlare e criticare, ma nel momento in cui entriamo in contatto con delle realtà territoriali la nostra libertà necessita di integrarsi con la libertà altrui. Parliamo oggi molto di Internet delle cose e videosorveglianza, con le spiacevoli conseguenze dell’incapacità da parte dei software di selezionare all’interno di una enorme massa di dati quelli rilevanti anche ai fini dell’intelligence, e bisognerebbe dunque potenziare, da un lato, l’ausilio di personale esperto per decodificare il peso e il significato di dati e di immagini massive, e, dall’altro, la consapevolezza che quando si entra in un territorio c’è la necessità di lasciare qualche traccia, e in questo le tecnologie, coadiuvate da interpreti in carne e ossa, potrebbero aiutarci”.
Così il Professor Alberto Gambino, Presidente dell’Accademia Italiana del Codice di Internet e Direttore del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Europea di Roma, intervenendo a Radio Radicale nella puntata del 15 novembre di “Presi per il Web“, appuntamento dedicato ad una analisi di come la comunicazione mediata dai social media e dagli strumenti digitali in generale stia influenzando le forme di comunicazione o come possano essere di ausilio in momenti come quello che stiamo vivendo a seguito dei tragici fatti di Parigi.
“Faccio un esempio un po’ ardito – ha proseguito Gambino – ma il tema dei droni utilizzati per bombardare con lo scopo di evitare la perdita di vite umane in parte deresponsabilizza chi materialmente governa quell’apparecchio, non essendo più il pilota compresente, nel bene e nel male con la sua umanità, nello scenario di guerra, e ciò – a pensarci bene – non è molto diverso dalla persona esaltata che si fa esplodere, perché in quel caso la persona è diventata una cosa, uno strumento di guerra e non è più responsabile in quanto uomo o donna. Certo un conto sono le azioni chirurgiche e mirate dei droni, un altro gli attacchi indiscriminati verso giovani inermi, ma la riflessione non è su questo, ma sullo strumento: un apparecchio guidato a distanza e un essere umano trasformato in arma. Allora, da un lato, dobbiamo stare attenti a non disumanizzare la tecnologia, dall’altro – come detto – dobbiamo utilizzarla per monitorare i comportamenti, gli stili di vita di chi si trova sui territori in prossimità con altri esseri umani, e per fare questo la tecnologia ha bisogno di essere guidata costantemente non dalle macchine o dagli algoritmi ma della mente critica e selettiva di altri esseri umani “.
E sulla propaganda online del Califfato: “Se cercassimo di drogare l’informazione in Internet per bilanciare i messaggi di chi esercita male una certa libertà di manifestazione del pensiero ci allontaneremmo dalle radici liberali e solidali dell’Europa. Certamente, però, manca una massa critica nella rete Internet tale da poter oggi rappresentare la maggioranza degli utenti; ci sono tante isole nella rete; anche se l’abbiamo immaginata come spazio globale, andiamo sempre più verso piccole comunità, piccoli gruppi che spesso non dialogano in spazi pubblici ma in reti private, come Whatsapp. Nella privatezza di tali spazi bisogna rendere ancora più responsabili le persone”.
In questa direzione Gambino ha proposto una riflessione sul tracciamento delle attività online a fini di sicurezza: “Essere tracciati non significa per forza conculcare la libertà d’espressione, ma prevenire e reprimere determinate situazioni dannose per la collettività. Deve essere un grande patto globale: noi siamo liberi di fare tutto quello che vogliamo, ma nel momento in cui sorge un ragionevole dubbio che si possa far parte di una realtà sospetta, nulla deve precludere che si vadano vedere i nostri comportamenti, le nostre relazioni, i nostri stili di vita che evidentemente devono essere stati registrati, e la registrazione – evidentemente – riguarda tutti. Aggiungo una riflessione: navigando sulla rete accettiamo i cookie per accedere ai siti dando così il nostro consenso ad essere, appunto, tracciati a fini commerciali e pubblicitari; se lo concediamo a chi farà un lucro sulle informazioni che produrremo, non possiamo fare la stessa cosa ai fini della sicurezza? La grande sconfitta davanti alle azioni terroristiche di Parigi è un po’ l’impotenza della tecnologia; ci sentiamo pervasi ma in realtà otto uomini con dei kalashnikov entrano in un locale, in un teatro, nei pressi di uno stadio iper-controllato e sparano su persone inermi, costringendoci a chiederci dove siano e cosa facciano le tecnologie rispetto al controllo del territorio, in queste situazioni. Anzi talvolta quelle tecnologie ci allontanano dalla realtà, come quando si sta in metropolitana o in autobus assorbiti dai nostri smartphone senza curarci di chi ci sta accanto, del suo volto. Anche per questo parlavo di tecnologia di prossimità, dove la tecnologia è uno strumento di conoscenza di chi ci vive accanto e non di allontanamento o di maggiore distanza dalla realtà”.
Ospite della trasmissione anche Antonio Nicita, Commissario nell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: “Io non credo che il tema della cybersecurity, ampiamente dibattuto in questi anni, vada affrontato come trade off, cioè come alternativa fra tutela delle libertà personali e rinuncia alla sicurezza. Va invece trovato un modo di coniugare queste due cose, anche perché le tecnologie per fortuna lo permettono, è possibile coniugare il mantenimento della nostra libertà d’espressione e della nostra capacità di tollerare anche la diversità di opinione, e la tracciabilità di chi anche attraverso la rete organizza la propria azione criminale. Non vi è dubbio che nel Web e nella rete in senso più ampio, esistono anche grandi opportunità per chi voglia organizzare attività criminali, ma dobbiamo sapere sfruttare una capacità selettiva messa a disposizione dalle tecnologie di individuare e tracciare chi in effetti crea una rete di questo tipo rispetto alla mera diffusione di idee. Chi afferma che occorre ridurre delle libertà per aumentare la nostra sicurezza non ci dice dove sia il limite, dove occorre fermarci, domanda che bisogna invece porci”.
Ed è proprio sui social network che, mentre gli attacchi erano ancora in corso, nascevano hashtagcome #PorteOuverte, che su Twitter ha permesso, nei momenti di maggiore tensione e pericolo, a numerosi cittadini di trovare un rifugio sicuro nelle case del centro cittadino. Al contempo, su Facebook uno speciale tool ha consentito a chi si trovava nella capitale francese di segnalare agli amici di non essere rimasto coinvolto negli attentati.
“Se da un lato – ha sottolineato Nicita – c’è il timore che la circolazione di materiali propagandistici possa innescare la volontà di agire in senso criminale da parte di chi altrimenti non avrebbe invece intrapreso certe azioni, dall’altro, e in queste ore sono diversi gli osservatori internazionali che hanno evidenziato la capacità di mobilitazione di strumenti come Facebook e Twitter e che hanno dimostrato la grandissima massa di solidarietà e di condanna. Da questo punto di vista va ricercato un punto di equilibrio, il rischio di fare un passo indietro sulla libertà di manifestazione del pensiero che sperimentiamo online è una delle più grandi forme di vittoria che si possono concedere ai terroristi. La Francia già ha nella sua legislazione forme molto rigide e invasive in questo senso, e come vediamo non servono neanche a molto. L’ideale sarebbe avere un cambio di approccio: anziché pensare a misure che puntano ad evitare contatti a certi siti o a responsabilizzare i provider, bisognerebbe provare a fare il percorso inverso e immaginare un salto tecnologico rispetto al quale siamo in grado di tracciare determinate forme anziché inibirle, e questo è un passaggio che va fatto anche attraverso la cooperazione internazionale. È difficile, ma va fatto per evitare l’errore di restringere certe libertà”.
Citando Evgeny Morozov, Nicita ha poi affermato che “il problema al di là del proselitismo investe la rete in generale, come se essa impedisse una sorta di selezione della storia; quelle che sono rivendicazioni che storicamente sono state superate nel passato finiscono per permanere nella rete, con un esito che da una parte elude il rischio che molti vedevano nella globalizzazione, e cioè un uniformarsi del pensiero, ma che dall’altra finisce per dare vita a un eterno presente nel quale ogni forma di rivendicazione sopravvive a se stessa. Ma la soluzione non può essere quella censoria, bensì di una nuova consapevolezza culturale e di una capacità di responsabilità da parte di tutti noi nell’uso del Web. E anche il giornalismo deve evitare di creare stereotipi e verificare i fatti prima di diffondere notizie”.
Per il Professor Alfonso Celotto, Ordinario di Diritto costituzionale presso Università degli Studi Roma Tre, “non è certo fermando lo sviluppo che si combattono fenomeni criminosi, anzi, bisogna utilizzare anche la rete stessa per combatterli. Siamo di fronte a fenomeni ampi, non possiamo contrastarli con provvedimenti antichi e anti-storici. La sospensione dei diritti può essere una risposta immediata e temporanea ad una situazione di emergenza, ma non è limitando le libertà costituzionali di tutti che si riesce a risolvere un problema di questo tipo”.