1. Una recente sentenza della Cassazione civile[1] ha puntualizzato, con grande chiarezza, il contenuto ed i limiti applicativi della contravvenzione prevista dall’art. 684 del codice penale.
Il S. C. era stato investito da un ricorso che impugnava la sentenza della Corte di Appello (conforme a quella del primo grado) che aveva escluso la sussistenza della contravvenzione, del delitto di diffamazione e di reati contro la privacy ravvisati dall’attore in tre articoli dello stesso quotidiano che avevano pubblicato stralci di un interrogatorio e per citazione diretta il contenuto di tre consulenze tecniche del P.M.
La Corte di Cassazione, rigetta il ricorso in tema di diffamazione, non ritenendo che l’attore avesse mai contestato la veridicità delle espressioni ritenute lesive, con ciò confermando il giudizio espresso dai Giudici di merito e destina la stessa sorte alla pretesa violazione della privacy, per la quale non ravvisa alcun elemento costitutivo.
La sentenza s’incentra, dunque, sulla contravvenzione, la cui configurabilità era stata esclusa dalle precedenti decisioni.
2. In particolare, la Corte d’Appello aveva sostenuto che:
a) gli atti riprodotti dal quotidiano erano già stati oggetto di deposito con l’avviso di conclusione delle indagini;
b) il divieto di pubblicazione è volto alla tutela delle regole del dibattimento che impongono al Giudice di formare il proprio giudizio esclusivamente sugli atti introdotti nel processo; tuttavia “quand’anche il giornalista estrapoli frasi testuali di documenti depositati, l’eventuale illiceità della loro diffusione va verificata nella menzionata prospettiva di evitare ogni indebita influenza esterna .. sul convincimento del giudice nel successivo dibattimento”;
c) la riproduzione degli atti per la sua limitatezza e per la diretta inerenza alla comprensione generale della vicenda non integrasse la contravvenzione prevista dall’art. 684 cod. pen. od un effettivo pericolo per la ritualità della formazione della prova in dibattimento.
Ci si avvede immediatamente che gli argomenti utilizzati dalla Corte territoriale prescindono dai dati normativi che regolano il divieto di pubblicazione di atti di un procedimento penale.
3. Su questo assunto, la Corte di Cassazione svolge diverse argomentazioni per dimostrare l’infondatezza ed erroneità della pronuncia di appello.
Esordisce affermando che è consentita la pretesa risarcitoria correlata unicamente alla violazione dell’art. 684 c.p.,, indipendentemente dalla sussistenza del reato di diffamazione eventualmente connesso. Si tratta, infatti, di una contravvenzione plurioffensiva che tutela, nella fase istruttoria, anche la dignità e la reputazione di tutti coloro che sotto differenti versi partecipano al processo[2].
Ricorda poi che il sistema è delineato dall’art. 114 del codice di rito (norma integrativa del precetto penale) che stabilisce: al comma primo il divieto assoluto di pubblicazione degli atti segreti, ai commi due e tre il divieto di riproduzione degli atti non più coperti da segreto (tali da considerare quelli giudicati, perché depositati all’indagato con l’avviso di conclusione delle indagini e, dunque, non più connotati dal segreto endoprocessuale) e con il comma 7 consente sempre la pubblicazione del mero contenuto (pertanto, non la citazione pedissequa) degli atti non coperti dal segreto.
Appare lampante che il fatto da giudicare s’inquadrasse nell’ambito dell’art. 114, co. 2; perciò fosse vietata la citazione testuale degli atti, così come operata dal quotidiano.
La Cassazione, infatti, censura la decisione di merito che, fondandosi sulla brevità della riproduzione e la sua funzionalità alla comprensione della vicenda, aveva escluso il reato.
Quanto alla nozione di limitatezza, la Corte ha rilevato che è estranea al modello legale disegnato dall’art. 114 c.p.p., per cui è priva di fondamento normativo e ad essa non può farsi riferimento per valutare la liceità o meno della pubblicazione. Ritiene irrilevante un precedente citato dalla Corte d’Appello[3], in quanto la frase riprodotta da un interrogatorio (“il minorenne ammette: ho colpito l’agente”), sebbene riportata fra virgolette, era la mera sintesi del contenuto delle dichiarazioni (dunque, riconducibile al disposto del comma 7 dell’art. 114 c.p.p.). Osservo, poi, che l’interrogatorio, in quanto è formato in presenza dell’indagato, non è atto coperto dal segreto endoprocessuale e, per tale ragione, non configura l’ipotesi del comma 2 dell’art. 114 c.p.p. che tratta di “atti non più coperti dal segreto”, ossia documentiche nascono segreti perdono tale qualifica a seguito del successivo deposito.
Infine, la S. C. contraddice l’ulteriore argomento della sentenza impugnata sostenendo correttamente come affermare che la citazione testuale sia funzionale alla migliore comprensione della vicenda sia caratteristica che appartiene a qualunque trascrizione di atti; per tale motivo non può derogare al dettato normativo generale dell’art. 114 c.p.p
[1] Cass., Sez. III civ., 31 ottobre 2014, dep. 20 gennaio 2015, n. 838
[2] La giurisprudenza di legittimità si era più volte espressa nello stesso senso: Cass. n. 17602/2013; Cass., Sez. pen., n. 42269 del 2004.; ed infine: Cass.., Sez. pen., n. 17051 del 2013
[3] Cass., Sez. pen., n. 43479 del 2013.